Questo articolo è un estratto in anteprima dell’ultimo numero della rivista GREEN, «La mezzaluna fossile», sotto la direzione di Paul Magnette, che presenterà il numero il 31 ottobre nei nostri incontri del martedì all’École normale supérieure

Uno degli aspetti più sorprendenti della questione climatica ed ecologica è che ormai non c’è difficoltà a immaginare un mondo decarbonizzato, un mondo in cui l’organizzazione socioeconomica allenti la pressione sull’ambiente, garantendo al contempo una vita dignitosa al maggior numero possibile di persone. Le attuali politiche di inazione, ritardo, negazione e relativizzazione, e l’accumularsi di disastri e conflitti, non sono dovute a una mancanza di possibilità oggettive: si stanno verificando proprio in un momento in cui stanno emergendo le conoscenze, le tecniche e gli accordi istituzionali necessari a una transizione rapida e rigorosa. Sebbene stiano rovesciando modelli economici e politici consolidati e interessi acquisiti, sono in grado di salvarci dalle conseguenze più drammatiche della crisi climatica.

L’immaginazione non è sufficiente in politica, ma lasciamola lavorare un momento. Il mondo idealmente ricostruito secondo l’imperativo climatico è un mondo in cui i beni pubblici – acqua, suolo, aria – sono protetti da un quadro giuridico e democratico vincolante, in cui i combustibili fossili non vengono quasi mai bruciati per riscaldare le case o produrre beni di consumo, perché la sostituzione rinnovabile è stata completata ovunque sia possibile, dove le infrastrutture di trasporto pubblico sono affidabili, uniformemente distribuite nello spazio ed efficienti, dove i sistemi alimentari sono in gran parte a base vegetale e locali, dove i processi industriali sono decarbonizzati, capaci di riutilizzare le risorse in modo ottimale e dove la distinzione sociale attraverso il consumo è marginalizzata.

L’elettrificazione1, la rigenerazione dei suoli e dei pozzi di carbonio, un’efficace combinazione di sobrietà e di sostituzioni tecniche, il tutto sostenuto da un forte coraggio politico, possono farci uscire da questo baratro. Così descritto, un mondo che ha reso pacifiche le sue relazioni con il pianeta non è affatto un’utopia. È piuttosto l’attualizzazione di possibilità molto concrete, in gran parte in linea con le promesse dei miglioramenti tecno-scientifici della vita quotidiana e della democratizzazione dello spazio pubblico. In breve, si tratta di una nuova fase della modernità, che Robert Boyer definisce «antropogenica»2 piuttosto che semplicemente competitiva, ma non certo una sfida sovversiva: lo Stato, la divisione del lavoro, la previsione dei rischi, la razionalizzazione dell’esperienza collettiva, l’ideale di giustizia e persino la competizione tra Stati sono ancora lì, nel cuore della storia, ma stanno semplicemente svolgendo nuove funzioni dettate dal presente.

Un mondo che ha reso pacifiche le sue relazioni con il pianeta non è affatto un’utopia

Pierre Charbonnier

Oggi siamo circondati dall’immaginario visivo e narrativo della catastrofe, e qua e là emergono alcuni scenari veramente utopici di ritorno alla natura o di abbandono più o meno totale del mondo industriale. Queste possibilità, che sono al tempo stesso le meno desiderabili e le meno realistiche, lasciano poco spazio a un immaginario culturale in cui prevalga lo scenario rapidamente tratteggiato sopra. Con l’eccezione, ad esempio, della corrente Solarpunk, difficilmente presente nelle grandi produzioni cinematografiche, nelle piattaforme di distribuzione dei contenuti, nella pubblicità o nella comunicazione politica mainstream, l’idea stessa di un mondo condiviso sostenibile non sembra attecchire nella coscienza collettiva. Si tratta di una sconfitta ideologica che si riflette nelle rappresentazioni culturali? Sappiamo fino a che punto il sogno modernista della città, dell’emancipazione attraverso il consumo, della libertà di movimento, è stato promosso nel XIX e XX secolo attraverso la produzione di immagini e di discorsi dominanti3.

Sappiamo che per far esistere una realtà bisogna prima rappresentarla. Allora perché non siamo bombardati quotidianamente da un arsenale mediatico di immagini, storie, personaggi e simboli che convergono a formare un sistema visivo in cui proliferano pale eoliche, fattorie rigenerative, edifici a emissioni zero e treni ad alta velocità? Perché il modello sociale della condivisione, dell’efficienza e della sobrietà non è oggetto di una vasta campagna di comunicazione, o addirittura, diciamo così, di propaganda? Perché c’è questo sorprendente sottoinvestimento, anche da parte di chi dovrebbe promuovere la transizione, nell’immaginario del mondo post-carburanti? Il movimento per il clima, in particolare, si limita spesso a un catechismo accusatorio che, pur nominando i giusti nemici – il sistema economico e politico che sostiene i combustibili fossili – continua a invocare la difesa del pianeta o degli esseri viventi come causa in sé, un principio di azione tanto vago quanto privo di presa sulla realtà delle cose e sugli interessi.

Ci troviamo quindi in una situazione in cui gran parte della popolazione sa che il modello socio-economico in cui vive non è sostenibile, ma non ha idea di come potrebbe essere il mondo verso cui dobbiamo muoverci. Come possono quindi desiderare quel mondo? Come può scambiare una realtà instabile ma tangibile con un’altra totalmente astratta e poco attraente? In assenza di questo mondo immaginario, il mondo obsoleto dei combustibili fossili – automobili, aerei, carne, villette a schiera… – mantiene il suo potere di attrazione e, peggio ancora, diventa un bastione da difendere nel contesto di una guerra culturale.

Per far esistere una realtà bisogna prima rappresentarla

Pierre Charbonnier

La spiegazione di questo paradosso – quello di un mondo oggettivamente desiderabile ma soggettivamente indesiderabile – potrebbe risiedere nell’entità degli ostacoli che si frappongono a questa democrazia simbiotica. Anche supponendo che l’obiettivo finale sia raggiungibile e goda di consenso, gli ostacoli socio-economici che ci tengono lontani da queste potenzialità potrebbero generare disfattismo e scoraggiamento. Possiamo certamente immaginare un paesaggio trasformato dalla rivoluzione ecologica, ma non possiamo mobilitare le persone perché siano loro a esigerla o costruire il blocco sociale che la porterà avanti. La forza di attrazione dell’ideale verrebbe così annullata o sminuita dall’idea che questo mondo desiderabile e possibile, persino necessario, rimanga lontano e improbabile. È quindi forse giunto il momento di comprendere meglio questi ostacoli, di dimostrare che possono essere superati, affinché l’immaginario culturale e politico di un mondo post-fossile possa finalmente trovare spazio nella nostra vita quotidiana. Perché, ripetiamo, non c’è nessuna impasse climatica, se non nella nostra incapacità di credere nel nostro potere di trasformazione.

Konstantin Yuon, The Symphony of Action, 1922.

Capire la falla dell’immaginario ecologico

Innanzitutto, va detto che questo percorso è reso complesso da ostacoli strutturali, legati alle aspettative collettive e alle forme di azione politica che predominano nel mondo sociale in cui si manifesta la crisi climatica. Uno dei principali è il dibattito tra gradualismo e radicalismo. Da un lato, c’è un gruppo di attori che raccomanda cautela nell’azione trasformativa: per non offendere troppi interessi, e quindi non compromettere le fasi successive della transizione, sarebbe necessario procedere con cautela, raccogliendo prima i frutti di misure bipartisan che sollevano poca o nessuna opposizione. Il gradualismo sostiene una strategia socialmente realistica, che mira a non infiammare l’elettorato e a costruire, necessariamente in modo lento, un’opinione pubblica ricettiva ai benefici della transizione. I radicali, invece, mettono in primo piano l’imperativo assoluto della transizione e la sua urgenza, accettando di sconvolgere temporaneamente gli interessi esistenti in nome di un obbligo che mette in ballo la sopravvivenza stessa4. L’equilibrio tra gradualismo e radicalismo è alla base di gran parte del discorso politico odierno sul clima e determina le posizioni assunte nei confronti del capitalismo, dello Stato e della mobilitazione sociale. C’è un gradualismo ipocrita, che contribuisce a dare credito agli interessi dei combustibili fossili partendo dal presupposto che nemmeno loro possono essere troppo offesi; c’è invece un radicalismo incantatorio, disattento alle leve sociali di trasformazione su cui può effettivamente contare. Soprattutto, questa polarità tende a creare le condizioni per un artificioso attendismo, poiché ciascuna delle due parti utilizza l’esistenza dell’altra come scusa per non intraprendere un percorso di trasformazione che, lento o veloce che sia, sia almeno tangibile.

L’equilibrio tra gradualismo e radicalismo è alla base di gran parte del discorso politico odierno sul clima

Pierre Charbonnier

Questo dibattito è a sua volta inserito in una riflessione più metapolitica sulla natura della sfida che abbiamo di fronte. Una delle caratteristiche destabilizzanti della questione climatica è che tende ad assolutizzare la posta in gioco. Mentre in passato i conflitti politici coinvolgevano gruppi sociali ben identificati, siano essi ordini, gruppi religiosi, classi o nazioni, la crisi climatica introduce una forma di politicizzazione in cui è coinvolta l’umanità come categoria astratta e in cui il teatro su cui si combatteva è ora parte della trama. Da qui l’arretramento di categorie di pensiero teologico-politiche come la salvezza o tutto il lessico della fine del mondo, del cosmico. Questo non vuol dire che le disuguaglianze socio-economiche intra e internazionali siano obsolete, tutt’altro, ma che la riflessione sulle fratture interne al mondo sociale deve essere rivisitata alla luce di un’esperienza che va ben oltre il suo quadro di riferimento. Con l’ingresso nell’Antropocene, le appartenenze sociali, gli interessi e le logiche di coalizione e opposizione, ereditate dal passato, vengono stravolte – e rimesse in gioco. La conseguenza più visibile di questa trasformazione è che lo spazio politico ufficiale, fatto di partiti, promesse e programmi, si trova in contrasto con un nuovo imperativo che non ha una clientela sociale precostituita. Non esiste una «classe geosociale», per usare il termine di Bruno Latour5, non esiste nemmeno un blocco socio-ecologico visibile che abbia raggiunto la massa critica, e di conseguenza non c’è un portavoce legittimo per questo tema.

A sua volta, questa domanda ne solleva un’altra. Uno dei presupposti per radicare nella società questa nuova serie di questioni politiche – e quindi per potervi rispondere – è l’esistenza di uno spazio pubblico sano, strutturato da un sistema scolastico funzionante e da un’economia mediatica ragionevolmente indipendente. In altre parole, abbiamo bisogno di un pubblico sufficientemente formato e integrato per far sì che le trasformazioni in atto non appaiano aberranti, fonte di anomia o, peggio, una minaccia. Il sogno repubblicano di un’educazione generalizzata e di una democratizzazione delle competenze per decodificare il mondo assume tutto il suo significato nel contesto di una crisi epistemologica e sociale come quella che stiamo vivendo. Da questo punto di vista, dobbiamo ammettere che la crisi del clima politico è arrivata nel momento peggiore (o, più radicalmente, che il suo sviluppo incontrollato è una conseguenza della disintegrazione della sfera pubblica). Nella maggior parte dei Paesi cosiddetti sviluppati, gli investimenti in capitale umano sono in territorio negativo, tendendo ad aumentare le disuguaglianze nell’accesso alle conoscenze essenziali e a compromettere la capacità collettiva di entrare nell’Antropocene6. La stampa è in gran parte nelle mani di un’oligarchia finanziaria che non si fa scrupolo di sfruttarla per i propri interessi immediati7. Anche i social network possono alimentare questa anomia, rendendo meno netto il confine tra informazione e brusio di fondo. In queste condizioni, è improbabile che emerga lo spazio pubblico necessario alla formazione di un ideale sociale di transizione.

Il sogno repubblicano di un’educazione generalizzata e di una democratizzazione delle competenze per decodificare il mondo assume tutto il suo significato nel contesto di una crisi epistemologica e sociale come quella che stiamo vivendo

Pierre Charbonnier

Il quarto e ultimo aspetto di queste coordinate strutturali che ostacolano lo sviluppo di una reale politicizzazione del clima è l’incertezza più o meno deliberata sui benefici della trasformazione ecologica. Per molti – compresi, sorprendentemente, gli ecologisti – la transizione è tanto un rischio quanto un’opportunità. Mentre c’è accordo, al di fuori delle lobby, sulla necessità di fare a meno dei combustibili fossili, non c’è accordo ad oggi sui metodi di sostituzione energetica e tecnica, o sull’entità della leva fornita dalla sobrietà scelta: in breve, qual è la quota rispettiva di innovazione/sostituzione e sobrietà nel processo di decarbonizzazione? Gli ambientalisti, spesso innamorati del sogno edenico di una vita discreta e senza problemi, sono restii ad approvare la svolta energetica delle rinnovabili: spesso fanno notare che le turbine eoliche occupano spazio e richiedono materiali, che le fabbriche di batterie e le miniere di litio inquinano, che l’apertura di nuovi settori industriali e l’innovazione tecnologica che li sostiene sono troppo simili alle soluzioni del passato. L’evidente imperfezione della transizione, il fatto che a volte sposti più che invertire le depredazioni ambientali8, oscura la necessità cruda, evidente e massiccia della decarbonizzazione e dell’economia dei materiali, e ancor più l’opportunità socio-economica che vi sta dietro. Storicamente, l’ambientalismo è nato in Europa come critica alla modernità industriale e il fatto che le politiche climatiche abbiano oggi il volto della sua rinascita sta infliggendo un elettroshock ai suoi protagonisti. In altre parole, c’è ambiguità, anche e soprattutto in quei segmenti dell’arena politica che sono in grado di difendere la transizione. I Verdi europei stanno forse inondando l’arena politica con immagini del mondo post-carburanti? Questo è accaduto solo nel contesto della guerra in Ucraina9. Li vediamo rivendicare l’autorevolezza intellettuale e politica per proiettarsi in un futuro sicuro? No. Se non riescono a farlo, è abbastanza facile per gli oppositori della transizione accusarla di tutti i mali: aumento dei prezzi dell’energia, minacce alla sicurezza degli approvvigionamenti, minacce all’occupazione e alla crescita – tutto può essere imputato alla transizione se non viene presentata al pubblico con l’energia adeguata.

Questi quattro ostacoli, queste quattro condizioni sfavorevoli alla transizione, per così dire, relativizzano senza dubbio la nostra osservazione iniziale secondo cui non esiste un’impasse climatica. In realtà, capiamo che se c’è un’impasse, non si trova a livello di fattibilità tecnica e istituzionale – abbiamo a disposizione le macchine e il quadro normativo per realizzarla, e non c’è una profonda impossibilità antropologica – e nemmeno a livello di desiderabilità oggettiva, ma a livello di mobilitazione degli interessi. Il fallimento dell’immaginazione politica è quindi legato al deterioramento delle condizioni sociali generali, all’incapacità di creare e diffondere un messaggio chiaro e sufficientemente universale da avere un effetto trainante sulle aspettative e sulle pratiche collettive. Ma questa constatazione non fa che rendere il fallimento dell’immaginazione ancora più deplorevole, e potremmo dire ancora più esasperante, perché potrebbe benissimo supplire all’attuale mancanza di mobilitazione per la transizione.

La necessaria trasformazione dei discorsi politici

Per convincerci che l’impasse climatica è solo relativa, o soggettiva, e quindi per credere nei nostri poteri di trasformazione, è essenziale che la comunità politica sia consapevole sia della natura degli ostacoli da superare sia del fatto che possono essere superati. Affinché emerga e si diffonda un certo livello di fiducia in un percorso di transizione, è necessario, in altre parole, che la guerra del clima appaia per quello che è, e che appaia come se potesse essere vinta. La descrizione della linea del fronte, se vogliamo estendere questa metafora, è quindi necessaria per identificare i possibili punti di sfondamento tra status quo e trasformazione, e le forze da impegnare in ciascuno di essi.

La transizione verso un sistema di produzione e distribuzione della ricchezza e verso un sistema di libertà pubbliche a basse emissioni di carbonio e sostenibile dipende fondamentalmente dall’arte di gestire i dilemmi che essa crea. Questi dilemmi li affrontiamo quotidianamente: ci chiediamo come mantenere l’occupazione e lo sviluppo umano senza ricorrere alle infrastrutture ereditate dal passato; come finanziare questa transizione senza gravare troppo sui bilanci delle famiglie; come articolare la reindustrializzazione delle economie nazionali senza compromettere la cooperazione internazionale con un eccessivo protezionismo; come integrare le nuove pratiche di consumo, di viaggio e di alimentazione nelle esperienze ordinarie della popolazione senza provocare una guerra culturale o un senso di declassamento. Questi dilemmi sono al centro di nuovi movimenti sociali come i gilet gialli in Francia, le rivolte per il prezzo dei beni di prima necessità che stanno attraversando il mondo e i conflitti internazionali sull’innovazione tecnologica.

Per convincerci che l’impasse climatica è solo relativa, o soggettiva, e quindi per credere nei nostri poteri di trasformazione, è essenziale che la comunità politica sia consapevole sia della natura degli ostacoli da superare sia del fatto che possono essere superati

Pierre Charbonnier

Per allentare la pressione sugli ambienti naturali e preservare i beni pubblici globali come l’atmosfera, gli oceani e, più in generale, le funzioni ecologiche di base che garantiscono l’abitabilità del pianeta, abbiamo bisogno, in altre parole, di un’arte politica di compromesso tra nazioni, tra classi sociali e tra settori di influenza. In altre parole, abbiamo bisogno di una coalizione post-fossile che sia più potente di quella fossile del passato10. Stiamo iniziando a intravedere il dispiegamento di quest’arte politica nelle strategie industriali e climatiche degli Stati Uniti, della Cina e dell’Unione Europea, ma queste strategie non hanno ancora raggiunto la loro velocità e massa critica, il punto in cui imprimono il loro movimento alla società nel suo complesso. Ecco perché ci troviamo in quella che potremmo definire una «strana guerra climatica»: sappiamo che il conflitto è iniziato, che il vecchio ordine non tornerà, ma siamo ancora a metà strada, i vincitori e i vinti non sono stati dichiarati, i colpi più duri non sono ancora stati sferrati. Il recente discorso sullo Stato dell’Unione del Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, testimonia questa situazione intermedia: l’orizzonte storico era stato definito dal Green Deal e da un primo ciclo di finanziamenti stimolato dalla situazione della guerra in Ucraina (RePowerEU, NZIA), ma la rivolta della destra europea, che solleva la minaccia di una transizione destabilizzante e chiede un rallentamento delle misure, ha contribuito a raffreddare l’establishment11.

Konstantin Yuon, People, 1928.

Aumentando artificialmente il costo politico della transizione e fomentando le paure di una società post-carburanti ingovernabile o indesiderabile, le destre europee aumentano il costo futuro dei disastri. Ecco perché un’analisi lucida di questa transizione, nelle sue varie dimensioni industriali, finanziarie, scientifiche e geopolitiche, non può assumere la forma di un confronto neutrale di costi e benefici. Deve dimostrare in modo performativo come la transizione possa essere gestita in modo da ridurne il costo socio-politico, costruendo una coalizione di interessi sociali che ne beneficeranno e, in ultima analisi, la richiederanno12. La proliferazione di discorsi autocelebrativi sulla grande marcia verso l’innovazione e lo sviluppo industriale verde riflette lo squilibrio tra la facilità di definire un orizzonte tecnico e industriale per la decarbonizzazione e la difficoltà, nell’attuale quadro politico, di definire i contorni di questa coalizione. L’Unione Europea, e forse anche gli Stati Uniti, stanno definendo un programma di riconversione adeguato al vincolo climatico, ma non pensato per rispondere alle esigenze di giustizia che animano la società e la forza lavoro. Un programma, in altre parole, che rischia di girare a vuoto.

I tre perni del problema climatico

Ancora una volta, la via d’uscita da questi incantesimi è l’abbandono di una concezione fatalistica della transizione. Sia che la si veda come una marcia automatica della storia, secondo una nuova teleologia verde, sia che la si veda come una radicale impossibilità socio-economica, come nel caso dei partiti di destra fossilizzati in quasi tutto il mondo, il difetto è lo stesso: le forze sociali rimangono assenti dall’equazione. Dobbiamo quindi esaminare ciascuno dei tre principali punti di svolta storici che si stanno dispiegando sotto i nostri occhi intorno al problema del clima per comprendere meglio la linea del fronte su cui dobbiamo combattere e come le forze sociali reali possano trovare la loro strada e mobilitarsi, per il clima e per loro stesse.

Questi tre perni sono di ordine geopolitico, socio-economico e culturale – in assenza di un termine migliore

Possiamo iniziare con la scala geopolitica, o internazionale, nella misura in cui è la più ampia. La storia e i problemi della crisi climatica sono in gran parte una questione di guerra e di pace, una questione che mette in gioco il fondamento degli Stati moderni, ossia il principio di sicurezza. In effetti, fin dall’Illuminismo e dalla nascita dell’economia politica moderna, è stato accettato dalla maggior parte delle élite politiche che il miglior sostituto della guerra è il commercio, e che l’estensione dei canali commerciali permette sia di migliorare le connessioni tra gli esseri umani sia di addomesticare ulteriormente la natura13. L’aspetto fantastico della società mercantile, così come è stata concepita da Hume e Smith e successivamente da Bentham e Spencer, nonché da teorici socialisti come Saint-Simon e Marx, è che unifica contemporaneamente l’umanità e trasfigura una natura ritenuta pericolosa dalle forze produttive. La moderna teodicea del progresso è in gran parte motivata dai dilemmi dello Stato territoriale, ossia dalla necessità di creare una cooperazione tra le nazioni su un unico pianeta finito, preservando al contempo un vantaggio interno. Nel corso del XIX secolo, con lo sviluppo dei combustibili fossili, l’utopia commerciale si è trasformata in utopia industriale14, e la vocazione storica dell’umanità è stata quasi universalmente identificata con lo sforzo produttivo, che si pensava avesse una virtù pacificatrice e civilizzatrice. La tendenza a eliminare la violenza sostituendo la guerra con la produzione si è radicata nel sistema internazionale, sotto forma di apertura del commercio mondiale, trasferimenti di tecnologia e aiuti allo sviluppo. Paradossalmente, però, questo ideale è diventato il principale ostacolo all’azione per il clima, poiché lega la stabilità del sistema internazionale al perseguimento di una mobilitazione produttiva totale. Questo legame tra stabilità internazionale e intensità fossile si manifesta anche in termini negativi: ad esempio, annullare i contratti di fornitura energetica, rifiutare l’importazione di beni in nome del clima, scegliere i partner in nome dei principi ambientali, equivale a dichiarare guerra – o almeno a mettere in discussione l’ordine internazionale così come è stato modellato dopo la Seconda guerra mondiale.

Nel corso del XIX secolo, con lo sviluppo dei combustibili fossili, l’utopia commerciale si è trasformata in utopia industriale, e la vocazione storica dell’umanità è stata quasi universalmente identificata con lo sforzo produttivo, che si pensava avesse una virtù pacificatrice e civilizzatrice

Pierre Charbonnier

In questo contesto, le strategie di transizione industriale stanno creando un nuovo dilemma geopolitico, che può essere riassunto come segue. La questione climatica richiede un alto livello di coordinamento internazionale, perché è nell’interesse comune dell’umanità, perché le emissioni di CO2 e il clima sono indifferenti ai confini territoriali tra gli Stati e perché è necessario negoziare un’equa ripartizione degli oneri tra le nazioni. Nella misura però in cui la decarbonizzazione dell’economia deve essere integrata nella ricerca di legittimità da parte di coloro che vogliono accedere al potere (devono essere in grado di farsi eleggere sulla base di un programma climatico), ogni nazione tende a voler catturare per sé i benefici socio-economici di questa transizione – e a scaricare gli svantaggi sugli altri. Il risultato di questo dilemma è molto evidente nel discorso politico dominante su questi temi, sia che si tratti di Emmanuel Macron e del suo nuovo slogan «l’écologie à la Française»15, sia che si tratti del recente discorso di Rishi Sunak nel Regno Unito, che subordina l’azione per il clima allo sviluppo di industrie nazionali della green tech16.

Questo dilemma geo-ecologico sta plasmando le relazioni internazionali, come dimostrano i conflitti economici tra USA, UE e Cina, alimentati in particolare dall’IRA e dal Green Deal, ma anche l’atteggiamento di chi, nel Sud del mondo, cerca un percorso di sviluppo sostenibile nel contesto della guerra in Ucraina. È questa l’ipotesi che proponiamo sulla rivista GREEN.

Ad oggi, tuttavia, non esiste una vera e propria sintesi dottrinale proposta dal movimento democratico e sociale, che permetta di integrare la sua strategia politica in questo insieme di vincoli storici. Se vogliamo trovare una via d’uscita dal dilemma climatico internazionale, dobbiamo trovare un equilibrio tra la pressione che dobbiamo esercitare sui nostri partner economici e politici che sono eccessivamente dipendenti dai combustibili fossili e l’assistenza, altrettanto necessaria, che i Paesi più sviluppati devono fornire agli altri per accelerare la loro decarbonizzazione. Così, ad esempio, l’attuale tendenza al protezionismo ecologico, sostenuta da quasi tutto lo spettro politico, può essere coerente solo se corrisponde all’emergere di una coalizione interstatale decisa a diffondere standard produttivi decarbonizzati attraverso strumenti normativi e doganali. Dobbiamo quindi domandarci se l’UE abbia il potere economico sufficiente per farlo o se invece debba allearsi con altri partner a tal fine e, in caso affermativo, chiederci quali. Oltre a questo uso strategico del potere economico, che rischia di creare frustrazioni e persino ritorsioni, i Paesi ricchi devono porre fine alla loro riluttanza a impegnarsi nei trasferimenti di tecnologia e nell’assistenza all’adattamento, ossia in misure più positive che potrebbero sia attenuare le rivalità generate dalle misure punitive sia anticipare i rischi futuri.

L’equilibrio tra queste due sfere d’azione deve essere definito dalla razionalità strategica, vale a dire un equilibrio tra promesse e minacce.

Sul fronte socio-economico, molto è già stato scritto per alimentare il dibattito sulla compatibilità tra la fine del mondo e la fine del mese. In Abondance et liberté, ho sviluppato una riflessione sul processo storico che ha portato alla confisca delle strutture dello Stato sociale da parte della crescita fossile, e oltre a ciò alla formazione di un immaginario sociale di emancipazione attraverso il consumo, strumento di distinzione e leva di negoziazione socio-politica.

A questo proposito si possono fare tre considerazioni, simili a quanto detto in precedenza per la geopolitica. In primo luogo, si tratta di un’eredità storica che deve essere reinventata; in secondo luogo, la questione assume fondamentalmente la forma di dilemmi che devono essere risolti; in terzo luogo, non esiste una sintesi teorica e politica completa.

Per quanto riguarda il primo punto, è ormai chiaro che nel contesto delle democrazie sociali, dove il bilancio dello Stato è destinato a sostenere i costi della transizione e dell’esposizione a nuovi rischi, l’aggravarsi della crisi climatica rappresenta un’ulteriore minaccia al suo equilibrio. Non appena si solleva la questione del cambiamento climatico, si assiste a un diffuso fenomeno di ricatto sul finanziamento delle prestazioni sociali: come rallentare il ritmo di produzione di automobili o di aerei di linea in questo contesto, visto che lo Stato ha bisogno di entrate? Più in generale, come mettere in discussione i motori della crescita se la transizione energetica rappresenta un crescente onere di bilancio? Questo dilemma può essere applicato alla questione dell’occupazione: come possiamo accettare la perdita di posti di lavoro nei settori che emettono di più se dobbiamo costruire una piattaforma politica per la transizione che si rivolga alle classi medie e basse già colpite dalla disoccupazione e dalla precarietà del lavoro? È sorprendente notare che la crisi climatica si sta verificando in un momento in cui l’indebolimento dei servizi pubblici è già un fenomeno relativo piuttosto che assoluto: la loro efficacia sta diminuendo perché i bisogni crescono più velocemente delle strutture17, e sappiamo quanto questo processo sia stato utilizzato in passato per costruire un discorso sulla loro inefficienza strutturale. Un meccanismo simile di messa in discussione dell’accesso ai diritti e alle infrastrutture pubbliche attraverso la questione climatica è già in atto, ed è chiaramente urgente rispondervi.

Non appena si solleva la questione del cambiamento climatico, si assiste a un diffuso fenomeno di ricatto sul finanziamento delle prestazioni sociali

Pierre Charbonnier

Come nel caso delle relazioni internazionali, i dilemmi sono reali ma non insolubili. Inizialmente, è possibile allentare la morsa dimostrando che l’emancipazione dai modi di produzione e di consumo più dannosi per il clima e la biodiversità ha importanti co-benefici, soprattutto in termini di salute. Ma questo da solo non basta a ristabilire l’equilibrio. In secondo luogo, e questo è un argomento che oggi è diventato onnipresente, possiamo dimostrare che il processo di distruzione creativa che porta alla chiusura dei settori ad alta intensità di carbonio per aprire canali di produzione e consumo alternativi crea ricchezza. Anche in questo caso, però, l’equilibrio non è stato completamente ristabilito, soprattutto perché la fase di transizione stessa è piuttosto costosa18, se dobbiamo finanziare e sostenere nuovi programmi di formazione e riqualificazione della forza lavoro. Se vogliamo rientrare nei limiti del pianeta dovremo modificare seriamente la scala dei flussi materiali che strutturano la nostra realtà economica, ovvero adottare meccanismi di sobrietà basati sulla disciplina dei comportamenti individuali e sullo sviluppo di meccanismi di condivisione e cooperazione. In questo contesto, il rinnovamento industriale e la crescita verde possono avere solo un effetto limitato sulle strutture generali dell’economia nazionale, e i meccanismi di indebitamento e tassazione devono essere rimessi sul tavolo, insieme allo sviluppo di una razionalità macroeconomica compatibile con gli obiettivi climatici19: emancipazione dal PIL, non contabilizzazione degli investimenti climatici nel bilancio nazionale, sviluppo della doppia materialità.

Il motivo per cui non esiste ancora una sintesi teorica e strategica per navigare tra le incertezze e i rischi della transizione è che lo spettro politico è ora diviso tra un blocco impegnato a dimostrare i benefici economici della transizione (porterebbe crescita, posti di lavoro, innovazione, competitività, in altre parole tutto ciò che la dottrina economica classica raccomanda) e un blocco di opposizione che è essenzialmente impegnato a criticare le patologie economiche e gli interessi acquisiti. Il difetto principale dei primi, che si trova soprattutto al centro e tra alcuni ecologisti, è che promettono di reinventare l’economia politica classica intorno alla decarbonizzazione, anche a costo di semplificarsi le cose percependo solo quegli aspetti della crisi oggettiva che possono essere facilmente incorporati in una dottrina preesistente. La transizione sarebbe quindi una panacea un po’ troppo miracolosa. Per quanto riguarda i secondi, i loro limiti variano a seconda della loro cultura politica, socialista o ecologista. I primi – in Francia, il movimento della France Insoumise – tendono a considerare la crisi ecologica come una crisi esogena: viene da altrove, da interessi privati, da influenze straniere, da strutture economiche esterne al corpo sociale o al «popolo». Questo è ovviamente un limite importante, perché ci impedisce di analizzare le ragioni per cui la coalizione dei combustibili fossili si sta diffondendo in ampi settori di questo famoso popolo, per cui le automobili, i barbecue, le caldaie a gas e i weekend di Easyjet sono un nemico interno da eliminare20. In queste condizioni, la tempestiva promozione della pianificazione ecologica da parte di questo movimento è in contrasto con il discorso politico generale, rendendolo di difficile lettura. Per quanto riguarda gli ecologisti, l’impasse è opposta: questo movimento investe soprattutto una critica del comportamento dei consumatori, che ha provocato per lungo tempo un rifiuto dei gruppi sociali più prigionieri delle emissioni vincolate e delle prospettive di distinzione attraverso il consumo – proprio le persone che dovrebbero essere inserite nella coalizione ecologica.

Non esiste una soluzione miracolosa a questi dilemmi, per definire il giusto equilibrio tra le opportunità molto concrete della transizione e gli sconvolgimenti non meno prevedibili che essa comporterà. Tuttavia, è possibile presentare meglio le diverse opzioni in termini di scelte tecnologiche, strategie industriali, meccanismi di sostegno e adattamento, in altre parole ricostruire un progetto di Stato sociale incentrato su questa transizione21. È anche possibile, in misura crescente dal 2022, collegare la necessaria transizione ai rischi su scala più ampia, in particolare all’influenza ideologica della Russia e degli attori internazionali che intendono prolungare l’esistenza della civiltà fossile22, ricostruire l’imperativo ecologico come principio di sicurezza e stabilità, e quindi renderlo un elemento costitutivo della legittimità e dell’autorità politica, al centro dello Stato e delle sue missioni, al centro della produzione del futuro collettivo. Un principio, in altre parole, in nome del quale si possono fare alcuni sacrifici temporanei e controllati, se adeguatamente distribuiti in un periodo di profonda crisi. Le politiche climatiche si inseriscono così in una narrazione più ampia di lotta all’estrema destra e di reinvenzione di nazionalità e confini.

È possibile ricostruire un progetto di Stato sociale incentrato su questa transizione

Pierre Charbonnier

Il terzo e ultimo angolo di questo triangolo della politica climatica è quello culturale. Uso questo termine per riferirmi a quelle che oggi sono comunemente conosciute come «culture wars», cioè lo sviluppo di identità sociali molto forti che si oppongono ferocemente l’una all’altra e che vengono ovviamente sfruttate dagli attori politici per portare avanti la loro agenda. Un assaggio di questa guerra culturale si ha nell’infinito dibattito sul consumo di carne e sul simbolo culturale del barbecue, ma sta rapidamente diventando il fulcro di una più ampia divisione sociale sulla transizione. In Francia, durante il movimento dei Gilets Jaunes, e parallelamente all’emergere di un conflitto socio-economico sulla distribuzione dello sforzo ecologico, avevamo già intravisto alcuni aspetti della guerra culturale sull’ecologia, con l’espressione di un sentimento di abbandono di gruppi sociali che si considerano periferici, distanti dai centri della decisione, della conoscenza e della comunicazione. Questa fase aveva già lasciato l’impressione che la transizione ecologica potesse risuonare solo all’interno di un’élite culturale urbana, a scapito di chi era rimasto indietro.

Il primo punto da notare sulla battaglia culturale che si sta combattendo sull’ecologia è che la strategia storica dell’ambientalismo europeo è fallita. Questa strategia è stata caratterizzata dall’idea di una «guerra culturale», secondo la quale un cambiamento graduale delle norme di comportamento, dei consumi e delle aspettative sociali sarebbe avvenuto sotto l’egida di un’avanguardia verde – un po’ come l’emergere delle forme di cortesia descritte da N. Elias. Ma se l’ecologia è una questione fortemente culturale e se questa dimensione della guerra climatica si sta intensificando sotto i nostri occhi, è proprio perché la trasformazione delle norme sociali non è mai un processo pacifico e uniforme: nella fattispecie, il fatto che l’avanguardia culturale in questione sia composta principalmente da persone piuttosto privilegiate tende ad associare lo stile di vita ecologico a questi privilegi e, allo stesso modo, a suscitare la reticenza dei gruppi meno privilegiati.

Ma se l’ecologia è una questione fortemente culturale e se questa dimensione della guerra climatica si sta intensificando sotto i nostri occhi, è proprio perché la trasformazione delle norme sociali non è mai un processo pacifico e uniforme

Pierre Charbonnier

Negli Stati Uniti, questa guerra culturale è diventata un elemento assolutamente centrale nella vita politica, almeno a partire dalla campagna presidenziale di Trump. Nel 2016, ad esempio, il miliardario Charles Koch, che ha fatto fortuna con il petrolio, ha espresso la sua preoccupazione per le politiche climatiche, che a suo avviso avrebbero colpito duramente le classi lavoratrici dipendenti dall’energia a basso costo (e lui stesso allo stesso tempo23). La società e la transizione climatica sono quindi strette nella morsa di un’alleanza tra le élite dei combustibili fossili e le classi lavoratrici, i cui interessi convergono per forza di cose, e la cui espressione più evidente su base quotidiana è la ripetuta insistenza, da parte della destra e dell’ecosistema mediatico che sostiene, nel descrivere qualsiasi azione climatica come un crimine contro i valori tradizionali della gente comune. L’accenno del Presidente francese Macron alla cultura dell’auto nella sua recente apparizione sui media («Amo l’auto») è una nuova manifestazione di questa battaglia culturale: è ormai quasi impossibile non rassicurare le abitudini dell’era fossile, per evitare il doloroso contraccolpo della transizione.

Konstantin Yuon, People of the Future, 1929.

Ancora più sorprendente è il fatto che gran parte di questa battaglia culturale si concentri sull’aspetto estetico della transizione. È vero che lo sviluppo dell’energia eolica e il crescente protagonismo di questi moderni mulini a vento nell’ambiente visivo degli abitanti delle campagne costituiscono una trasformazione assolutamente gigantesca della vita quotidiana. La critica a questo fastidio estetico è diventata quindi un elemento centrale dei movimenti di destra e di estrema destra, che potevano vantare un discorso di conservazione dell’ambiente e allo stesso tempo dare garanzie alla coalizione fossile24. Il grande vantaggio dei combustibili fossili era che la loro enorme concentrazione e il fatto che venissero estratti al di fuori dei nostri confini li rendeva praticamente invisibili, con l’effetto paradossale di liberare il nostro ambiente dalla morsa energetica. È così che, combinando i timori per la transizione con gli appelli ai valori tradizionalisti e all’egoismo NIMBY, l’estrema destra è diventata una scelta elettorale di massa tra i gruppi sociali più dipendenti dai combustibili fossili. Il fattore strettamente socio-economico è infatti abbinato a un elemento di politica identitaria assolutamente centrale.

L’Europa deve prepararsi all’assalto di questa guerra culturale. Di recente, la Presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha chiesto a U. Von Der Leyen di rallentare il suo programma di regolamentazione ambientale, adducendo il timore di un’ondata populista innescata, ancora una volta, da paure di destabilizzazione25. In altre parole, la destra si sta riorganizzando intorno alla resistenza alle politiche climatiche su una base ideologica che ha una dimensione economica, ma che si esprime soprattutto nella frustrazione culturale delle classi medie e lavoratrici (o meglio nella loro strumentalizzazione).

Quale dovrebbe essere la strategia per affrontare questa guerra culturale? Il punto più ovvio è che è imperativo per gli attori e i promotori della transizione liberarsi degli stereotipi culturali che generalmente le vengono attribuiti: quello di una borghesia urbana istruita che investe nello stile di vita ecologico come strategia di distinzione. Al contrario, non ha senso rassicurare chi ha lo stereotipo opposto, perché è più uno stereotipo che una realtà sociale coerente. Nel suo recente libretto, Léa Falco dà un’indicazione teorica e strategica fondamentale: quella che lei chiama «ecologia progettuale» significa che il cambiamento delle abitudini non può assumere la forma di un’esplicita acquiescenza, ma di una riorganizzazione dei modi di produzione, circolazione e consumo per difetto26. Ecco alcuni esempi: la carne deve essere più costosa e di migliore qualità per limitare la domanda, gli imballaggi sfusi devono essere diffusi dai distributori, le auto elettriche devono essere più economiche e comode da usare rispetto a quelle a combustione, il trasporto pubblico deve essere ancora più economico e comodo dell’auto privata, e così via. È l’architettura degli standard e l’organizzazione delle infrastrutture fisiche che deve incorporare i principi ecologici, esattamente come il consumo di energia è stato imposto di default in passato. Non è quindi necessario che i cittadini adottino una posizione culturale molto forte, e il fronte di battaglia si sposta dall’arena culturale all’arena politica (poiché le battaglie politiche devono essere vinte per imporre gli standard descritti sopra all’industria).

Per completare questa strategia di de-drammatizzazione dei conflitti identitari che cominciano a sorgere intorno alla transizione, e per tornare alle prime righe di questo testo, dobbiamo investire nello sviluppo di un immaginario politico specifico di un’ecologia sociale costruttiva. Una terza cultura ecologica, per così dire, che non sia né idealismo di protesta né disfattismo catastrofista, ma che riprenda, affini e sviluppi i codici estetici e narrativi del movimento Solarpunk mostrando i risultati reali di una strategia industriale verde per la città, i trasporti, il lavoro e l’agricoltura. Se ci sarà una battaglia culturale sull’ecologia, tanto vale affrontarla con le armi giuste.

Imporre i termini del dibattito

Non esiste quindi un’impasse climatica, ma ci sono molti attori sociali che riescono molto bene a inventarla e a metterla in scena. E ce ne sono altri, meno potenti, che cedono al potere persuasivo di questa strategia per interesse personale o in base a interessi immaginari. Questo confronto, che si sta svolgendo a scala internazionale, sul piano socio-economico e culturale, sta facendo progressi molto limitati per il momento. Ciò che manca alla coalizione post-carburanti, o socio-ecologica, è la capacità di imporre i termini del dibattito così come li intende: la transizione è una questione di giustizia e sicurezza internazionale, una questione di uguaglianza fondamentale tra i gruppi sociali all’interno della divisione del lavoro, e se coinvolge ognuno di noi secondo le nostre abitudini e i nostri sistemi di valori, non può essere opera di una minoranza attiva.

Nell’attuale contesto storico, una serie di fattori favorisce questa strategia. Tra questi, lo sviluppo delle strategie di transizione industriale, soprattutto dopo l’adozione del piano IRA negli Stati Uniti, l’accentuarsi dei conflitti sulla distribuzione dei costi della transizione, che rischiano di risvegliare le forze sociali, e l’apertura del fronte ucraino, che permette di dare all’imperativo climatico una dimensione di sicurezza internazionale. Ma, come abbiamo detto all’inizio di questo testo, alla coalizione socio-ecologica manca ancora il soft power che potrebbe proiettarla più rapidamente nell’immaginario collettivo e permetterle di lottare contro il fatalismo. Una visione in cui la transizione non è né una rinuncia né una somma di incertezze, ma piuttosto l’attualizzazione di tendenze modernizzatrici ancora latenti che riguardano l’uguaglianza, la sicurezza, la scienza al servizio del bene comune e l’assunzione del controllo del nostro destino collettivo.

Una versione precedente di questo testo conteneva un paragrafo che attribuiva al Professor Reynié posizioni che non ha mai sostenuto. Abbiamo rimosso quel paragrafo in accordo con l’autore. La redazione si scusa con i lettori e con Dominique Reynié.

Note
  1. International Energy Agency, 2023.
  2. Robert Boyer, Les capitalismes à l’épreuve de la pandémie, Paris, Éditions La Découverte, 2020.
  3. Kristin Ross, Fast Cars, Clean Bodies. Decolonization and the Reordering of French Culture, Boston, The MIT Press, 1996.
  4. Alyssa Battistoni, «There’s No Time for Gradualism», The Wire, 2018.
  5. Pierre Charbonnier, Bruno Latour e Baptiste Morizot, «Redécouvir la terre», Tracés. Revue de Sciences humaines, n°33, 2017, p. 227-252.
  6. Peter Achterberg, Willem de Koster, Jeroen van der Waal, «Science confidence gap : Education, trust in scientific methods, and trust in scientific institutions in the United States», Public understanding of science, n°26, 2017, p. 704–720.
  7. Olivier Godard, «Le climato-scepticisme médiatique en France : un sophisme moderne», Cahier du département d’économie de l’école Polytechnique, n°20, 2011.
  8. Maeve Campbell, «In pictures: South America’s ‘lithium fields’ reveal the dark side of our electric future», Euronews, 2018.
  9. Greens / EFA, «Stand with Ukraine: Let’s stop fuelling war!».
  10. Thomas Oatley, Mark Blyth, «The Death of the Carbon Coalition. Existing models of U.S. politics are wrong. Here’s how the system really works», Foreign Policy, 2021.
  11. Andy Bounds, «Climate regulation is driving support for populism, says EU parliament chief», The Financial Times, 7 septembre 2023.
  12. Neil Makaroff, «Réindustrialiser l’Europe, prochaine étape du pacte vert européen», Fondation Jean Jaurès, 2023.
  13. Istvan Hont, Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State in Historical Perspective, Cambridge, Harvard University Press, 2010.
  14. Arnault Skornicki, «La deuxième vie du doux commerce. Métamorphoses et crise d’un lieu commun à l’aube de l’ère industrielle», Astérion, n° 20, 2019.
  15. Matthieu Goar, «Emmanuel Macron dessine les contours de son “écologie à la française” : inciter sans contraindre», Le Monde, 26 septembre 2023.
  16. Discorso del Primo ministro Rishi Sunak, 2023.
  17. Per il caso francese: Rapport sur l’état des services publics, 2023.
  18. «Les incidences économiques de l’action pour le climat. Rapport de synthèse», 2023.
  19. Eric Monnet, La Banque Providence. Démocratiser les banques centrales et la monnaie, Paris, La République des idées, 2021.
  20. Antonin Pottier, Emmanuel Combet, Jean-Michel Cayla, et al., «Qui émet du CO2 ? Panorama critique des inégalités écologiques en France», Revue de l’OFCE, 2020/5, n°169, p. 73-132.
  21. Colin Hay, «The ‘New Orleans effect’: The future of the welfare state as collective insurance against uninsurable risk», in Renewal: A journal of social democracy, vol. 31 n°3, 2023, pp. 63-81.
  22. Aleksandra Krzysztoszek, «Extrême droite polonaise : le nouveau patron veut reprendre les importations de charbon russe», Euractiv, 2022.
  23. Matea Gold, «Charles Koch on the 2016 race, climate change and whether he has too much power», The Washington Post, 4 août 2015.
  24. Communiqué de presse de André Rougé, député (RN) au Parlement européen, 2022.
  25. Andy Bounds, «Climate regulation is driving support for populism, says EU parliament chief», The Financial Times, 7 septembre 2023.
  26. Léa Falco, Faire écologie ensemble. La guerre des générations n’aura pas lieu, Paris, Rue de l’échiquier, 2023.