Una spaccatura a lungo evitata

Finora, l’Europa si distingueva dal Nordamerica per la quasi totale assenza di un’offerta politica basata sullo scetticismo climatico, o almeno sul rifiuto delle politiche di transizione, per mobilitare gli elettori. Negli Stati Uniti, come sappiamo, alcuni leader repubblicani, Donald Trump per primo, hanno assunto posizioni scettiche sul clima e hanno espresso la loro ostilità alle politiche di lotta al cambiamento climatico. Ricordiamo le sue dichiarazioni deliberatamente provocatorie alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2020, quando si recò in una California colpita da incendi particolarmente catastrofici e mortali: «Alla fine si raffredderà», in risposta alle preoccupazioni sul cambiamento climatico. Si ricorderà inoltre che una delle prime decisioni importanti dell’ex Presidente degli Stati Uniti è stato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi nel 2017 e come Trump abbia dedicato parte del suo mandato a disfare le politiche ambientali attuate dall’amministrazione Obama. Non si tratta di posizioni isolate all’interno del campo repubblicano, tutt’altro. Durante il primo dibattito televisivo tra i principali candidati alle primarie repubblicane del 23 agosto, il presentatore ha chiesto: «Se pensate che il cambiamento climatico sia causato dall’attività umana, alzate la mano». Mentre solo Asa Hutchinson, il governatore dell’Arkansas, ha iniziato ad alzare la mano, Ron DeSantis, il principale sfidante di Donald Trump in questa fase, ha preferito interrompere la sequenza dichiarando «non siamo bambini a scuola». L’imprenditore ultraconservatore Vivek Ramaswamy ha colto l’occasione per affermare che «la diffusione della tesi del cambiamento climatico è una bufala», aggiungendo «la realtà è che muoiono più persone a causa di cattive politiche climatiche che per il cambiamento climatico stesso». Anche in Canada le questioni climatiche e le politiche di transizione sono diventate polarizzanti e divisive. Mentre il Partito liberale canadese (LPC) si è presentato come sostenitore delle politiche di decarbonizzazione e della lotta al cambiamento climatico, il Partito conservatore canadese (CPC) ha adottato una posizione contraria alla carbon tax e, più in generale, una posizione ambigua sulle questioni climatiche. Al congresso del marzo 2021, i delegati del CPC hanno respinto a stretta maggioranza (54%) una mozione che riconosceva l’esistenza del cambiamento climatico e si proponeva di combatterlo. Questa posizione non è senza dubbio estranea alle vittorie dei conservatori in province come l’Alberta, che traggono una parte preponderante delle loro entrate dall’estrazione di petrolio e gas e la cui popolazione non è certo entusiasta – per usare un eufemismo – delle politiche di decarbonizzazione. 

Vista dall’Europa, questo tipo di posizione politica è sembrata a lungo una peculiarità «nordamericana». Nessun grande partito di governo o forza politica ha diffuso nello spazio pubblico un’offerta politica di esplicito relativismo climatico (per non dire scetticismo climatico), né ha preso una posizione chiara e frontale in opposizione alle politiche di transizione e decarbonizzazione. Finora, l’ecologia è rimasta un tema abbastanza secondario nei dibattiti elettorali, in gran parte a causa della mancanza di avversari, come parte di un apparente consenso morbido. Nessuna delle elezioni presidenziali in Francia è stata polarizzata e strutturata da questioni ambientali, cosa che ha anche contribuito al risultato deludente dei candidati ecologisti. Il Green Deal europeo, ad esempio, nonostante le sue ambizioni dichiarate e l’impatto che implica sulle economie europee, non ha suscitato grandi polemiche pubbliche quando è stato adottato nel 2020. Se si confronta la situazione in un Paese come la Francia con gli accesi dibattiti sull’immigrazione, sull’uso del velo o sulle riforme sociali (il matrimonio per tutti, ad esempio), è facile capire che la transizione ecologica non ha suscitato, per il momento, le stesse passioni. Ma tutto questo sta indubbiamente per cambiare, poiché la questione climatica sembra destinata a diventare una grande frattura anche in Europa.

Visto dall’Europa, lo scetticismo climatico è sembrato a lungo una peculiarità «nordamericana»

Jean-Yves Dormagen

Finora, lo scetticismo climatico e il relativismo climatico in Europa sono stati sostenuti solo da una frazione delle forze populiste di destra. Questa tendenza politica è stata ed è tuttora divisa sulla questione climatica1. Alcune organizzazioni sono chiaramente scettiche sul clima e si oppongono alle politiche di decarbonizzazione. Alla fine degli anni ’90, ad esempio, il PVV (Partito per la Libertà) olandese ha affermato che non esiste alcuna prova scientifica della responsabilità umana nel cambiamento climatico. Dichiarazioni simili sono state fatte dall’FPÖ austriaco, dal Partito Popolare Danese, dal Brexit Party e dall’AfD tedesca. Nel loro programma per le elezioni europee del 2019, i populisti tedeschi hanno anche affermato che la lotta al riscaldamento globale impedisce l’accesso all’energia a basso costo e hanno difeso i veicoli con motore a combustione interna, in particolare quelli alimentati a diesel.

Ma questa posizione era in realtà minoritaria all’interno della tendenza populista di destra. Una minoranza è addirittura favorevole a politiche di lotta al cambiamento climatico2. Per quanto riguarda la maggior parte dei componenti di questo movimento, essi hanno adottato una posizione cauta e «moderata» sulla questione climatica: riconoscendo la realtà del cambiamento climatico, senza farne un punto centrale dei loro programmi. Questo atteggiamento è abbastanza tipico della posizione assunta sulle questioni climatiche da partiti come il Vlaams Belang belga, il Partito della Libertà e della Democrazia ceco, la Lega in Italia, di Alba dorata in Grecia e il Rassemblement National in Francia. Quest’ultimo ha da tempo una strategia per evitare divisioni sul tema: nel suo programma per le elezioni presidenziali del 2017, si è espresso a favore del dimezzamento della quota di combustibili fossili in 20 anni e del divieto di sfruttamento del gas di scisto.

In questo contesto, in Europa, l’ecologia e, più specificamente, la questione climatica non hanno costituito una frattura politica saliente. Questo non significa che tutti gli attori politici fossero «ecologisti» o che si preoccupassero della questione climatica, né ovviamente che l’attuazione delle politiche di decarbonizzazione non fosse teatro di scontri tra interessi divergenti, ma indica che questa frattura era in qualche modo inattiva nel contesto di un apparente consenso trasversale (per quanto morbido) sulla necessità di agire a favore del clima e indica, ancor più, un’assenza combattenti, cioè di forze politiche che adottassero esplicitamente, alla maniera dei repubblicani negli Stati Uniti, posizioni scettiche sul clima o almeno un atteggiamento di opposizione alle politiche di decarbonizzazione.

Distinguersi tramite le politiche di transizione

Questo consenso morbido si sta sgretolando sotto i nostri occhi. L’arrivo sulla scena elettorale olandese del Movimento Civico-contadino (BoerBurgerBeweging, BBB) è un presagio dei tempi che verranno. Fondato da Caroline van der Plas, ex esponente del partito cristiano-democratico, il BBB è un nuovo tipo di «partito monotematico»: come gli ecologisti, si concentra sull’ambiente, ma per la prima volta dall’altra parte della barricata, in diretta opposizione alle politiche di lotta all’inquinamento. Il BBB è nato in risposta al «Piano azoto», che prevede una riduzione del 50% delle emissioni di azoto entro il 2030, richiedendo un ripensamento del modello di agricoltura intensiva e una forte riduzione del numero di capi di bestiame olandesi. Il Movimento Civico-contadino è stato in grado di crescere grazie alla rabbia della comunità agricola, ma il suo spettacolare successo alle elezioni provinciali dimostra che è riuscito ad attrarre consensi ben oltre gli ambienti direttamente interessati dal «Piano azoto»: con il 19% dei voti alle elezioni del marzo 2023, si è affermato come prima forza elettorale, arrivando in testa in tutte le province del Paese. È ovviamente troppo presto per dire se il BBB sarà in grado di mantenere tali risultati, soprattutto perché le elezioni provinciali sono tradizionalmente un’elezione intermedia favorevole all’espressione di un voto punitivo e a un uso espressivo della scheda elettorale. Ma l’affermazione del BBB, che è avvenuta a spese dei liberali di Mark Rutte, è comunque un segnale che ha molto preoccupato diversi attori politici europei. Dimostra che l’ecologia può diventare altamente polarizzante e divisiva quando si tramuta in politiche pubbliche che creano vincitori e vinti. È quello che, in un certo senso – a prescindere da ciò che si pensa della misura – era già stato dimostrato dal movimento dei Gilets jaunes in Francia in reazione, va ricordato, alla proposta di una «carbon tax». Oltre a opporsi al «Piano azoto», è interessante notare che il BBB sta attivando la frattura tra campagna e città, giocando sul presunto disprezzo mostrato dalle classi alte delle grandi metropoli nei confronti degli abitanti delle campagne. In una logica di ribaltamento dello stigma, e con un consumato senso della messa in scena, Caroline van der Plas si è recata all’apertura del Parlamento in trattore. Per il resto del nostro discorso, è importante notare che l’offerta del BBB non si limita a questa opposizione, ma abbraccia altri temi: piuttosto liberale sull’economia (tagli alle tasse, deregolamentazione), conservatrice sulle questioni sociali (contraria all’abolizione del periodo di riflessione di cinque giorni prima di poter abortire), anti-migrazione (a favore di una politica di asilo più severa) e tinta di euroscetticismo. Questi temi riflettono i profili ideologici degli elettori che il BBB cerca di riunire dietro il suo programma. Come vedremo in seguito, questa combinazione di posizioni corrisponde senza dubbio alla realtà della domanda politica nei Paesi Bassi.

Questo consenso morbido europeo sta sgretolando sotto i nostri occhi

Jean-Yves Dormagen

L’emergere di un’offerta politica relativista sul clima («stiamo esagerando», «stiamo facendo troppo», «ci sono altre priorità») e/o contraria alle misure concrete attuate nell’ambito della transizione non richiede necessariamente, anzi, la formazione di nuove forze politiche. Nella maggior parte dei casi, assumerà la forma di un riposizionamento di partiti politici già consolidati su questi temi. Lo vediamo oggi in un Paese come la Francia, dove il Rassemblement National (RN) sembra prendere una svolta climatico-relativista e adottare sempre più una posizione ostile alla maggior parte delle politiche di transizione. Certo, il RN non adotta collettivamente una posizione esplicitamente scettica nei confronti del clima e non contesta, per il momento, la necessità di politiche di lotta al cambiamento climatico. Tuttavia, va notato che alcuni dei suoi membri più anziani hanno recentemente assunto posizioni pubbliche in questa direzione: ad esempio, il deputato del RN Thomas Ménagé, intervistato nel bel mezzo dell’ondata di caldo di quest’estate su France Inter, ha dichiarato: «Non vogliamo cadere in un’ecologia punitiva, non vogliamo cadere nella decrescita. […] Non vogliamo far sentire in colpa i francesi, e non possiamo basarci solo sui dati dell’IPCC (dopo che il giornalista è sembrato sorpreso da questa affermazione). Non dobbiamo solo seguire automaticamente quello che si può fare nei dati dell’IPCC, dobbiamo avere una visione politica che tenga conto del riscaldamento globale, ma come ha detto Marine Le Pen, a volte tendono a esagerare […]. il nostro ruolo è anche quello di temperare le cose, per evitare di seguiamo stupidamente i dati dell’IPCC e correre il rischio di compromettere la qualità della vita dei francesi…». Lungi dall’esprimere un punto di vista singolo, queste osservazioni rivelano la nuova dottrina del RN. L’autore usa la parola «noi», non è stato criticato in alcun modo dal suo partito e si riferisce alla stessa Marine Le Pen, che sembra infatti aver cambiato significativamente la sua posizione sulla questione climatica. Abbandonando la strategia di eludere la questione, il 1° maggio 2023 ha tenuto un discorso molto ostile verso molti aspetti delle politiche di transizione. Durante le ultime elezioni presidenziali, la lotta del RN contro le turbine eoliche, accusate di distruggere il paesaggio e di essere una «truffa ecologica», aveva in qualche modo aperto la strada a questo riposizionamento. Ma il discorso tenuto in occasione del Primo Maggio segna un ulteriore passo avanti. In esso, la «transizione ecologica» viene diffamata in toto come «il parco giochi degli ipocriti del clima». Nelle sue parole, «da 30 anni l’ecologia è stata dirottata e ha messo in atto, senza dirlo, il concetto altamente ideologico di decrescita», e continua: «la rivoluzione ecologica che ci viene venduta […] è un salto nelle ortiche dell’ecologia punitiva […] nelle spine delle nuove tasse […] è una rivoluzione le cui prime vittime sacrificali saranno i più fragili, i più poveri». Descrivendo questa transizione come una «teoria», una «visione apocalittica» e una «follia suicida», ha preso di mira in particolare la «caccia alle auto a combustione», sostenendo che l’obiettivo di questa politica non è «vietare le auto a combustione, ma vietare del tutto le auto», perché «dovete capire, miei cari amici, che dietro questo stesso approccio ideologico si nasconde l’idea della scomparsa dell’attività industriale e persino di ogni attività umana». È chiaro quale sia la strategia della RN d’ora in poi: opporsi alle politiche di «transizione ecologica» e alla maggior parte delle misure che le sostengono. Le energie rinnovabili, in particolare le turbine eoliche, e la prevista fine dei veicoli a combustione stanno diventando aree prioritarie di conflitto. Per screditare queste politiche vengono utilizzati diversi argomenti. Si manifesta un certo relativismo climatico, che consiste nel presentare gli scienziati – in primo luogo l’IPCC – come eccessivi e troppo radicali. Presentarle come «teorie» è un altro modo per metterne in prospettiva il contenuto e il realismo. Le politiche di transizione vengono inoltre presentate come socialmente ingiuste e dannose per la qualità della vita dei francesi. Vengono anche presentate come anti-ambientali: le turbine eoliche e i veicoli elettrici, secondo i leader del RN, non fanno che aggravare i problemi dell’ambiente. Infine, si dice che queste politiche sono inutili perché il progresso tecnico e la scienza forniranno le soluzioni e ci permetteranno di affrontare la sfida climatica.

Questo riposizionamento strategico non è un caso isolato in Europa e non riguarda solo la destra populista. Diversi partiti tradizionali di destra sembrano essere entrati in tensione con le politiche di transizione, gli obiettivi di decarbonizzazione o il Green Deal europeo. Senza tentare una rassegna esaustiva di questi sviluppi, ci limiteremo ad alcune illustrazioni tratte dalle notizie più recenti. In una straordinaria intervista rilasciata ai principali media il 12 settembre, la Presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha preso le distanze dal Green Deal. Dichiarando di parlare «come Presidente del Parlamento, non a nome del PPE», ha espresso preoccupazione per l’impatto di normative «eccessivamente restrittive» e costose, che a suo avviso potrebbero alimentare il voto populista3. È questo tipo di preoccupazione che ha portato non solo il PPE ma anche alcuni liberali di Renew a chiedere una pausa e persino una moratoria nell’attuazione del Green Deal. I politici, in particolare quelli di centro e di destra, sono consapevoli, con diversi gradi di chiarezza, che la transizione ecologica potrebbe diventare una grande frattura politica, favorendo l’ascesa dei populisti di destra a loro discapito. È questo tipo di anticipazione elettorale che sembra aver convinto il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ad annunciare il 20 settembre il rallentamento del ritmo della transizione per adottare un approccio «più pragmatico, proporzionato e realistico». Tra le principali decisioni annunciate, il rinvio di 5 anni (dal 2030 al 2035) del divieto di circolazione delle auto a benzina e diesel, l’allentamento delle condizioni per l’eliminazione graduale delle caldaie a gas e l’abbandono di una misura sull’efficienza energetica delle abitazioni che gravava pesantemente sui proprietari di casa. In difficoltà nei sondaggi, il Primo Ministro sembra essersi convinto della necessità di questo cambio di rotta dopo la sconfitta a sorpresa del candidato laburista in un’elezione locale nella zona ovest di Londra. Questo risultato sarebbe stato interpretato come un rifiuto di una tassa sui veicoli inquinanti applicata a tutta l’area metropolitana di Londra dal sindaco laburista Sadiq Khan.

L’emergere di un’offerta politica relativista sul clima («stiamo esagerando», «stiamo facendo troppo», «ci sono altre priorità») e/o contraria alle misure concrete attuate nell’ambito della transizione non richiede necessariamente, anzi, la formazione di nuove forze politiche

Jean-Yves Dormagen

Gli sviluppi che abbiamo descritto finora riguardano l’offerta politica. Utilizzando gli esempi dei Paesi Bassi (BBB) e della Francia (RN), ci dicono come i partiti populisti di destra stiano sfruttando le politiche di transizione per trasformarle in una grande frattura politica. Mostrano inoltre che i partiti della destra tradizionale (liberali e conservatori) sono tentati di prendere le distanze dalle politiche di transizione, temendo la concorrenza dei populisti su questo tema divisivo.

Come le politiche di transizione spaccano la società

Alla frattura sulle politiche di transizione osservabile sul versante dell’offerta politica corrisponde un’opinione pubblica profondamente divisa su questo tema. Sono del resto queste fratture – come vedremo, profonde – osservabili sul versante dell’opinione pubblica a costituire il fattore principale delle riconfigurazioni in atto sul versante della rappresentanza politica. Per analizzare queste fratture, ci basiamo su studi condotti in Francia negli ultimi mesi. Il caso francese ci permette di capire come funzioni la frattura climatica all’interno della popolazione e quali sono le logiche che guidano le posizioni da una parte o dall’altra di questa frattura. Tuttavia, saranno ovviamente necessari studi comparativi in altri Paesi europei per stabilire cosa si può generalizzare da questo caso di studio, ma anche, al contrario, quali sono le caratteristiche specifiche di ciascun contesto nazionale.

Non c’è consenso sulle origini del cambiamento climatico

In questo caso, è essenziale partire dal modo in cui il problema da risolvere è percepito dalla popolazione. Se non c’è consenso sulla definizione del problema climatico, non ci sarà consenso, a maggior ragione, sulle soluzioni da trovare (e nemmeno semplicemente sulla necessità di trovare soluzioni). Per accettare di cambiare alcuni dei nostri comportamenti e sostenere le politiche di transizione, dobbiamo riconoscere la realtà del cambiamento climatico e, altrettanto decisamente, il fatto che è causato dall’attività umana.

Contrariamente a quanto talvolta si immagina, non esiste un consenso pubblico su questo tema. Più precisamente, il consenso riguarda solo la realtà del riscaldamento globale: secondo i nostri studi, questa è contestata solo dal 2% al 3% del pubblico (cfr. Tabella 1 e Tabella 2). La negazione radicale del clima rimane quindi molto marginale. D’altra parte, l’origine di questo cambiamento ha già aperto una prima linea di divisione. Quasi un quarto dei francesi (24%) ritiene che «il riscaldamento globale sia principalmente la conseguenza di un ciclo naturale». Questo rifiuto di attribuire all’attività umana, e in particolare alle emissioni di gas serra, la responsabilità del cambiamento climatico è la forma che lo scetticismo climatico sta assumendo nella società francese: scetticismo non sul fenomeno in sé, ma sulle sue origini. Nonostante gli eventi meteorologici estremi degli ultimi anni, lo scetticismo climatico sembra essere in aumento4. Comunque sia, è facile capire che sta alimentando una prima sacca di resistenza alla retorica ambientalista e all’attuazione delle politiche di transizione. A questo proposito, è significativo che una percentuale simile di cittadini (21%) ritenga che «la gravità del riscaldamento globale sia generalmente esagerata», anche se la domanda è stata posta a luglio, durante un’estate segnata da caldo record, grave siccità e incendi devastanti in tutta Europa5.

La tipologia della popolazione utilizzata dal Cluster 17 ci permette di esplorare in modo più approfondito il modo in cui è distribuito lo scetticismo climatico. Senza entrare troppo nei dettagli, questa tipologia si basa su 16 cluster costruiti utilizzando come unico criterio gli atteggiamenti e i valori profondi degli individui. Questi atteggiamenti e valori sono stati identificati sulla base di un test che comprende 30 domande deliberatamente divisive6. A nostro avviso, questo test identifica chiaramente il sistema di spaccature che struttura una società. Per quanto riguarda i cluster, essi riuniscono individui che condividono le stesse posizioni sui principali temi divisivi: identità, immigrazione, rapporto con le élite, ridistribuzione economica…

Applicandola ai temi di cui ci occupiamo qui, la segmentazione per cluster di valori rivela immediatamente la misura in cui lo scetticismo climatico (negare le origini umane) e/o il relativismo climatico (ritenere che stiamo esagerando) non sono distribuiti casualmente nello spazio sociale (cfr. tab. 1 e tab. 2). In alcuni cluster, questi due atteggiamenti sono totalmente o quasi assenti: multiculturalisti, socialdemocratici, progressisti, solidali, centristi e ribelli. In altri, questi atteggiamenti sono diffusi (liberali, conservatori) o addirittura maggioritari (social-patrioti, identitari). In generale, esiste una relazione molto forte tra la posizione di un gruppo nella divisione globale e la probabilità che esso abbia una percentuale significativa, o addirittura una maggioranza, di scettici del clima.

Applicandola ai temi di cui ci occupiamo qui, la segmentazione per cluster di valori rivela immediatamente la misura in cui lo scetticismo climatico (negare le origini umane) e/o il relativismo climatico (ritenere che stiamo esagerando) non sono distribuiti casualmente nello spazio sociale

Jean-Yves Dormagen

Quindi, più un gruppo si trova a sinistra sull’asse dell’identità che organizza lo spazio di separazione, più sarà «convinto del clima», cioè incline a riconoscere l’origine umana dei cambiamenti climatici. Questo risultato significa che gli atteggiamenti verso il clima fanno parte di sistemi di opinione più ampi e, in questo caso, che l’apertura alla diversità culturale e il progressismo sulle questioni sociali vanno di pari passo con il sostegno al consenso scientifico sul cambiamento climatico. In parole povere, gli atteggiamenti progressisti e quelli a favore dell’ecologia vanno di pari passo. Ciò si riflette nel fatto che il gruppo più a sinistra nella divisione – i multiculturalisti – è anche l’unico a riconoscere al 100% l’origine umana del cambiamento climatico (cfr. tab. 1). La domanda sulla valutazione della gravità del riscaldamento globale conferma questa relazione (cfr. tab. 2). I gruppi più a sinistra lungo l’asse dell’identità sono anche – con la notevole eccezione dei centristi – i più inclini a ritenere che «la gravità del riscaldamento globale è generalmente sottovalutata»: in media il 69% rispetto al 27% del resto della popolazione. Logicamente, sono anche quelli che sentono maggiormente l’emergenza ecologica, nel senso che una percentuale non trascurabile di loro chiede che «la questione ambientale sia la priorità assoluta del governo, prima delle altre (la lotta all’inflazione, la lotta alla criminalità, o la guerra in Ucraina, ecc.» (38% contro il 12% del resto della popolazione, cfr. tab. 3). 

Al contrario, le posizioni scettiche e relativiste sul clima raggiungono livelli significativi nei gruppi situati a destra e all’estrema destra della divisione, ossia nei gruppi caratterizzati da un forte conservatorismo sociale e da pronunciate posizioni identitarie. Tre di questi gruppi – i conservatori, gli identitari e, ancor più, i liberali – si trovano piuttosto in alto in questo spazio, perché, pur essendo conservatori in termini di valori, sono anche piuttosto elitari e cercano la stabilità sociale. In effetti, questi cluster sono composti principalmente da agenti della classe media e alta, spesso anziani. Sono stati a lungo i pilastri delle coalizioni di destra e hanno giocato un ruolo importante nel successo di Nicolas Sarkozy nel 2007. Ad eccezione dei Social-patrioti, questi raggruppamenti appartengono quindi più allo spazio della destra tradizionale che a quello del «populismo». Questo è un punto importante se vogliamo comprendere le difficoltà incontrate dalla destra tradizionale nel posizionarsi sulle questioni climatiche.

Nel complesso, questi 4 gruppi sono diametralmente opposti alla coalizione verde-progressista descritta sopra. Oltre a ospitare un certo numero di scettici climatici, come abbiamo visto, ritengono spesso che «la gravità del riscaldamento globale sia generalmente esagerata»: il 40% rispetto all’11,5% del resto della popolazione (cfr. tab.3). E solo il 4% di loro ritiene che «l’ambiente dovrebbe essere la priorità assoluta del governo», rispetto al 26% del resto della popolazione. Il conservatorismo culturale e i valori identitari favoriscono lo scetticismo climatico e il relativismo climatico, che ovviamente alimentano un rifiuto particolarmente marcato delle politiche di transizione.

La sfiducia nelle élite e le teorie del complotto alimentano il rifiuto delle politiche di transizione

Se lo scetticismo climatico è in gran parte una questione di conservatorismo culturale, il rifiuto delle politiche di transizione è radicato anche in un’altra dimensione attitudinale del tutto indipendente dalla prima: la sfiducia nelle élite, che spesso va di pari passo con il sostegno alle teorie del complotto. Negli ultimi mesi, la crisi climatica e le politiche di transizione sono diventate il terreno di gioco preferito dei produttori di narrazioni ecocomplottiste, per lo più provenienti dalla sfera anti-vax, soprattutto sui social network7. In Francia, dall’estate del 2022, circolano sui social network messaggi che denunciano, ad esempio, gli «ideologi dell’IPCC» che starebbero manipolando i dati, un presunto piano per una «dittatura del clima» sostenuto dalle élite, o la minaccia di un «carbon pass» che sarebbe la controparte «ecologica» del green pass per il Covid. Sarebbe un errore sottovalutare la capacità di diffusione di queste affermazioni e il potenziale sostegno. I nostri sondaggi mostrano che una parte significativa della popolazione è pronta a condividere questa visione della crisi climatica e delle politiche ecologiche. Ad esempio, il 42% degli intervistati ha dichiarato di essere d’accordo con l’affermazione che «le élite stanno pianificando di instaurare una dittatura climatica»8. Variando leggermente la formulazione, i risultati non cambiano: il 42% è ancora d’accordo sul fatto che «la crisi climatica è un pretesto usato dai governi mondiali per limitare le libertà delle persone» (vedi tab. 4).

L’analisi delle risposte per cluster conferma che le logiche del complottismo climatico differiscono in parte da quelle dello scetticismo climatico. L’asse della contrapposizione tra popolo ed élite, tende a sovradeterminare le risposte. Questo spiega perché un gruppo d’élite come i liberali, nonostante le sue inclinazioni scettiche sul clima, sia uno dei meno propensi a sottoscrivere affermazioni complottiste. Al contrario, i ribelli, sebbene attenti al clima, sono per lo più d’accordo con questo tipo di narrazione anti-elitaria. Nel complesso, più un cluster si combina identitarismo e anti-elitismo, più sarà portatore di una diffusa sfiducia nei confronti della narrazione dominante sulla crisi climatica e quindi anche delle politiche perseguite dalle istituzioni. Dal nostro punto di vista, è importante sottolineare che questi cluster sono composti principalmente da individui provenienti da contesti di classe operaia e medio-bassa, e che tre di essi (refrattari, euroscettici e social-patrioti) costituiscono l’elettorato di base del Rassemblement National.

 Un sentimento prevalente di ingiustizia nella distribuzione dei sacrifici

L’accettabilità delle politiche di transizione si scontra in una certa misura con lo scetticismo climatico e il compiacimento per il clima, ma anche, più in generale, con la percezione che le persone hanno di queste politiche in termini di equità e giustizia sociale – tutte queste dimensioni sono in parte intrecciate. È diffusa la convinzione che gli sforzi per combattere il cambiamento climatico siano e saranno distribuiti in modo iniquo.

Ciò si evince dalle domande sulla distribuzione dei costi. Ad esempio, un’affermazione come «la sobrietà energetica è imposta solo al popolo, ma non alle élite» trova un consenso schiacciante: 76% (cfr. tab. 5). Una lettura dei risultati cluster per cluster mostra che la sensibilità ecologica delle persone non ha alcuna influenza sulle loro risposte. Gli unici gruppi che si oppongono o almeno si dividono su un’affermazione di questo tipo sono i tre cluster più elitari: socialdemocratici, centristi e liberali.

Un uomo è seduto su una sedia accanto alla miniera di Garzweiler nel villaggio Luetzerath, vicino a Erkelenz in Germania, il 10 gennaio 2023. Un tribunale tedesco ha rigettato l’ultimo tentativo degli attivisti climatici di restare in un villaggio abbandonato che deve essere demolito per permettere l’espansione di una miniera di carbone diventata il campo di battaglia dello scontro tra governo e difensori dell’ambiente. © Michael Probst/AP/SIPA

Allo stesso modo, una frase del tipo «sono i più poveri a pagare per la crisi climatica ed energetica, mentre sono i più ricchi a esserne responsabili» riceve un sostegno ancora più alto: 79% (cfr. tab. 6). Solo due raggruppamenti (molto elitari) su sedici, i liberali e in misura minore i centristi, sono reticenti a questo tipo di formulazione. Tutti gli altri la sostengono in proporzioni che spesso raggiungono il 90%.

Negli ultimi mesi, la crisi climatica e le politiche di transizione sono diventate il terreno di gioco preferito dei produttori di narrazioni ecocomplottiste, per lo più provenienti dalla sfera anti-vax, soprattutto sui social network

Jean Yves Dormagen

Cosa ci dicono questi risultati? Che qualsiasi richiesta di sacrifici o semplicemente di contributi anche modesti alla lotta contro il cambiamento climatico rischia di scontrarsi con questo tipo di narrazione. Per dirla in modo molto semplice, è facile capire quanto sarebbe difficile giustificare un divieto di circolazione dei veicoli diesel nelle aree metropolitane – come previsto in alcune zone in Francia – o anche semplicemente un divieto di vendita di veicoli a combustione interna (dal 2035 nell’Unione Europea), quando allo stesso tempo sono permessi yacht e jet privati. Non occorre essere esperti di emissioni di CO2 per rendersi conto che non sono i maggiori inquinatori a subire le maggiori limitazioni. Non è detto, anzi, che una maggiore giustizia in materia climatica sia sufficiente a produrre una massiccia conversione a comportamenti più sobri ed eco-responsabili, ma è certo, d’altra parte, che ogni cattivo esempio da parte dei funzionari pubblici (come prendere l’aereo per brevi viaggi) e ogni esenzione relativa alle pratiche dei più ricchi sarà inevitabilmente mobilitata da intere fasce della popolazione per rifiutare qualsiasi sforzo per combattere il cambiamento climatico; Ciò è tanto più vero se si considera che la pratica del free riding è l’atteggiamento più comune in questo settore.

La strategia del free rider

Se i sistemi attitudinali radicati, come lo scetticismo climatico o il complottismo climatico, sono una dimensione essenziale del rapporto con le politiche di transizione, la seconda dimensione da tenere in considerazione è il costo di queste misure e, ancora di più, il livello a cui ogni individuo è portato a contribuire ad esse. Quando si parla di cambiamenti climatici, come in altri ambiti, la maggior parte delle persone cerca di minimizzare i costi, siano essi economici o psicologici, e che si tratti di pagare una tassa, fare uno sforzo o rinunciare a un piacere. Da questo punto di vista, la transizione ecologica presenta un quadro particolarmente favorevole per l’attuazione di una strategia di free rider: lasciare che altri paghino tutti i costi della transizione, godendo dei benefici collettivi derivanti dalla limitazione del riscaldamento globale9.

Questo è senza dubbio uno dei motivi per cui così tanti cittadini si rifiutano di fare qualsiasi sacrificio per combattere il riscaldamento globale. Abbiamo cercato di misurarlo ponendo una domanda ispirata alle politiche di transizione olandesi. Dopo aver perso una causa contro la società civile per «nazione climatica» (il caso Urgenda), il governo olandese è stato chiamato ad adottare misure efficaci per combattere le emissioni di gas serra. Il governo di Mark Rutte, notoriamente favorevole alle auto, è stato costretto ad abbassare drasticamente il limite di velocità sulle autostrade da 130 a 100 km/h tra le 6 e le 19 del mattino.

Questo ci ha spinto a testare la seguente frase in un sondaggio: «La velocità delle autostrade dovrebbe essere limitata a 110 km/h per limitare le emissioni di gas serra». Dal punto di vista della comprensione del rapporto tra cittadini e politiche di transizione, una simile frase è particolarmente istruttiva per tutta una serie di motivi. Costa solo un allungamento dei tempi di percorrenza (per chi viaggia in auto sulle autostrade). Non ha un impatto economico negativo – al contrario, guidare più lentamente riduce il consumo di carburante, quindi ha un’esternalità positiva in questo senso. È molto egualitaria e ha il vantaggio di far contribuire, con uno sforzo ridotto, chi inquina direttamente, in questo caso chi guidava a più di 110 km/h in autostrada. Tuttavia, anche se viene presentata come una misura che contribuisce a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, è rifiutata a larga maggioranza dal 67% degli intervistati (con un 37% che è fortemente in disaccordo, cfr. tab. 7).

La distribuzione delle risposte per cluster consente di comprendere meglio la combinazione di sistemi di opinione e disponibilità a contribuire alla transizione. Esiste infatti un’influenza significativa dei valori sulla disponibilità a compiere sforzi a favore del clima. I tre gruppi favorevoli a questa misura considerano tutti la questione del clima una priorità (multiculturalisti, progressisti e socialdemocratici). Tutti gli altri gruppi sono (in generale) chiaramente contrari a questo limite di velocità. E questo rifiuto raggiunge logicamente livelli particolarmente elevati nei gruppi con tendenze scettiche e/o complottiste sul clima: 87% tra i social-patrioti, 88% tra i liberali e addirittura 91% tra gli identitari. Come si vede, qualsiasi vincolo, anche se non ha un costo finanziario diretto, tende a essere rifiutato, in modo particolarmente forte e determinato, dai segmenti di popolazione con tendenze scettiche o complottiste sul clima.

Non c’è energia eolica vicino a noi

Variare la formulazione delle domande sulla costruzione di parchi eolici offre un altro modo per individuare il free riding sulle questioni ambientali. Se la domanda sulla costruzione di parchi eolici viene posta in modo decontestualizzato, riceve il sostegno di oltre la metà della popolazione: 59% (cfr. tab. 8). Tuttavia, se si specifica «vicino a te», la percentuale di sostegno scende di oltre 20 punti, per toccare il 37% (cfr. tabella 9). Anche in questo caso, il sondaggio non ci permette di identificare le risposte delle sole persone interessate, ovvero gli intervistati che vivono nelle aree rurali dove è probabile che vengano realizzati tali progetti.

Anche in questo caso, l’adozione di un atteggiamento NIMBY non è indipendente dal sistema di valori. I gruppi che rimangono prevalentemente a favore dell’energia eolica, anche vicino a casa, sono sostanzialmente gli stessi che hanno appoggiato i limiti di velocità autostradali: multiculturalisti, progressisti e socialdemocratici (più gli eclettici, un gruppo sensibile anche alle questioni ecologiche). Come nella domanda precedente, i gruppi con sistemi di valori conservatori e identitari sono particolarmente ostili all’energia eolica (cfr. Tabella 9). Tra questi, il rifiuto non solo è molto alto, ma si esprime con determinazione, come dimostra la percentuale di risposte «molto sfavorevoli», che spesso supera il 50% (anche se spesso non si tratta di individui direttamente interessati). Anche su questo tema, la segmentazione per sistema di valori rivela ampie divisioni: il divario tra multiculturalisti e identitari sull’installazione di parchi eolici raggiunge il notevole livello di 70 punti.

Il rapporto con l’aereo come indicatore della diffusione del free riding (anche nei gruppi sensibili alle tematiche ecologiche)

L’aereo è un oggetto interessante perché il suo uso è meno comune di quello dell’automobile e rimane più frequente nelle classi sociali medie e alte. Ad esempio, quando è stato chiesto agli intervistati se fossero «disposti» a «limitarsi a 4 voli nella loro vita» – misura proposta da Jean-Marc Jancovici – il 55% ha risposto affermativamente (tab. 10)10.

Ma la distribuzione del sostegno merita un’attenzione particolare, perché non rientra nella logica osservata sopra. In questo caso, il fatto di essere portatori di un sistema di valori sociali progressisti non è sufficiente a generare il sostegno a una proposta di questo tipo, mentre al contrario il fatto di essere conservatori o addirittura scettici nei confronti del clima non è necessariamente predittivo del rifiuto della misura. Ad esempio, la maggioranza dei socialdemocratici e dei progressisti, due gruppi convinti dell’urgenza del cambiamento climatico, dichiara di «non essere pronta» a ridurre l’uso dell’aereo, mentre la maggioranza dei solidali, dei refrattari, degli euroscettici, dei social-patrioti e degli antiassistenzialisti si dice pronta a farlo. Come avrete sicuramente capito, si tratta principalmente di una differenza di posizione socio-economica, associata a stili di vita molto diversi e, più specificamente, a un uso molto diverso dell’aereo. I progressisti e, ancor più, i socialdemocratici sono tra i gruppi con maggior capitale economico e culturale, e quindi anche tra i più assidui frequentatori di aerei. Sebbene il loro sistema di valori li spinga ad adottare comportamenti ecologici, la maggior parte di loro è comunque riluttante a limitare l’uso dell’aereo. Al contrario, i cluster di estrazione popolare, anche tra coloro che tendono allo scetticismo climatico, sono «pronti» a questo tipo di impegno, poiché non ha alcun impatto sulle loro abitudini e pratiche reali. Philippe Coulangeon e i suoi coautori hanno già fatto notare questo punto nel loro libro La conversion écologique des Français. Descrivendo il gruppo degli «ecocosmopoliti» – così chiamati perché le loro pratiche sono improntate alla sobrietà e all’orientamento ambientale – gli autori fanno notare che, paradossalmente, «l’uso dell’aereo è elevato: più di un terzo lo ha usato due o più volte per viaggiare nell’ultimo anno…»11. Questo dato evidenzia la difficoltà di rinunciare a piaceri e stili di vita per limitare la propria impronta di carbonio, anche in gruppi con un certo livello di consapevolezza ecologica.

L’ideale suburbano più forte della crisi climatica

Chiedere ai francesi se sono «pronti» a «rinunciare a vivere in una casa indipendente» rivela il loro attaccamento all’«ideale suburbano» e a stili di vita che, come sappiamo, non sono i più compatibili con lo sviluppo sostenibile e la riduzione delle emissioni di gas serra.

Interrogato su questa prospettiva, il 77% dei francesi ha dichiarato di non essere «disposto» a «rinunciare a vivere in una casa indipendente» (tab. 11). Questo risultato è ancora più notevole se si considera che è addirittura superiore alla percentuale di francesi che vivono in una casa indipendente: 66% rispetto al 41% della Germania e al 31% della Spagna, ad esempio (fonte: INSEE, tableau économique de la France 2022). Anche i gruppi più ecologisti (multiculturalisti, progressisti) non sono disposti a rinunciare alla casa unifamiliare. Per quanto riguarda i gruppi più conservatori e identitari, il loro rifiuto di tale prospettiva si avvicina al 90%. Si comprende quindi il rischio politico di stigmatizzare lo «stile di vita suburbano» e come tale stigmatizzazione possa attivare segmenti che già in partenza sono restii a sostenere le politiche di transizione. Come su altri temi, anche in questo caso gli interessi diretti e personali esercitano una forte influenza: più gli intervistati vivono in un piccolo comune, più naturalmente esprimono il loro attaccamento alla casa indipendente: il 96% di coloro che vivono in comuni con meno di 3.000 abitanti dichiara di «non essere disposto» a rinunciarvi (tab.12) 

L’auto, un oggetto altamente infiammabile

Per concludere questa rassegna non esaustiva delle aree di tensione associate agli obiettivi di decarbonizzazione delle nostre società, è impossibile ignorare l’automobile. Dato il posto che occupa nelle nostre società e nei nostri stili di vita, è un tema fondamentale nelle politiche di transizione. Come sappiamo, l’Unione Europea ha fissato al 2035 la data di divieto di vendita dei veicoli con motore a combustione interna. La loro sostituzione con veicoli elettrici è al centro delle politiche di transizione. Queste politiche sono particolarmente divisive e la battaglia culturale in questo settore è tutt’altro che vinta dagli ambientalisti.

Nello studio che abbiamo condotto sull’ecocomplottismo, abbiamo dimostrato che la sfiducia nei confronti dei veicoli elettrici era schiacciante: il 68% degli intervistati era d’accordo con l’affermazione «le auto elettriche sono una fregatura»12. Gli unici gruppi che si sono dimostrati in maggioranza favorevoli all’elettrico sono stati quelli che hanno combinato atteggiamenti favorevoli al clima e fiducia nel sistema: i socialdemocratici e i progressisti. Al contrario, i segmenti identitari e anti-sistema – composti in gran parte da persone della classe operaia e medio-bassa – sono decisamente ostili alle auto elettriche. Tuttavia, è importante sottolineare che, contrariamente a quanto talvolta ingenuamente affermato nel dibattito pubblico, il rapporto con i veicoli elettrici non si basa esclusivamente sul potere d’acquisto. L’acquisto di un veicolo elettrico non è solo una questione di mezzi, ma anche di desiderio. Come spiegare altrimenti il fatto che il 62% del gruppo con il maggior capitale economico, i liberali, ritiene che «le auto elettriche sono una fregatura»; per non parlare degli identitari – un gruppo composto principalmente da persone della classe media – che condividono lo stesso rifiuto delle auto elettriche all’87%. Senza dubbio queste risposte dimostrano un reale attaccamento alle auto tradizionali e ai motori a combustione, e senza dubbio esprimono una sorta di rifiuto «di principio», sia politico che estetico, di uno dei principali marcatori delle politiche di transizione energetica.

Non sorprende quindi che il 59% dei francesi si dichiari «non pronto a fare a meno dell’auto a combustione interna (motori a benzina e diesel)» (tab. 14). Anche in questo caso, il divario ideologico agisce con forza. Un’ampia maggioranza di gruppi progressisti considera le politiche climatiche una priorità. D’altro canto, l’attaccamento ai motori a combustione è molto alto in tutti i gruppi caratterizzati da sistemi di valori basati su conservatorismo e identitarismo.

L’acquisto di un veicolo elettrico non è solo una questione di mezzi, ma anche di desiderio. Come spiegare altrimenti il fatto che il 62% del gruppo con il maggior capitale economico, i liberali, ritiene che «le auto elettriche sono una fregatura»

Jean-Yves Dormagen

In un simile contesto, la prospettiva di vietare i veicoli a combustione interna (ZFE) più inquinanti, e in particolare le auto diesel, può comprensibilmente diventare una grande fonte di tensione sociale e politica. Oggi, il divieto di circolazione dei veicoli diesel nei centri delle grandi città è respinto dal 70% dei francesi13. Anche i multiculturalisti sono divisi su tali restrizioni (senza dubbio perché la misura è vista come penalizzante soprattutto per le classi lavoratrici). E, naturalmente, c’è un consenso ostile tra tutti i gruppi anti-sistema o conservatori, con persino i social-patrioti e gli identitari che respingono la misura per oltre il 90%.

Prima ancora di essere preoccupanti, o addirittura penalizzanti, non dobbiamo trascurare il fatto che questi progetti – che ci piaccia o no – hanno inevitabilmente una dimensione stigmatizzante: designano le popolazioni suburbane e rurali che viaggiano con veicoli diesel (spesso le classi lavoratrici) come responsabili dell’inquinamento e del riscaldamento globale. Perpetuano gli stereotipi che contrappongono i «radical chic» in bicicletta delle metropoli agli abitanti delle campagne con motore diesel. Se analizziamo il modo in cui vengono accolti nell’opinione pubblica per cluster, dobbiamo ammettere che questi punti di conflitto sono suscettibili di favorire l’alleanza elettorale della piccola destra conservatrice e di un’ampia frazione delle classi lavoratrici antisistema nel quadro di un contraccolpo ecologico che potrebbe contribuire alla riconfigurazione dei sistemi politici europei.

Conclusione: il confronto imminente

Riteniamo che da questi dati e studi si possano trarre diversi insegnamenti. In primo luogo – e questo è deplorevole 14– dimostrano che la transizione ecologica non è un argomento consensuale. D’altra parte, i dati che abbiamo presentato ci aiutano a capire perché l’ecologia sta diventando sempre più divisiva e perché dovrebbe diventarlo ancora di più nei prossimi anni.

Sta diventando sempre più divisivo perché si confronta con gli interessi e perché è di fatto un progetto di trasformazione degli stili e persino dei modi di vita che una parte non trascurabile della popolazione rifiuta. Come abbiamo visto, la maggioranza delle persone non è «pronta» a contribuire – o per lo più non molto – alla riduzione dell’intensità del cambiamento climatico. Di conseguenza, coloro che si sentono – a torto o a ragione – più minacciati dalla fine dei veicoli a combustione interna, da eventuali tasse sui carburanti, dall’installazione di parchi eolici o semplicemente stigmatizzati dal loro stile di vita (suburbano) tenderanno a identificarsi con la retorica e le posizioni ostili alle politiche di transizione.

Ma ciò che la nostra segmentazione in gruppi di valori mostra è che il rapporto con l’ecologia è profondamente radicato in sistemi di separazione più globali. Ad esempio, è ampiamente correlato con l’opposizione tra multiculturalisti e progressisti, da un lato, e conservatori e identitari, dall’altro. Tutti i nostri risultati dimostrano che l’ecologia non è una questione autonoma, separata dalle altre questioni divisive che sono distribuite in modo casuale nell’arena sociale. L’ecologia non costituisce quindi una divisione in sé, nel senso che impone la propria logica divisiva indipendentemente da altre divisioni esistenti. Lo dimostra la distribuzione dello scetticismo climatico e del relativismo climatico. Lo scetticismo climatico e il relativismo climatico sono praticamente assenti nei gruppi più progressisti, mentre questi atteggiamenti sono molto diffusi, come abbiamo visto, nei gruppi conservatori e/o identitari. Lo stesso tipo di relazione si osserva quando si parla di accettabilità delle politiche di transizione. Certo, la maggior parte degli individui non è molto entusiasta all’idea di dover contribuire, ed è difficile per quasi tutti rinunciare a fonti di soddisfazione o di piacere, o anche semplicemente ad abitudini molto inquinanti, come prendere l’aereo. Ma, più o meno allo stesso costo, i sistemi di valori si rivelano decisivi, come conferma il sostegno maggioritario dei multiculturalisti a quasi tutte le misure volte alla decarbonizzazione. Al contrario, gli scettici climatici e i relativisti climatici sono, logicamente, i più radicalmente contrari a qualsiasi sforzo per combattere il riscaldamento globale.

Tutto ciò contribuisce a spiegare perché tra i populisti di destra stanno nascendo offerte scettiche o relativiste sul clima. Questo (ri)posizionamento sulla nuova frattura climatica corrisponde a una richiesta proveniente in gran parte dall’interno della loro coalizione elettorale originaria. Questa frattura è ben allineata con le altre linee di divisione chiave per loro: anti-immigrazione, anti-islam, anti-élite e persino, in una certa misura, anti-sistema (appunro l’ecocomplottismo). Offre inoltre un grande vantaggio: contribuisce a riunire la maggior parte dei gruppi tradizionali di destra. A causa del loro conservatorismo culturale e dell’attaccamento a stili di vita che possono sembrare stigmatizzati dalla retorica ambientalista, sono spesso ancora più ostili alle politiche di transizione rispetto agli elettori populisti. Stiamo quindi assistendo all’emergere di una potenziale coalizione conservatrice il cui cemento combinerebbe conservatorismo sociale, nativismo e – questa è la novità – scetticismo o relativismo climatico.

Dall’altro lato, la logica delle divisioni e l’allineamento delle linee di conflitto dovrebbero portare all’emergere di una coalizione ecologista-progressista altrettanto potente. Per quanto riguarda le questioni identitarie e sociali, questa coalizione è simmetrica sotto tutti i punti di vista: tollerante nei confronti degli stranieri, progressista sulle questioni sociali e, naturalmente, desiderosa di rendere il cambiamento climatico una priorità delle politiche pubbliche. In un Paese come la Francia, i gruppi che la compongono provengono principalmente dalla sinistra politica (in tutte le sue sensibilità), ma anche in parte da alcuni segmenti «moderati». Per vincere, dovrà rendere accettabile la transizione ecologica integrandola in un progetto complessivo di società desiderabile.

Che ci piaccia o no, il confronto tra questi due progetti sembra difficile da evitare e il destino della transizione climatica dipende in parte dal suo esito.

Note
  1. François Hublet, Mattéo Lanoë, Johanna Schleyer, Le dilemme de la droite européenne: nouvelle Grande Coalition ou majorité national-conservatrice ?, Groupe d’études géopolitiques, giugno 2023.
  2. Il Fidesz (Ungheria), i Veri finlandesi e l’Alleanza nazionale in Lettonia, per esempio, riconoscono l’importanza del tema climatica e la necessità di dargli soluzioni politiche.
  3. «Pour la présidente du Parlement européen, le Pacte vert nourrit le populisme», Le Monde, 12 settembre 2023.
  4. Obs’COP 2022 Présentation des résultats de l’observatoire international climat et opinions publiques, Ipsos. https://www.ipsos.com/sites/default/files/ct/ news/documents/2022-12/obscop2022-12_principauxresultats_fr_0.pdf.
  5. Sondage Cluster 17, pubblicato da le Point il 22 luglio 2023 : https://www. lepoint.fr/societe/les-francais-se-declarent-ecolos-mais-ne-sont-pas-prets-a- renoncer-a-leur-mode-de-vie-22-07-2023-2529172_23.php.
  6. https://cluster17.com/trouver-mon-cluster/.
  7. Jean-Yves Dormagen, Stéphane Fournier, Pierre-Carl Langlais, Justin Poncet, Anastasia Stasenko, «“Dictature climatique”, “Pass climat”, “Great Reset”, les discours complotistes à l’assaut de l’opinion», Note de la Fondation Jean Jaurès, 6 aprile 2023, https://www.jean-jaures.org/publication/dictature-climatique-pass-climat-great-reset-les-discours-complotistes-a-lassaut-de-lopinion/. Consulta anche : David Chavalarias, «Climatosceptiques : sur Twitter, enquête sur les mercenaires de l’intox», in CNRS le journal, mars 2023, https://lejournal.cnrs.fr/articles/climatosceptiques-sur-twitter-en- quete-sur-les-mercenaires-de-lintox
  8. In Jean-Yves Dormagen, Stéphane Fournier, Pierre-Carl Langlais, Justin Poncet, Anastasia Stasenko, «“Dictature climatique”, “Pass climat”, “Great Reset”, les discours complotistes à l’assaut de l’opinion», op. cit.
  9. Mancur Olson, The Logic of Collective Action: Public Goods and the Theory of Groups, Harvard University Press, 1971.
  10. Sondage Cluster 17, publié dans le Point le 22 juillet 2023 : https://www. lepoint.fr/societe/les-francais-se-declarent-ecolos-mais-ne-sont-pas-prets-a- renoncer-a-leur-mode-de-vie-22-07-2023-2529172_23.php.
  11. In Philippe Coulangeon, Yoann Demoli, Maël Ginsburger, Ivaylo Petev, La conversion écologique des Français. Contradictions et clivages, Paris, PUF, 2023, p. 171.
  12. In Jean-Yves Dormagen, Stéphane Fournier, Pierre-Carl Langlais, Justin Poncet, Anastasia Stasenko, «“Dictature climatique”, “Pass climat”, “Great Reset”, les discours complotistes à l’assaut de l’opinion», op. cit.
  13. Ibidem.
  14. Paul Magnette sottolinea che il progetto ecologico non deve temere la conflittualità e dovrebbe piuttosto pensare di più e meglio le sue condizioni di possibilità integrando i necessari rapporti di forza senza i quali nessuna riforma approfondita dei nostri sistemi produttivi e dei nostri modelli sociali attualmente in vigore è possibile. Dans La vie large : manifeste écosocialiste, Paris, La Découverte, 2022.