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Il potere è moto perpetuo. I suoi equilibri si modificano in continuazione. Mutano le regole, i rapporti di forza, il sistema dei controlli, gli equilibri degli interessi, le maggioranze e le minoranze, le violenze, le costrizioni. Ogni giorno o quasi. Esistono però fasi della storia in cui questo moto, questo gran ballo del potere, è particolarmente accelerato e vorticoso. Il nostro tempo presente è uno di quei momenti.
La pandemia ha reso più fisico il potere. Più vicino ai cittadini, più protettivo e al tempo stesso più inquietante. Il potere è tornato a delimitare uno spazio fisico che sembrava senza confini prossimi. Le case sono state serrate per decreto, le persone chiuse dentro. Le attività economiche sospese, erogati flussi di denaro pubblico per fermare le perdite. E poi ancora dispositivi medici obbligatori, distanziamento sociale, quarantene, prenotazioni obbligatorie, vaccinazioni di massa, tamponi. Gli individui si sono trovati isolati dagli altri uomini, ma esposti come canne al vento all’azione del potere amministrativo. L’uomo, e non soltanto lo Stato, è stato costretto ad essere più disciplinato, pianificatore, burocratico.
Autocertificare, attestare, dare comunicazione, certificare, codificare. La tecnologia, che già sferzava nella nostra quotidianità, si è intimamente accoppiata con l’amministrazione. La morsa della tenaglia tecno-amministrativa si è fatta più stretta all’ombra della maschera paternalista dello Stato. Tracciamento, prenotazioni, app, QR code. L’automatismo della macchina al servizio della sanità pubblica e del nuovo ordine pubblico. Utile dispositivo per debellare la malattia e impersonale meccanismo di organizzazione. Terminale senza volto, pura spirito di funzione. Nuova scienza della polizia, se questa la si intende nel suo antico significato tedesco (polizei), come potere gestionale, regolatore degli affari interni e dell’economia. Potere disciplinante e paternalista che perimetra il comportamento degli individui con l’ordinanza e col decreto.
Il potere, si diceva, si è fatto più fisico ma anche più impalpabile. La procedura ha travolto la politica, l’algoritmo guida l’organizzazione sociale, le pratiche e i decreti sostituiscono il legislatore. Sono volti vuoti ed inermi quelli che appaiono nelle televisioni, c’è molto più potere nella struttura che nella leadership. È diventato chiaro quanto la comunicazione ed il personalismo politico restino il fumo sovrastante mentre la complessità di strutture interdipendenti sia il carbone ardente che serve per arrostire la carne. La nostra vita quotidiana in questo prolungato stato di eccezione dipende molto di più dal funzionario, sia medico, ingegnere o informatico, o dall’impiegato dell’azienda sanitaria, che non da politici impotenti oppure tremendamente impauriti.
La straordinaria rivoluzione dell’informazione digitale degli ultimi anni aveva celato l’illusione, oggi caduta, che la politica fosse ancora in grado di prendere decisioni fondamentali per i destini umani e di mettere da parte o almeno controllare i mastodontici apparati che governano le nostre vite. Sistemi tecno-burocratici in grado di condizionare anche la più politica tra le attività umane: la guerra. Tendenza di recente rimarcata dalla “questione afghana” e dagli errori informativi, organizzativi e logistici imputabili al sistema americano, più che alla politica in sé, nella ritirata. Si può regredire senza traumi da una burocrazia e da un esercito di taglia imperiale? Domanda centrale nel futuro degli Stati Uniti d’America e del resto del mondo. Ma torniamo al punto.
La pandemia ci ha ricordato che essere governati è anche e soprattutto essere chiusi, tracciati, sorvegliati, controllati, certificati, distanziati, isolati. La domanda di sicurezza ha stretto gli ultimi bulloni residui del Leviatano. Ha spazzato via tutte le membrane, come la famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni, le chiese, che separavano l’uomo dal governo. L’amministrazione delle cose si è sovrapposta all’amministrazione delle persone. Mai si è arrivati così vicini negli ultimi decenni a qualcosa di così simile allo Stato in guerra, ad un livello di interventismo del potere pubblico nella vita privata così penetrante. Potere duro, che interviene, regola, dispone, autorizza, rinchiude, isola. Ma anche potere che confonde e si nasconde. Rispondere alla domanda “chi ci governa?” è sempre più difficile. Chiunque intuisce che la politica è solo un pezzo, e oramai nemmeno quello più evidente, di un sistema di potere che si sposta.
Dai territori fino ad oltre lo Stato, passando per multiple burocrazie, i comitati tecnico-scientifici, le task force, le agenzie, gli istituti e numerosi altri corpi amministrativi. La politica è ridotta a mera attività di regolazione dei rischi, o meglio brancola nel buio alla ricerca di un irraggiungibile rischio zero. In questa affannosa corsa spinge le strutture verso la massima pianificazione. Pretende di annullare l’errore, di minimizzare il danno, di controllare l’incontrollabile, di avere risposte dalla scienza che spesso la stessa scienza non può dare. Ma la coperta è sempre corta: se si cerca di ridurre il danno sanitario ci si espone a quello economico e viceversa, se si contiene il rischio pandemico ci si espone a quello sociale, se si persegue una politica scientifica ci si ritrova spogliati dai tecnici, mentre se si segue l’istinto politico puro ci si pone come navigatori dilettanti esposti alla tempesta. In ogni scenario, una legittimazione politica già da lungo tempo precaria, interna a quel regime che ancora chiamiamo democrazia, si indebolisce ulteriormente. Si rivolgono le proprie preghiere al tecnico, alla scienza, all’amministratore, al militare.
Questo nuovo potere indurito, su cui la classe politica non ha potuto far altro che mettere le mani con indecisione per affrontare l’emergenza, ha rotto le illusioni di un ipotetico ritorno del politico. L’idea che la discussione pubblica e la rappresentanza possano tornare al centro della scena è un’idea romantica, troppo romantica. Così come sembra eccessivamente apocalittica l’idea di una guerra civile, reale o figurata, che possa rivoluzionare le istituzioni. I regimi politici del prossimo futuro si fonderanno sempre più sulla amministrazione, sull’apparato scientifico-tecnologico, sull’intreccio tra capitalismo pubblico e privato, sui centri di fabbricazione della competenza e sempre meno sulla rappresentanza politica per come è stata concepita e vissuta nei decenni passati. In questo senso, la pandemia ha soltanto accelerato e reso evidente una tendenza di lungo periodo.
Difatti, nella concretezza del potere quotidiano, regimi all’apice del proprio auto-compiacimento liberale e democratico hanno avanzato la più grande operazione di disciplinamento della popolazione che ci sia stata dalla fine della Seconda guerra mondiale. È in nome dell’emergenza che si è attivato il torchio della banca centrale, liberati i bilanci dalla disciplina economica, avviato il complesso scientifico-industriale, fermate le attività economiche, risucchiate informazioni personali, ristrette le libertà, sovvertito il modo di vivere comune. Certamente per necessità, quella di contenere il contagio, ma anche per l’enorme difficoltà che le grandi comunità odierne hanno nel governare loro stesse. Una sofisticazione tale, accoppiata ad una sempre più disfunzionale inflazione burocratica e regolamentare, che per fronteggiare gli imprevisti domanda soluzioni sempre più radicali e scarica una buona dose delle responsabilità dei vertici politico-amministrativi sulla collettività. L’uomo occidentale credeva di vivere in sistemi liquidi e flessibili ma con il cigno nero della pandemia ha compreso di vivere in regimi solidi e molto rigidi. E dunque fragili come il cristallo. Il prezzo per fronteggiare l’emergenza resta la inevitabile coercizione dello Stato sull’individuo.
Dunque, qual è il confine del potere nell’emergenza? E quanto a lungo uno stato d’emergenza si può giustificare prima di trasformarsi in qualcosa di più preoccupante? Questa appare la domanda fondamentale quando si guarda in faccia il nuovo volto del potere. Fino a due anni fa si credeva a ragione di vivere in società libere. La minaccia dalla pandemia ha imposto l’accettazione di momentanee restrizioni della libertà di movimento, di produzione e consumo. Davanti alla malattia e alla morte vi sono state colpevolizzazione, controllo reciproco, responsabilizzazione anche quando l’organizzazione sanitaria e della sfera pubblica lasciavano a desiderare non per causa di gran parte dei cittadini. Impaurita dal ritorno del contagio, gran parte della popolazione ha diligentemente fatto la fila per i vaccini e ha mantenuto distanze e precauzioni. La preoccupazione nei confronti di frange minoritarie di indisciplinati ha portato ad accogliere il codice digitale, il certificato, il controllo esercitato da soggetti pubblici e privati. Le libertà e i diritti costituzionali sono stati compressi o, se si vuole essere meno drammatici, pesantemente riequilibrati tra loro. Lo Stato, soprattutto in Europa, ha esercitato di fatto un potere costituente. Quanto precario e temporaneo lo si capirà poi.
Tutto questo ha trovato la sua legittimazione in nome di uno stato d’eccezione momentaneo. Momentaneo. Ma fino a quando? Fino a che punto? Non c’è essere umano abituato all’utilizzo del dubbio e della ragione che non sia assillato da questa domanda di questi tempi. Tutto tornerà “normale” come “prima”? Ma è quasi impossibile riavvolgere il tempo una volta che il “normale” è stato scavalcato dagli eventi. Si è discusso molto sulle trasformazioni di lunga durata dell’economia a seguito della pandemia. Molto meno si è riflettuto sulle potenziali trasformazioni della politica. Sembra quasi che l’attuale classe dirigente occidentale abbia scelto di ignorare, forse per esorcizzare il potenziale caos o le potenziali derive dispotiche, le conseguenze politiche che il nuovo volto del potere potrà produrre. Si invoca spesso la rinascita del post-pandemia guardando al fiorire economico e sociale del dopoguerra. Ma allora, dopo anni di morte e devastazione ben peggiore, interi regimi politici e assetti sociali consolidati vennero abbattuti. La ricostruzione ripartì tenendo il buono di ciò che c’era prima della guerra e gettando tutto il resto. Rifondando la società e scrivendo nuove costituzioni. Ma allora la distruzione era stata tale da giustificare una ripartenza quasi da zero. Lo scenario post-pandemico, se si esclude la variazione di paradigma economico, appare assai meno innovativo. Non si scorgono all’orizzonte nuovi contratti né nuovi patti sociali né una costituzione europea.
Sul piano sociale, inutile girarci intorno, chi prima della pandemia aveva un curriculum, un reddito e una posizione elevata uscirà ancor più rafforzato da questo tempo eccezionale. L’impressione è che la distanza crescente tra gruppi sociali è stata sia stata forse accelerata più che ridotta dalla pandemia e dalle soluzioni politiche da essa scaturite. I sussidi non basteranno a rendere più giuste né meno inquiete le nostre società.
Se lo Stato è “di tutti i gelidi mostri il più gelido”, di ancor più tacita freddezza è l’apparato tecnico-produttivo, il “capitalismo immateriale” dei tempi nostri. Una totalità, in cui si dispongono e ordinano le singole competenze, sicché neppure la specializzazione del sapere salva l’individuo, ma lo conduce e racchiude all’interno di quella unità. Lo smart working, accelerato dall’espansione virale, risponde alla logica della più rigida funzionalità: la lontananza fisica esalta l’oggettività dell’apparato, che non ha bisogno di alcun luogo, poiché è capace di raggiungerci in tutti i luoghi, o, meglio, di sovrapporre il reale ed il virtuale. Mentre lo Stato pandemico disegna più angusti confini fisici, l’apparato tecnico-produttivo sfrutta l’emergenza per abolire la dimensione materiale dello spazio. Uno si mostra e delimita, l’altro scompare e penetra.
Quasi due anni di pandemia hanno mostrato paradossi che non si pensavano possibili. Che l’origine del virus sia stata frutto del caso o di una Chernobyl biologica, sorprende come il paese più indirettamente responsabile della pandemia sia uscito rafforzato nell’immagine, nella leadership e nell’economia. Il dato reale è che la Cina ha sfruttato la pandemia per ristrutturare la propria economia e per cercare di dispiegare la propria politica di potenza. Emerge con sempre maggior chiarezza il “paradosso cinese”. E’ vero, come ha sottolineato Henry Kissinger nel 2019, che siamo all’inizio di una nuova guerra fredda, eppure i regimi politici occidentali sembrano avvicinarsi a quello di Pechino sul piano politico ed economico. Due modelli in contrasto tra loro finiscono per rassomigliarsi. Gli americani sono stati a lungo ossessionati da questa sindrome osmotica per cui la guerra, reale o fredda, con altre potenze avrebbe trasformato gli Stati Uniti in regimi simili a quelli sconfitti.
Durante la guerra fredda, un tema ricorrente nelle analisi di progressisti e conservatori era che stava maturando una sorta di convergenza, la quale faceva assomigliare gli Stati Uniti, almeno per alcuni aspetti, al loro antagonista sovietico. Che tutte le superpotenze nucleari sarebbero diventate Stati totalitari era stata, ad esempio, la cupa profezia di George Orwell proprio nell’articolo in cui inventava il termine “Guerra Fredda”. Un rischio poi nuovamente denunciato nel celeberrimo romanzo 1984. Ma una preoccupazione simile aveva agitato i sogni anche di un presidente pragmatico come Dwight Eisenhower, il quale aveva messo in guardia i cittadini, alla fine della sua presidenza, sul pericolo del potere del “complesso militare-industriale”. Nel Nuovo Stato Industriale (1967) invece, John Kenneth Galbraith sosteneva che la pianificazione avrebbe inesorabilmente sostituito il libero mercato nel mondo occidentale, proprio come aveva fatto nell’Unione Sovietica, a causa delle esigenze della “produzione moderna su larga scala”. Inutile dire che timori e suggestioni della classe intellettuale americana si sono rivelati o molto sbagliati oppure si sono solo parzialmente realizzati. Gli Stati Uniti non sono diventati un paese collettivista né politicamente illiberale. Il divario tra il sistema economico americano e quello sovietico è solamente cresciuto nel tempo, non solo in termini di organizzazione ma anche di prestazioni. Né si è materializzato l’incubo di Orwell: gli Stati Uniti e i suoi alleati non sono degenerati in Oceania, uno stato totalitario indistinguibile dall’Eurasia e dall’Asia.
Tuttavia, la gestione della crisi pandemica da parte della leadership americana non si è risolta nel tracciare una netta linea di demarcazione politica con la Cina, con la quale le frizioni geopolitiche sono state in costante aumento negli ultimi dieci anni. Non sono stati riaffermati principi come il libero mercato, la libertà di parola, lo stato di diritto e la separazione dei poteri per mettere ulteriore distanza tra il sistema americano e quello della Repubblica popolare cinese, basato sul potere illimitato e incontestabile del partito comunista su ogni aspetto della vita individuale. Anzi, sul piano economico gli Stati Uniti hanno seguito la via tracciata dall’autoritarismo di Xi, fondata sul rilancio dei consumi interni e su accresciuti stimoli fiscali (1 trilione di dollari). L’amministrazione Biden ha varato prima l’American Rescue Plan (1.9 trilioni di dollari), poi l’American Jobs Plan per potenziare le infrastrutture (2.2 trilioni) ed infine l’American Families Plan (1.8 trilioni). Il costo totale di questi piani arriva a poco meno di 6 trilioni di dollari, equivalente a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti (sebbene la spesa per entrambi i piani Jobs e Families sia distribuita su più anni). Pianificazione, pianificazione, pianificazione come alla metà degli Sessanta a cui conseguì, è bene ricordarlo, la disastrosa crisi del decennio successivo tra stagnazione e inflazione.
I repubblicani però sono nella posizione giusta per attaccare queste scelte di politica economica, avendo incautamente legittimato sia il reddito di base universale che la Modern Monetary Theory (MMT) con le misure di emergenza approvate lo scorso anno. Da ultimo, ci sono senza dubbio argomenti ragionevoli a favore dei certificati elettronici di vaccinazione (green pass) adottati da molti paesi occidentali, così come sono esistiti precedenti storici per documenti simili. Esiste, tuttavia, un ovvio rischio che tali certificati possano trasformarsi in una sorta di carta d’identità digitale, un sistema che la Cina ha iniziato a utilizzare nel 2018 e che ha stretto ulteriormente il controllo del partito sulla vita dei cittadini e ha ristretto le residue libertà dei “non conformi”.
Tutto questo per dire che tanto le soluzioni sanitarie (lockdown, distanziamento, pass vaccinali) quanto quelle economiche, fondate sul nuovo slancio dell’interventismo statale, hanno avvicinato l’Occidente all’Oriente e al modello di Pechino in particolare. Tuttavia, se per la natura genetica, autoritaria e monopolista, del regime cinese una tale evoluzione può essere letta come espressione della volontà di potenza e come un esercizio del politico attraverso mezzi tecnici al contrario per le democrazie pluraliste, questa dinamica rischia di asciugare ulteriormente “il politico” a favore di una inarrestabile razionalità tecnocratica capace di fiorire sull’anomia degli individui, anomia rimpolpata proprio dall’isolamento prodotto dalla pandemia. Avvertiva Emanuel Mounier in Che cos’è il personalismo? (1948) che «l’organizzazione è un progresso verso l’ordine, ma al qua del punto in cui l’uomo si riduce a una funzione». Oltre quel punto vi è l’alienazione dell’essere umano e l’inedia della società civile.
In questo proliferare di paradossi ve ne è un ultimo che impressiona più degli altri, e cioè l’omogeneità delle soluzioni adottate a livello globale nell’era pandemica indipendentemente dalle costituzioni politiche e dalle tradizioni culturali nazionali o regionali. La globalizzazione non è affatto in ritirata: gli ultimi anni ci hanno ingannato. I paradigmi tecnico-politici sono sempre più somiglianti ed estesi sul piano spaziale. Vale per la sanità, per l’economia, per la tecnologia e per il rapporto tra Stato e cittadini. Seppure i più avveduti avevano saputo scorgerne le premesse nelle scelte politiche ed economiche di questi ultimi anni, nessuno avrebbe scommesso su una convergenza globale così rapida e risolutiva intorno a nuovi paradigmi senza la pandemia.
La differenza nella coloritura della medesima soluzione tra Occidente e Oriente è il verde, le politiche green, proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza, a quello pandemico. Scelta che forse può fornire un orizzonte escatologico, il desiderio di una terra più vivibile, sana e sostenibile, sia con sfumature di destra che di sinistra, e meno “presentista” rispetto al mero interventismo economico e che garantisce forse alla classe politica il pretesto per uno Stato d’eccezione permanente funzionale all’infusione top-down, con una sorta di «modernizzazione dall’alto», di riforme e al mantenimento della presa sulle leve di comando. L’operazione, tuttavia, non appare priva di rischi politici.
Il primo è che l’aspirazione ambientalista è per sua natura di matrice globale e, come è noto, solo una parte del mondo, quella occidentale appunto, è disposta a piegarsi ad una diversificazione di consumi e ad orientarsi verso nuove tecnologie green. Col pericolo che alcuni paesi seguano una strada vanificata dal mancato impegno degli altri nel rapportarsi con i cambiamenti globali. Il secondo rischio è quello della deriva tecnocratica, con una letale combinazione tra la costruzione di un complesso tecnologico-industriale-ambientale e politiche restrittive e costose per quella parte di popolazione più periferica e più debole sul piano socio-economico. In questo caso il timore è quello di avere da un lato provvedimenti che andrebbero per gran parte a favore dei grandi attori del capitalismo pubblico e privato, di imporre dirigisticamente una vulgata pedantemente pedagogica e dei provvedimenti regolatori paternalistici ad una popolazione per gran parte inerte e insensibile. Una situazione che minerebbe probabilmente la legittimazione politica del nuovo ambientalismo e che rischierebbe di non attuare alcuna concreta azione di redistribuzione del reddito, dei pesi fiscali e delle opportunità lavorative né di aprire nuovi spazi di mercato per le piccole imprese.
La ricostruzione di un nuovo ordine politico secondo differenti coordinate potrebbe non essere, in definitiva, così semplice e lineare. Lo scrittore Michel Houellebecq ha forse fiutato il pericolo meglio di ogni altro intellettuale, notando che «non ci risveglieremo, dopo il distanziamento, in un mondo nuovo; sarà lo stesso, ma un po’ peggiore».
È noto, infatti, che un potere in moto perpetuo e vorticoso può distruggere un certo ordine oppure rafforzarlo. Per ora il mondo del dopo Covid-19 rientra nella seconda ipotesi. Tuttavia, così come non sono chiari i confini dell’emergenze, si possono solo formulare plurimi scenari sulla politica post-pandemica. Tre sembrano i più probabili.
Il primo è il rafforzamento della classe politica e burocratica attualmente al governo. Con un potere più verticalizzato, dirigista, interventista. Se questo consolidamento sarà fragile ed illusorio si apriranno altri scenari, ma se al contrario sarà più forte del previsto non è da scartare l’ipotesi di un dispotismo tecnocratico. Il che non significa necessariamente dittature e totalitarismi su modello del ventesimo secolo, ma un progressivo svuotamento delle istituzioni rappresentative a vantaggio di quello burocratiche, giudiziarie, economiche e tecnocratiche. A cui consegue una ridotta mobilità sociale, una maggiore chiusura dei circoli delle élite, un mandarinato impolitico che gestisce il potere sul piano nazionale e sovranazionale, l’impotenza di nuove forze politiche nel deviare i paradigmi scelti da questi gruppi dirigenti apicali. In questo scenario i regimi politici occidentali si avvicinerebbero di più nella forma a quelli asiatici. Tuttavia, la pericolosità del nostro tempo – denunciava un lucido e presciente Emanuel Mounier nel 1948 – «non cerchiamola solo nei fascismi defunti. I tecnocratici di tutti i partiti ci preparano un fascismo raffreddato, (…), una barbarie pulita e ordinata, una pazzia lucida e impalpabile, verso la quale sarebbe meglio ora volgere lo sguardo piuttosto che soddisfarci con poca fatica a condannare un cadavere». Il pericolo maggiore, dunque, è quello di regimi occidentali trasformati in un mandarinato burocratico e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di nuovo dirigismo.
Il secondo è, invece, un inaspettato ritorno del populismo (potremmo anche chiamarlo “estremismo”) con sfumature di destra e di sinistra a seconda dei casi nazionali. L’establishment politico, burocratico, scientifico, esce debilitato dalla lunga pandemia e delegittimato agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica. Oggi questo scenario potrebbe essere nascosto oltre la coltre prodotta dal volto del potere pandemico. Le coalizioni ampie, un potere pubblico indurito, un ordine pubblico maggiormente presidiato, impediscono di vedere il crescere della rabbia politica e sociale. Ad un momentaneo riassorbimento del populismo consegue un’esplosione che nel giro di pochi anni trascina in una crisi i regimi politici occidentali. Qui l’ordine rafforzato dalla pandemia potrebbe essere messo seriamente in discussione, ma senza sapere fino a che punto. Potrebbe aprirsi la via verso una metaforica guerra civile, conflitto di tutti contro tutti. Oppure i populisti post-pandemici arrivati al potere potrebbero semplicemente godere ed impossessarsi dei nuovi dispositivi di controllo e dello stato d’eccezione dispiegati dall’attuale élite politica durante la pandemia. Sfruttare la breccia aperta da chi è ha governato in questi anni. Ad oggi, sul riacutizzarsi della febbre populista, sono possibili soltanto delle ipotesi. Sappiamo però che potrebbe accadere e che potrebbe non essere saggio gettare nel cestino questo scenario, per quanto oggi possa apparire improbabile.
Il terzo scenario è quello in cui la politica riesce a tirare il freno di emergenza. La classe dirigente realizza quanto delicato e fragile sia il sistema della libertà e quanto potenzialmente pericoloso sia lo stato di emergenza permanente e la trappola dello “scivolamento monocratico”, con regimi per lo più nelle mani di mandarini pubblici e privati. Si comprende che la polarizzazione e la frammentazione sociale devono essere contenute per evitare il dispotismo oppure il caos, e per questo si accetta di convivere con minoranze multiple senza demonizzazioni o discriminazioni. La politica si decide a tracciare confini di legittimazione dell’avversario meno stringenti di quelli odierni e riesce a mantenere forme di riconoscimento reciproco pur nella contrapposizione tra fazioni. Ciò significa rinunciare al nazionalismo reazionario a destra ma anche agli eccessi del progressismo scientista e pedagogico a sinistra. Accettare che non possiamo più considerare la felicità come conseguenza infallibile della scienza poiché altre forze operano, sotto la patina dell’ordine civilizzato, inesplorate e selvagge. Per questo si deve rifuggire il rassicurante porto del razionalismo, riscoprire l’uomo in tutte le sue dimensioni e ricomporlo in tutta la sua ampiezza.
Bisogna evitare, al tempo stesso, la reductio ad nationem, impossibile e distruttiva in un sistema politico debordante, interdipendente, reticolare e multilivello. Il potere è dunque chiamato a creare nuove finzioni legittimanti, idee o anche ideologie intorno a cui si ridisegni la scena politica e nuovi momenti costituenti formalizzati e coinvolgenti, e nuove realtà, legate all’evoluzione dello scenario internazionale. Il nostro precario stato di eccezione resterebbe leggero, senza evoluzioni dispotiche o di rottura costituzionale. La società si muoverebbe verso un New Deal economico e politico, comunque non privo di problematiche e pur sempre portatore di conseguenze indelebili nelle istituzioni, più che verso un pesante regime tecnocratico. Il potere eviterebbe la totale spersonalizzazione verso cui sembra tendere. Le amministrazioni nazionali e sovranazionali sarebbero costrette ad essere più aperte e responsabili verso i cittadini. Oggi disponiamo di tecnologie e di tecniche di gestione dei dati che consentono di padroneggiare situazioni estremamente complesse e, soprattutto, di avvicinare i cittadini all’amministrazione e viceversa. Ciò non potrà continuare a funzionare soltanto per il commercio e le relazioni sociali, ma diverrà decisivo anche per portare le misure amministrative “a domicilio”, favorendo la partecipazione attiva dei cittadini. Le forme politiche resteranno differenti da quelle del passato, ma le democrazie liberali manterranno la loro sostanza politica, giuridica e istituzionale. L’Unione Europea tornerà forse a coltivare la speranza di un miraggio costituzionale che la consolidi e riordini.