I padri fondatori del sogno elettrico cinese

Quando Xi Jinping prese il potere nel 2012, tenne un famoso discorso presso il Museo Nazionale di Pechino dove esortava la nazione a rispecchiarsi nelle grandi scoperte del passato (dalla carta, alla polvere da sparo, passando per la bussola) e a riscoprire l’idea che i cinesi potessero ancora essere pensatori originali e imprenditori innovativi.

Seppur sia opinione diffusa che il governo centrale abbia svolto, e continui a svolgere, un ruolo chiave nella direzione industriale e tecno-scientifica della Cina recente, molti dei suoi successi si devono ad un ristretto e mirabile gruppo di imprenditori. E non è infatti un caso che l’ascesa di alcuni di questi personaggi sia passata attraverso lo studio e l’approfondimento della metallurgia e della chimica. È stato in particolare un uomo originario di Anhui che ha intravisto il grande potenziale della Cina nell’era dei metalli rari: Wang Chuanfu. 

[Per approfondire: 10 punti sui metalli rari]

Nato nel 1966 in piccolo villaggio di allevatori in una delle province più povere della Cina maoista, Wang rimase orfano di entrambi i genitori in adolescenza, crescendo insieme a suo fratello e sorella maggiori. Le difficoltà economiche lo obbligarono inizialmente a tralasciare gli studi liceali, per dedicarsi al lavoro. Solo grazie all’insistenza della sorella e del fratello, e ai soldi da loro risparmiati, riuscì a prepararsi per l’ammissione, nel 1983, e a permettersi di frequentare i corsi del Central South Institute of Mining and Metallurgy all’età di 17 anni. 

Dopo aver ottenuto la laurea nel 1987, a Wang fu raccomandato di proseguire i suoi studi post-laurea presso il General Institute of Nonferrous Metals, un istituto di ricerca statale con sede a Pechino, dove iniziò a lavorare come chimico metallurgico sulle batterie. 

Si trattava di una tecnologia dalla storia travagliata. I primi finanziamenti alla ricerca di base fluirono, quasi paradossalmente, alla divisione di ricerca di Exxon Mobil nella metà degli anni ’70, che iniziò ad immaginare lenergia alternativa in seguito agli shock petroliferi.  Venne poi perfezionata da tre scienziati che nel 2019 hanno ricevuto il Premio Nobel per la Chimica per aver contribuito, in fasi e contributi diversi, all’invenzione della batteria gli ioni di litio: gli americani Stanley Whittingham e John Goodenough e il giapponese Akiro Yoshino. A portare sul mercato le batterie al litio ci avrebbe pensato Sony nel 1991, dando avvio ad una vera e propria “rivoluzione wireless” per l’elettronica globale. 

Al tempo una singola batteria ricaricabile costava migliaia di yuan in Cina, con le attività produttive monopolizzate dal Giappone

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Solo due anni più tardi, dopo aver pubblicato paper originali sulla chimica delle batterie al litio, Wang divenne direttore generale dell’istituto. Nel 2003, in un’intervista su Business Week, ricordava come il suo obiettivo sin da ragazzo era stato «quello di diventare un ottimo ingegnere» spinto dalla passione «di costruire migliori batterie per i prodotti elettronici». Quello che all’istituto statale mancava, tuttavia, erano le risorse per i suoi progetti ambiziosi: «Era difficile fare qualsiasi cosa». Al tempo una singola batteria ricaricabile costava migliaia di yuan in Cina, con le attività produttive monopolizzate dal Giappone. 

La crescita del mercato era dirompente. I primi telefoni mobili, le videocamere, il Sony walkman: tutto era basato su piccole batterie al litio che ne consentivano un utilizzo ubiquo. Erano le opportunità dell’elettronica di consumo: costi fissi bassi, alti margini di profitto. E fu in questo contesto che Wang vide uno spiraglio e decise di lasciare la sua posizione all’istituto. Nel febbraio 1995, a soli 29 anni, ottenne un prestito da 3 milioni di yuan per comprare e gestire un vecchio capannone a Shenzhen – la prima Zona Economica Speciale concepita nel paese per sperimentare il capitalismo e aprirsi ai mercati internazionali. Sarebbe diventato il primo stabilimento della sua creatura, BYD (Build Your Dreams), fondata insieme al cugino Lu Xiangyang. 

Gli inizi furono umili, ed epici. Wang dormiva tre, quattro ore al giorno nello stabilimento insieme a decine di lavoratori. Quegli operai, poco specializzati, che avrebbero costituito il suo primo punto di forza. Nella seconda metà degli anni ’90, Shenzhen era un hub manifatturiero globale, attirando i lavoratori dalle campagne nelle nuove linee di produzione delle multinazionali dell’elettronica: computer, telefoni, strumenti da lavoro, giocattoli. Tutti dispositivi a cui serviva una batteria. Tecnologia sui cui Wang iniziò a studiare per catturarne i segreti dei brevetti giapponesi e coreani, addirittura comprando le batterie per analizzarle con i suoi colleghi e tentare il cosiddetto reverse-engineering. Smontandole pezzo per pezzo, il fondatore di BYD cercava il segreto per renderle più efficienti e produrle a buon mercato. 

Smontandole pezzo per pezzo, il fondatore di BYD cercava il segreto per renderle più efficienti e produrle a buon mercato

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Il primo ingrediente fu rimpiazzare le linee di produzione robotizzate giapponesi con i lavoratori a basso costo di Shenzhen. Una catena di assemblaggio lunga 60 metri di BYD, agli esordi, dipendeva dal lavoro organizzato di 40/50 operai, limitando il controllo di umidità e temperatura – cruciali per i materiali catodici – a pochi step della catena. Così Wang riuscì a ridurre i costi. Le batterie di BYD si vendevano a $3 per cella, rispetto agli $8 di quelle giapponesi. Il secondo passo era concepire una batteria migliore. All’inizio Wang e i colleghi si limitarono a riproporre batterie simili a quelle sviluppate dai concorrenti, a prezzi naturalmente più bassi. Il gruppo realizzava batterie ricaricabili NiCd (nichel-cadmio), NiMH (nichel-metallo-idruro) e Li-ion (LFP, litio-ferro-fosfato). Poi Wang riuscì a fare di più, sviluppando una batteria con performance superiori a quelle giapponesi: 3000 cicli di ricarica, ma ad un terzo del prezzo dei concorrenti. 

Produzione di celle fotovoltaiche nel laboratorio di produzione di una società energetica a Hefei, nella provincia di Anhui. (Cina orientale), il 27 gennaio 2022. © Costfoto/Sipa USA

Decise di integrare verticalmente il business, proponendo ai grandi produttori di cellulari di assemblare direttamente la batteria prodotta nei loro dispositivi. Fu così che BYD iniziò ad ingraziarsi il mercato, strappando i primi contratti di fornitura con i colossi dell’elettronica tra cui Ericsson, Philips, Motorola. Nel 2002, l’azienda contava 17.000 lavoratori e produceva 2 milioni di batterie al giorno. Era anche l’anno della quotazione alla borsa di Hong Kong. Wang era idolatrato in Cina come il “re delle batterie” e un anno più tardi il suo sogno poteva dirsi realizzato: BYD era diventata una delle più grandi aziende produttrici di batterie per l’elettronica a livello mondiale. 

Wang era idolatrato in Cina come il “re delle batterie” e un anno più tardi il suo sogno poteva dirsi realizzato: BYD era diventata una delle più grandi aziende produttrici di batterie per l’elettronica a livello mondiale

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Non gli bastava. Voleva espandersi, crescere in nuovi e promettenti mercati, applicando il pragmatismo cinese nella lettura dei mercati e dell’evoluzione dei “sogni”. Perciò, nel 2003 BYD acquisì la decadente Tsinchuan Automobile Company, azienda a controllo statale. L’obiettivo era chiaro: entrare nel mercato automobilistico. Wang non avrebbe, tuttavia, dismesso o fermato l’espansione delle attività manifatturiere nel comparto elettronica. Nel 2003 ci fu un tonfo nelle quotazioni dell’azienda, ma Wang non si fece scoraggiare. Anzi, mise le mani pure su Qinchuan Automobile (ribattezzata Byd Automobile), comprò una fabbrica a Pechino e allestì un reparto di ricerca e sviluppo per automobile a Shanghai. I primi modelli di BYD erano auto convenzionali, con il motore a combustione interna. Ma a conferma della bontà e lungimiranza della visione di Wang, nel 2009 Warren Buffet decise di investire 250 milioni di dollari per il 10% delle sue azioni. Cosa aveva spinto uno dei più grandi investitori della storia a scommettere su BYD? Le batterie, su cui ormai l’azienda aveva un expertise consolidata, era la tecnologia chiave e dunque serviva mantenere una base industriale focalizzata su di essa. Intanto, Wang era diventato l’uomo più ricco della Cina, con 35 miliardi di dollari di patrimonio. Nonostante il suo successo, continuò a vivere a lungo in un quartiere residenziale a Shenzhen. Ma il debito con la sorella e il fratello era stato saldato. 

«Quando arriva un tifone, anche i maiali volano»

Zeng Yuqun ha pronunciato questa frase all’inizio del 2017, durante un discorso ai dipendenti della sua azienda. Cosa fa Zeng? E che cosa voleva dire? Per rispondere a queste domande, facciamo un passo indietro. Fino al 1989.  

In quel tornante storico, l’allora semisconosciuto Zeng raggiunse Dongguan, nella provincia del Guangdong, nella Cina meridionale. Al pari della vicina Hong Kong, anche quella città costiera stava iniziando a respirare l’aria dell’apertura ai mercati globali, nonostante la durissima repressione di piazza Tienanmen. L’ex colonia britannica aveva infatti assicurato a Zeng il suo primo impiego nel privato, nella SAE Magnetic, azienda che produceva testine per gli hard disk dei computer. La filiera dell’elettronica si stava velocemente riposizionando tra Taiwan e Cina. 

Nato nel 1968 vicino a Ningde – città in cui Xi Jinping era stato segretario di Partito dal 1988 al 1990 – durante la Rivoluzione Culturale da una famiglia di agricoltori, Zeng abbandonò a soli 17 anni il piccolo villaggio per iscriversi all’Università Jiao Tong di Shanghai alla facoltà d’ingegneria. Ottenne il PhD in fisica della materia condensata presso l’Accademia Cinese delle Scienze a Pechino. Fin da subito il giovane scienziato scoprì di sentirsi troppo intraprendente per una carriera stabile e confortevole in una compagnia statale nel Fujian: dopo dieci anni alla SAE – nel frattempo acquisita dalla TDK, gigante giapponese dell’elettronica – Zeng aveva coltivato numerosi contatti nel settore. Aveva conosciuto T. H Chen, chimico e fisico taiwanese con un PhD conseguito a Berkeley, con cui iniziò ad approfondire il settore delle batterie elettriche. Ma fu Liang Shaokang, amministratore delegato di SAE, a convincerlo a fondare una sua azienda. Nel 1999, Zeng accettò la sfida, con la nascita di ATL, con Chen nel ruolo di CEO. La sede sarebbe stata proprio a Ningde.

 Solo nel 2001, la ATL aveva prodotto un milione di batterie, utilizzate nelle cuffie Bluetooth e nei lettori portatili

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Al pari di BYD, l’azienda di Zeng e Chen iniziò puntando a produrre batterie per l’elettronica mobile proprio in un contesto di rapida crescita del settore. Nel 2002, il 95% dei telefoni cellulari utilizzava batterie agli ioni di litio. Senza una tecnologia proprietaria, e dopo aver fallito la fabbricazione di batterie a partire da una licenza concessa dai Bell Labs, Zeng e i suoi collaboratori riuscirono a perfezionare la batteria ai polimeri di litio: ATL riusciva a produrla a costi dimezzati e in un modello più flessibile a seconda del dispositivo finale di utilizzo. Solo nel 2001, la ATL aveva prodotto un milione di batterie, utilizzate nelle cuffie Bluetooth e nei lettori portatili. Una crescita che avrebbe attirato l’attenzione del mercato internazionale: nel 2003, il private equity Carlyle Group, con sede negli Stati Uniti, aveva investito 30 milioni di dollari; nel 2004, ATL entrò tra i fornitori di Apple per l’iPod, mentre le rivali BYD e Sony rifornivano rispettivamente Nokia e Motorola. Sembrava la classica storia: tecnologia straniera, investimenti esteri e un’azienda cinese con buona manovalanza ed economia di scala. Forse anche per timore che potesse crescere troppo, nel 2005 la giapponese TDK decise di rilevare ATL per 100 milioni di dollari. Allora il Giappone contava per poco meno del 90% della produzione mondiale di batterie. Per Zeng, poteva essere il momento di godersi il successo, scalando le gerarchie aziendali. 

Ma l’elettronica non era l’unico futuro possibile per ATL e le sue batterie al litio, che già vantavano una densità d’energia 10-20 volte maggiore rispetto alle più tradizionali. Nel 2010, Zeng incontra Herbert Diess, all’epoca responsabile della supply chain di BMW. Secondo le ricostruzioni Diess, poi divenuto CEO di Volkswagen (incarico che ha lasciato nel 2022, ora è presidente di Infineon) aveva provato a convincere il manager di ATL a costruire batterie per le auto. Era, forse, il tentativo di assicurarsi un fornitore per il futuro elettrico dell’auto tedesca. A quanto pare, Zeng inizialmente rifiutò, adducendo l’impossibilità di fabbricare batterie così grandi. Si trattò di un bluff? Davvero un imprenditore della sua tenacia, forte di conoscenze tecniche e chimiche decennali nel settore, si sarebbe arreso così facilmente? Probabilmente si trattava solo dell’interlocutore giusto nel momento sbagliato. 

Nel 2004, ATL entrò tra i fornitori di Apple per l’iPod, mentre le rivali BYD e Sony rifornivano rispettivamente Nokia e Motorola

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Zeng, infatti, aveva intuito che il governo cinese, forte dell’integrazione che BYD e ATL si erano garantite sulle filiere globali dell’elettronica e del vantaggio tecnologico sulle batterie, era seriamente intenzionato a scommettere su un segmento in cui la Cina scontava un ritardo storico: quello automobilistico. Ed è qui che i destini di Zeng e del Partito Comunista si incrociano, in una congiuntura favorevole per assicurare alla Cina sviluppo e sicurezza. Come? Attraverso i new energy vehicle, categoria con cui Pechino individua i veicoli elettrici ed ibridi. Ma sono soprattutto i primi a solleticare le ambizioni della classe dirigente cinese, già individuate nel “programma 863” del 1986 come alta tecnologia su cui puntare. 

Produzione di celle fotovoltaiche nel laboratorio di produzione di una società energetica a Hefei, nella provincia di Anhui. (Cina orientale), il 27 gennaio 2022. © Costfoto/Sipa USA

Nel 2011, Zeng ha guidato un gruppo di investitori cinesi, con il supporto del governo, ad acquisire una quota dell’85% dell’attività di TDK nel settore delle batterie per veicoli elettrici, scorporandola e denominandola CATL. Il nome cinese significa “l’età di Ningde”, città in cui ha sede proprio il suo quartier generale. Uno dei primi accordi sarebbe stato proprio con BMW Brilliance, joint venture della casa tedesca in Cina, con la quale la neonata creatura di Zeng avrebbe perfezionato il suo ingresso industriale e manageriale nel settore automobilistico. Fu una rampa di lancio fondamentale, grazie anche alla sapiente gestione di Bob Galyen – americano con esperienza decennale nel settore delle batterie – che Zeng aveva chiamato nel ruolo di chief technology officer

Diess potrebbe pure aver ispirato Robin Zeng a entrare nel mercato dei veicoli elettrici, ma nel corso degli anni il chimico si è guadagnato una propria reputazione. Dapprima costruendo un’azienda competitiva a livello globale nel settore delle batterie, e poi capace di sfruttare l’ecosistema cinese, che ne ha fatto l’asset chiave per rispondere ad un duplice obiettivo: rendere la Cina paese leader nella nuova economia delle energie pulite e allo stesso tempo un paese meno afflitto da inquinamento e vulnerabile alle importazioni di petrolio. Zeng lo avrebbe fatto contando sulle spalle generose dello Stato cinese per creare la domanda di veicoli elettrici. Spalle imponenti – forse troppo anche per una personalità riservata come Zeng, che con CATL ha suscitato «soddisfazione e preoccupazione» in Xi Jinping – che oggi, riprendendo la frase del 2017 e che si riferiva alla necessità di CATL di confrontarsi con i competitor senza il “tifone”, sono meno ingombranti. Dopo la decisione di sospendere, all’inizio del 2023, i sussidi al consumo per gli EV. 

Come ha fatto la Cina a insidiare l’industria automobilistica tedesca in soli cinque anni?

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Robin e Wang restano due eroi, imprenditori della sostenibilità, su cui la Cina scommette, che hanno conciliato “innovazione” e “ambiente” (shengtai). Nell’industria automobilistica cinese queste due parole trovano la perfetta declinazione: da una parte, la richiesta di auto in Cina, con il boom economico degli ultimi trent’anni; dall’altra, l’evidente ritardo industriale con l’Occidente, oltre alla dipendenza cronica dal Medio Oriente per il petrolio. Le batterie sono la sintesi perfetta: per risolvere i problemi ambientali, attraverso lo stoccaggio di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili; per rimpiazzare la flotta di auto circolante. Con una terza parola, 金属制品: metallo. Perché, per citare “Dune”, è controllando la “spezia” che inizia il dominio dell’universo delle batterie. 

La strategia cinese e la trappola per la Germania

All’Auto Show di Shanghai del 2023, per la prima volta le auto tedesche come la Volkswagen ID.7 e la Mercedes EQS stavano in secondo piano rispetto alle vere star: le innovative auto elettriche presentate da brand cinesi, come la sorprendente Yangwand di BYD, la NIO ET7 con la sua batteria interscambiabile e l’accessibile Seagull di BYD, da soli 11.000 dollari. 

Questa predominanza di auto cinesi è abbastanza sorprendente, considerando che solo cinque anni fa i produttori di auto tedeschi dominavano indiscussi il mercato cinese e quello globale. Le compagnie cinesi erano conosciute solo per i loro brand low-cost. Ma ora, nel giro di pochi anni, la Cina sembrerebbe aver sorpassato la formidabile industria automobilistica tedesca, diventando il secondo paese per esportazioni di auto nel 2022 dietro al Giappone. I giornalisti di prestigiose testate internazionali, come il Financial Times, hanno alzato un grido unanime: grazie alla rivoluzione elettrica e al miracolo delle batterie, la Cina stava battendo la Germania sul suo terreno  1

La velocità di questa rivoluzione è sorprendente. Pochissimo tempo fa, il mercato cinese dell’auto era dominato dai produttori tedeschi come Volkswagen, BMW e Mercedes. Per esempio, nel 2020 i brand stranieri controllavano quasi il 64% del mercato cinese, con Volkswagen che godeva di 1/3 del mercato. Ma il lato nascosto di questo dominio tedesco in Cina era che i produttori tedeschi erano sempre più esposti e dipendenti dalla Cina per i loro profitti. Per esempio, nel 2020 sempre Volkswagen ha dichiarato che circa il 40% dei profitti dell’azienda provenivano dal mercato cinese. Ora, solo tre anni più tardi, alcuni esperti dell’industria temono che Volkswagen potrebbe non avere proprio un futuro commerciale in Cina. Mentre la storica casa tedesca continua a dominare il segmento dei veicoli a combustione (ICE), il mercato cinese ha iniziato ad adottare gli EV ad una scala e rapidità senza precedenti: dal 5% del 2018 al 26% di oggi per le vendite di EV sul totale. Il problema è che i produttori tedeschi hanno contato solo per il 2.7% delle vendite di EV nel mercato cinese. I consumatori cinesi ora comprano le loro auto. 

Così, non è sorprendente che BYD abbia di recente sorpassato proprio Volkswagen come principale brand per auto vendute in Cina. Inoltre, se guardiamo alla Top 10 delle auto elettriche vendute in Cina nel 2022, c’era solo un’azienda straniera competitiva: Tesla. Questo cambiamento di mercato è già fotografato nella valutazione borsistica di queste compagnie: guardando alla classifica delle principali aziende automobilistiche (per valore) cinque anni fa, i brand tedeschi (Volkswagen, BMW e Mercedes), insieme alla giapponese Toyota, dominavano la scena. Invece, oggi BYD è valutata di più rispetto alle principali aziende tedesche. Queste valutazioni sono probabilmente un riflesso di un dato di fatto per il mercato: i produttori di auto cinesi, come BYD, sono destinati a scalare e dominare il mercato cinese e presto potrebbero insediare il secondo mercato EV del pianeta, l’Europa, il giardino di casa tedesco.  

Come ha fatto la Cina a insidiare l’industria automobilistica tedesca in soli cinque anni? Si sono tutti addormentati? Per capirlo, dobbiamo comprendere quando, come e perché le batterie per i veicoli elettrici siano diventate un punto centrale nella pianificazione tecno-industriale del Partito Comunista. In questo caso, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha saputo aprire il mercato nazionale ai mercati globali, pur mantenendo il controllo del governo centrale sulle sue aziende di punta. 

I produttori di auto cinesi, come BYD, sono destinati a scalare e dominare il mercato cinese e presto potrebbero insediare il secondo mercato EV del pianeta, l’Europa, il giardino di casa tedesco

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Partiamo da un presupposto: sorpassare, o quantomeno provare a insidiare, il dominio tedesco nel mercato automobilistico era considerato fortemente improbabile per la Cina per alcune ragioni. In un mercato competitivo ideale, a un paese come la Cina sarebbe stato possibile l’ingresso fino a quando le forze del mercato lo avrebbero concesso o reso possibile. E infatti, per anni, mentre le politiche di liberalizzazione della Cina avevano consentito alle sue industrie di competere in molti settori, non è avvenuto con altrettanto successo nell’industria automobilistica globale. Per lungo tempo i leader politici cinesi avevano tentato, senza successo, di creare un campione automobilistico che potesse replicare (e rivaleggiare) Volkswagen in Germania, Toyota in Giappone e General Motors negli Stati Uniti. La ragione principale di questo fallimento è da ritrovarsi in due imperfezioni del mercato automotive che hanno protetto gli incumbents dai newcomers.

Innanzitutto, il learning-by-doing nell’industria automotive: proprio perché i tedeschi hanno prima inventato, e poi perfezionato, il motore a combustione interna (elemento al centro dei veicoli convenzionali) attraverso anni e anni di ricerca e sviluppo, implementazioni tecniche e dominio commerciale, chiunque avrebbe impiegato anni, decenni per sfidarli, trovandosi sempre a inseguire. In secondo luogo, l’economia di scala: aumentando esponenzialmente la produzione di veicoli, le aziende riescono a venderle a prezzi inferiori. E questo conta moltissimo soprattutto nell’industria delle auto in generale, perché ci sono costi fissi molto elevati (R&D, materie prime). Per capire il grado di consapevolezza cinese rispetto a questo ritardo, è utile ricordare le parole che il fondatore di WM Motor (azienda fondata nel 2015), Freeman Shen, rilasciò a The Economist nel 2020 in riferimento all’industria dell’auto cinese: «Bisognerebbe investire miliardi di dollari per altri vent’anni, e forse allora cominceremmo solo ad avvicinarci alla Germania […] non c’è speranza».

Produzione di celle fotovoltaiche nel laboratorio di produzione di una società energetica a Hefei, nella provincia di Anhui. (Cina orientale), il 27 gennaio 2022. © Costfoto/Sipa USA

Dunque, queste due difficoltà strutturali nel competere con Germania, Giappone e Stati Uniti, hanno spinto i leader cinesi verso una strategia basata su un’intuizione fondamentale: la relativa semplicità dei veicoli elettrici, come componentistica, avrebbe potuto consentire un doppio risultato. Da una parte svincolarsi dal vantaggio tecnologico goduto dall’Occidente sui motori a combustione (mai completamente colmato) e dall’altra garantire un vero vantaggio competitivo su un’industria nascente, più facile da plasmare secondo i canoni imprenditoriali degli operatori cinesi.

Realizzando le poche speranze di competere con i tre colossi dell’auto nel loro campo, il motore a combustione, il Ministero della Scienza e della Tecnologia cinese stabilì che la Cina avrebbe dovuto focalizzarsi su una nuova tecnologia. Con il programma 863, il ministero riunì tutti i principali enti pubblici e privati interessati – case automobilistiche, fornitori, università e laboratori di ricerca indipendenti – e a partire dal 2006 venne stabilito che il nuovo focus dovevano essere i “new energy vehicle (NEV)”, una definizione cinese che comprendeva i veicoli elettrici a batteria, i veicoli ibridi plug-in e veicoli elettrici a idrogeno. Il grande sogno dei pianificatori cinesi era quello di scavalcare (leapfrogging) le grandi case automobilistiche mondiali, assicurandosi un vantaggio di primo piano scommettendo sull’auto del futuro. Nella leadership cinese, il progetto è stato portato avanti anche da figure con una profonda esperienza nell’industria automobilistica, in alcuni casi acquisita proprio in Germania, come nel caso del Ministro della Scienza e della Tecnologia dal 2007 al 2018, Wan Gang, in forza all’Audi negli anni ’90. 

I leader cinesi verso una strategia basata su un’intuizione fondamentale: la relativa semplicità dei veicoli elettrici

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

In un’intervista, Elon Musk, ha delineato due aspetti fondamentali che hanno dato forma e sostanza a Tesla: per creare un mercato di massa per le auto elettriche, si ha necessariamente bisogno di “design iteration” ed “economies of scale”. Musk ha trovato una strada per Tesla attraverso un marketing intelligente e attraendo investimenti su vasca scala, mentre il governo cinese ha utilizzato un approccio più proattivo e più in linea con le caratteristiche della Cina. Invece di aspettare che il sistema economico e imprenditoriale cinese partorisse il suo “Elon Musk”, per penetrare nel mercato globale dell’auto, la Cina ha attivato la politica industriale. 

In che termini? Per i leader cinesi significava consentire ai brand internazionali di accedere al mercato cinese per stimolare il learning-by-doing (attraverso principalmente joint ventures, condivisione e trasferimento di know-how tecnologico), richiedendo ad essi di produrre le auto localmente in collaborazione con gli imprenditori cinesi. I risultati non furono sufficienti per avere economie di scala tali da consentire agli attori cinesi di competere sul mercato globale. E fu in questo fallimento che si insinuò l’idea di agire sulla tecnologia, provando a scavalcare le gerarchie del mercato dell’auto convenzionale. 

L’idea del leapfrogging si basa sostanzialmente sul fatto che in molte industrie le tecnologie vengono perfezionate lentamente e incrementalmente (learning by doing), fino al punto in cui lo sviluppo di una tecnologia disruptive emerge e cambia lo scenario. Quando questo accade, la spinta del governo può consentire alle aziende di una nazione in via di sviluppo (come lo era la Cina) di scavalcare e aziende straniere dominanti, e di diventare leader in una nuova era tecnologica. Nel 2000, lo stato di avanzamento della ricerca e sviluppo cinese sulle batterie agli ioni di litio e sui sistemi di trazione elettrica era di circa dieci anni indietro rispetto al Giappone, considerando sia le prestazioni tecnologiche che i costi. Nei cinque anni successivi, la Cina avrebbe ridotto questo divario a meno di due anni, grazie soprattutto alla crescita del paese nell’elettronica di consumo e all’emergere dei due giganti, BYD e CATL. 

Invece di aspettare che il sistema economico e imprenditoriale cinese partorisse il suo “Elon Musk”, per penetrare nel mercato globale dell’auto, la Cina ha attivato la politica industriale 

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Nel 2015, nel programma Made in China 2025, Pechino aveva già individuato nei veicoli elettrici a batteria agli ioni di litio la tecnologia ideale: visto che i battery electric vehicle (BEV) sono così differenti dai veicoli a combustione interna, si trattava di un’occasione unica per le aziende di auto cinesi di sbaragliare la concorrenza, focalizzandosi su R&D della nuova tecnologia e assicurando l’economia di scala necessaria per ridurre i costi e accrescerne la competitività. Per facilitare l’incontro tra questi due fattori, il governo cinese ha incoraggiato sia l’offerta (prestiti, investimenti e sussidi), stimolando i produttori di EV (come BYD) e di batterie (CATL) e soprattutto la domanda. 

Una caratteristica fondamentale della politica cinese in materia di veicoli elettrici e ibridi è stata la politica dei sussidi a livello nazionale, coordinata a livello del governo centrale e provinciale, con sovvenzioni che variavano da 10.000 a 20.000 dollari, a seconda della città e del design del veicolo. E qui ci riagganciamo al ruolo della politica di coesione tra industria e autorità, tra business e politica, con in mezzo gli interessi strategici del Partito. Come anticipato, uno dei driver fondamentali per la scommessa sulle batterie e i veicoli elettrici fu anche il desiderio di risolvere l’inquinamento metropolitano e l’impatto ambientale, divenuto un grande tema politico-sociale anche in un sistema autoritario, e al contempo di ridurre la dipendenza della Cina dal petrolio. Inoltre, la creazione di un’industria ‘indigena’ di veicoli elettrici avrebbe dato riconoscimento globale al settore automobilistico cinese, sviluppando una tecnologia all’avanguardia e a costi più bassi. Il programma di sovvenzioni è stato accompagnato da quattro importanti cambiamenti nella politica del settore automobilistica in Cina che ha fatto le fortune delle imprese cinesi. 

Nel 2015, nel programma Made in China 2025, Pechino aveva già individuato nei veicoli elettrici a batteria agli ioni di litio la tecnologia ideale

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

In primo luogo, come abbiamo detto, il governo centrale ha imposto che le case automobilistiche straniere che lavoravano in joint venture con le case automobilistiche cinesi condividessero la loro tecnologia con le aziende cinesi. In secondo luogo, il governo centrale e i governi di province e città rendevano disponibili le sovvenzioni solo alle aziende che assemblavano i veicoli in Cina, favorendo così le case automobilistiche cinesi (un approccio alla supply chain che anticipa quella che, nel 2022, sarà la sua reazione americana, con l’Inflation Reduction Act). Le aziende straniere che esportavano veicoli elettrici in Cina, come Tesla, non solo erano soggette alla tariffa cinese del 25% sulle auto importate, ma non erano nemmeno ammissibili ai sussidi per i veicoli elettrici. Terzo punto, le case automobilistiche cinesi dovevano affidarsi a fornitori cinesi certificati di batterie al litio per poter beneficiare delle sovvenzioni. E chi era, a partire dal 2010, l’unica azienda cinese con l’abilità di produrne in scala? Volkswagen, Daimler AG, Toyota e Honda non avevano altra alternativa che rivolgersi alle batterie di CATL se volevano proseguire le loro operazioni in Cina. Con questo approccio, CATL è diventato il più grande produttore mondiale di batterie per EV. Un successo globale che avrebbe portato la Germania – ennesima ironia della storia – nel 2014 a convincere Pechino per la costruzione di una gigafactory nello stato di Turingia, con un investimento da 272 milioni di dollari, nonostante i costi energetici, le tasse e l’alto costo della manodopera. In cambio, la Germania avrebbe condiviso alta tecnologia con l’azienda. Con questa strategia i produttori di batterie giapponesi e coreani, seppur stessero investendo in impianti localizzati in Cina, furono esclusi dal grande mercato cinese delle auto elettriche per diversi anni. 

Per ultimo, ma non meno importante, le banche cinesi (dalle grandi banche commerciali a China Development Bank) hanno supportato la strategia cinese “Go Out”, finanziando aziende minerarie e chimiche cinesi nell’acquisizione di promettenti depositi localizzati in Africa, Australia e Sud America. La strategia cinese sulle materie prime all’estero (pragmatica e spesso scevra da questioni etico-sociali) si basa su una combinazione di investimenti diretti da aziende controllate dallo Stato e capitale finanziato dalle autorità cinesi, con accordi pluriennali. Grazie a questa politica industriale lungimirante e spregiudicata, oggi la Cina controlla importanti filiere, ma non tutte, delle materie prime critiche (ad es, litio, cobalto e neodimio) cruciali per la fabbricazione di batterie e dei motori elettrici. In questo modo, Pechino ha sviluppato una vasta rete d’influenza, posizionandosi in passaggi chiave della supply chain – come la trasformazione dei minerali in metalli battery grade, ovvero ad un livello di purezza tale da poter essere impiegati nella costruzione di catodi, anodi per batterie – e garantendosi un vantaggio distintivo rispetto agli automakers europei e americani. Un attivismo evidente se guardiamo alla storia industriale dei due ‘Dragoni del Litio’: Ganfeng (fondata da un ingegnere chimico, Li Liangbin) e Tianqi Lithium (azienda con importati connessioni con il Partito Comunista). Due aziende divenute le due principali ‘teste di ponte’ della strategia di penetrazione cinese nei paesi ricchi di litio e con i depositi più promettenti, come dimostrano gli investimenti in Cile, Argentina e Australia. Ganfeng ha all’attivo 8 investimenti in progetti oltreoceano, mentre Tianqi è partner ed equity owner di due dei più grandi siti d’estrazione: nel deposito di Greenbushes, in Australia, e nel Salar de Atacama in collaborazione con la cilena SQM. Seppur la Cina produca circa il 10% dell’output minerario globale, i depositi domestici (perlopiù costituiti da un minerale, la lepidolite, con concentrazioni di Li più basse rispetto ai giacimenti australiani o sudamericani) non possono soddisfare la crescente domanda interna. Discorso simile per il cobalto, estratto per più del 70% nella Repubblica Democratica del Congo dove la presenza e influenza cinese si è fatta sempre più esplicita nell’ultimo decennio, grazie anche alla mediazione di alcuni intermediari e trader senza scrupoli che hanno favorito l’acquisizione dei ricchissimi giacimenti congolesi. O per il nichel, altro componente chiave – e destinato a diventare essenziale con la progressiva adozione di batterie senza cobalto per via degli oneri sociali e ambientali – estratto in Indonesia ma raffinato in collaborazione con aziende cinesi. Estrazione, produzione e raffinazione che viene attualmente dominata dalla Cina per quanto riguarda grafite, manganese e terre rare. 

Perché il grande potere dell’innovazione in Cina ha paura comunque del Potere politico, che può fargli fare la fine di Jack Ma

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

I numeri ad oggi fotografano quanto questa strategia pluridecennale sulla “spezia” (la struttura minerale della rivoluzione delle energie pulite) abbia portato i suoi frutti. Secondo le stime di Benchmark Minerals Intelligence, la Cina domina la raffinazione di nickel (68%), cobalto (73%), grafite (100%), litio (59%), manganese (93%) per i materiali precursori delle batterie (l’80% dei catodi, l’89% degli anodi) e infine il 79% delle celle, oltre a controllare l’intero mercato delle terre rare, elementi essenziali per la produzione di magneti super-performanti per i motori elettrici. Ed è proprio a partire da queste supply chain critiche che Pechino oggi sta dominando la rivoluzione EV e scrivendo il suo futuro, mentre gli altri devono contrattaccare.  

Oggi il miracolo automobilistico cinese è realtà. CATL e BYD controllano, da sole, più del 70% del mercato delle batterie elettriche per installazione in Cina e sono destinati a penetrare sempre di più sui mercati globali. Già oggi sono il primo e il secondo produttore di batterie per EV a livello mondiale, con più del 50% dello share di mercato davanti alla coreana LG Solution e alla giapponese Panasonic. Entro il 2032, la Cina – grazie agli investimenti e al potenziamento delle gigafactory esistenti dei due colossi cinesi – è destinata a rimanere il primo mercato per le batterie con 4.800 gigawatt/h di capacità produttiva, circa il 67% di quella globale secondo i dati di Benchmark. 

Think smaller: la massima di Gordon Moore, il co-fondatore di Intel morto nel 2023 che ha dato il nome alla Legge di Moore, si adatta al modo con cui la Cina ha giocato la partita elettrica. Pensiamo alla focalizzazione dei produttori su modelli di piccole dimensioni, a differenza per esempio del mercato statunitense, dove le vendite sono prevalentemente costituite dai modelli premium di Tesla (soprattutto la berlina executive Model 3). I prezzi delle offerte cinesi, che coprono un’ampia gamma di veicoli, sono applicabili a livello mondiale al netto delle sovvenzioni, e questo rappresenta uno dei grandi punti interrogativi per la competizione in futuro: riuscire a pareggiare l’offerta cinese sui prezzi, qualora questa si rilevasse decisiva nella loro adozione. 

Il vantaggio cinese può dare frutti anche sulla tecnologia. CATL dovrebbe essere in grado di mantenere la sua posizione di leader nel mercato, con la commercializzazione delle batterie Kirin, al sodio e le LFMP (aggiunta di manganese al materiale lito-ferro-fosfato, per le quali ha stretto accordi con Tesla e altri produttori asiatici) nel 2023. Nel Global Automaker Ranking 2022, BYD figurava, dietro a Tesla, tra i “leader” del mercato EV, con un rating di 73 per dominio di mercato, performance tecnologica e visione strategica. Tra i 12 automakers “in transizione”, vi sono le cinesi SAIC, Geely, Great Wall Motors e Chang’an, insieme ai tutti i più grandi produttori europei e americani (coreani e giapponesi, con l’eccezione di Hyundai, in grave ritardo). 

In conclusione, seppur i tedeschi – e in generale i produttori europei e americani – siano indietro nella corsa globale alle batterie e ai veicoli elettrici, sono comunque fermamente convinti a investire e scommetterci, a prescindere da quali siano le indicazioni da Bruxelles per il phase-out del motore a combustione interna

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Anche se la Cina non ha ancora superato la Germania in termini di profitti derivanti dalle esportazioni dell’industria automobilistica, ha già colpito duramente i tedeschi (e non solo) dove conta di più: nel segmento dei veicoli elettrici in Cina, mercato di riferimento e fonte essenziale di profitti per gli stessi tedeschi. Questo ha consentito ai produttori cinesi di veicoli elettrici di sbaragliare il predominio dei marchi tedeschi in Cina (realizzando il vero obiettivo della corsa all’elettrico, ovvero quello di allontanare progressivamente i brand stranieri) e di costruire in territorio nazionale un vantaggio di scala e di tecnologia che ora li proietta, potenzialmente, sul mercato globale: fino alla minaccia ai tedeschi in Europa. La Germania, dopo aver dormito un sonno profondo, è condannata a un brusco risveglio, che può portare a mosse nervose. Da una parte, si alza l’eco dei sostenitori del protezionismo per difendere l’industria automobilistica europea dall’assalto dei produttori cinesi (BYD, Nio etc.), dall’altra si alza il grido di allarme per rilanciare la competizione sui veicoli elettrici con i cinesi, soprattutto sui costi. Senza l’accesso sicuro alle materie prime critiche – un problema che «tiene sveglio la notte» il CEO di Renault e che rappresenta, come spiegato poc’anzi, un vantaggio competitivo dei produttori cinesi – e alle componentistiche fondamentali (i chip), con il loro trattamento, la produzione è a rischio. 

In conclusione, seppur i tedeschi – e in generale i produttori europei e americani – siano indietro nella corsa globale alle batterie e ai veicoli elettrici, sono comunque fermamente convinti a investire e scommetterci, a prescindere da quali siano le indicazioni da Bruxelles per il phase-out del motore a combustione interna. Restano ancora alcune barriere all’ingresso nell’ipotetica strategia di penetrazione cinese nel mercato europeo: 1) brand power, ancora in mano agli europei per storia e affidabilità; 2) network di distribuzione ancora acerbo tra i paesi del Vecchio Continente; 3) incertezze sul lato legislativo e regolatorio, che rendono l’elettrico una delle possibili soluzioni alla decarbonizzazione; 4) mancanza di infrastrutture di ricarica, spesso carenti e disomogenee a livello europeo. Tutto questo porta il successo cinese sul terreno della competizione politica, anche verso le elezioni europee del 2024.

Tutto questo porta il successo cinese sul terreno della competizione politica, anche verso le elezioni europee del 2024

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

La sorpresa e la risposta: futuro e incognite del successo cinese 

Secondo una interessante osservazione di Elizabeth Economy, esperta di Cina e consulente di Gina Raimondo, un punto sottovalutato sulla Cina è la sua “arte della sorpresa” .

Il sistema cinese, anche per un’opacità aumentata nell’era di Xi Jinping, nonché per la ridotta capacità occidentale (compresa quella dell’intelligence, in tutte le sue forme) di mettersi nella prospettiva dei cinesi e prevederne le mosse, continua a sorprenderci. In positivo e in negativo. Nel primo caso, Economy fa proprio l’esempio dell’ascesa cinese nella mobilità elettrica, che abbiamo raccontato qui. 

La capacità di “unire i puntini” della catena del valore da parte cinese è stata impressionante, soprattutto se paragonata all’insipienza altrui. E la battaglia – non sarà mai sottolineato abbastanza – non è stata vinta dal Moloch del Partito, ma da imprese nate con una prospettiva privata, con una forte volontà imprenditoriale. Investimenti pubblici di lungo corso, spiriti animali, capacità di attrarre capitale umano e tecnologia altrui, tenendo sempre presente la grande forza cinese: l’imbattibile scala offerta dalla crescita senza precedenti del mercato e dalle leve di controllo interne su questo stesso mercato. 

È una storia epica, che adesso ha un problema: l’effetto sorpresa è finito. 

BYD e CATL non sono ancora marchi noti all’uomo della strada, ma gli operatori del settore e le classi dirigenti hanno ormai colmato il loro divario cognitivo. Le aziende cinesi non sono più relegate nello stereotipo della copia, ma viene loro riconosciuta una leadership internazionale, testimoniata dall’ampiezza dei mercati di riferimento, dalla presenza globale, dalla capacità di adattamento. 

Produzione di celle fotovoltaiche nel laboratorio di produzione di una società energetica a Hefei, nella provincia di Anhui. (Cina orientale), il 27 gennaio 2022. © Costfoto/Sipa USA

Gli Stati Uniti, nella guerra dei capitalismi politici, hanno messo senz’altro i campioni cinesi nel mirino. Nel rapporto dell’amministrazione Biden sulle supply chain di giugno 2021, i casi di BYD e CATL venivano ampiamente citati. Ed è noto a tutti che l’Inflation Reduction Act è un tentativo titanico di forzare una struttura della supply chain che, grazie all’azione degli attori cinesi, è troppo spostata verso Pechino. 

È una storia epica, che adesso ha un problema: l’effetto sorpresa è finito

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

L’industria dell’automotive europea è parsa a lungo immobile, per penuria anzitutto degli investimenti privati ma anche delle politiche della Commissione, simboleggiate dalla scarsa attenzione sull’analisi della supply chain e della competizione politica nelle prime fasi del Green Deal voluto da Frans Timmermans: uno strumento del tutto carente rispetto ai grandi nodi geopolitici. Ora è difficile credere che questo pezzo di Europa, così rilevante dal punto di vista sociale e occupazionale, possa pensare semplicemente di diventare il cadavere che BYD, CATL e i campioni che ancora non conosciamo vedranno passare sul fiume. 

Per questo, l’aspetto politico ha già inciso nelle dinamiche dell’industria. Ciò riguarda la libertà di azione degli attori cinesi, che può essere limitata da strumenti volti a forzare, appunto, la struttura della supply chain attraverso i sussidi, nonché dai controlli sulle esportazioni. Ma riguarda anche le scelte di diversi altri Paesi. Per esempio, si sottovaluta quanto per i giganti dell’automotive cinese sia importante la penetrazione di mercati che non sono né quello americano né quello europeo. Cruciale è anzitutto il successo in un mercato dell’Asia orientale che non sia limitato alla Cina, quindi anzitutto i Paesi ASEAN. L’attività di BYD in Thailandia, da questo punto di vista, è molto importante. Ma lo è anche il mercato giapponese, sia dal lato simbolico della presenza nella terra dei “maestri” dell’auto, sia per i numeri che può garantire. 

L’aspetto politico poi riguarda anche il continente americano, e quindi le azioni cinesi nel cortile di casa della Dottrina Monroe: uno degli effetti informali della politica degli Stati Uniti avviata nell’estate 2022 è stato il rallentamento dei progetti di CATL sul Nord America (compreso il Messico). Oltre alle necessità della politica, gli attori del mercato devono guardare anche alla struttura della supply chain, e quindi per ora la partnership tra Ford e CATL per una fabbrica in Michigan per l’espansione della capacità produttiva di batterie del colosso americano va avanti. Eppure non mancherà, nel Congresso che già discute nuovi provvedimenti restrittivi sulla Cina, un’ulteriore attenzione su questa partita delicata. Non solo: CATL ha annunciato importanti investimenti sul Brasile, mostrando che può giocare le sue carte in grandi mercati che non sono disposti a seguire pedissequamente la bussola degli Stati Uniti.

Uno degli effetti informali della politica degli Stati Uniti avviata nell’estate 2022 è stato il rallentamento dei progetti di CATL sul Nord America, compreso il Messico

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

La questione politica si porrà sempre di più nel dibattito europeo, nella geografia degli investimenti e nel posizionamento dei concorrenti e dei governi. BYD e CATL ne sono già consapevoli. L’Ungheria è la destinazione più rilevante degli investimenti miliardari di CATL in Europa, in continuità con il ruolo verso la Cina che Budapest ha sempre di più assunto. CATL sa che i produttori di auto tedeschi dovranno rifornirsi dalle sue gigafactory se vogliono giocare la partita elettrica nel breve-medio termine. 

Nel 2023, BYD ha annunciato la volontà di aprire una fabbrica di auto in Europa, e quindi vuole anticipare la chiusura del mercato europeo da parte dei “falchi” con offerte che avvicinano le sue auto, più competitive delle altre, al consumatore europeo. Queste offerte, in sintesi, dicono ai governi dei Paesi europei che i posti di lavoro che saranno perduti per l’inefficienza dell’industria europea potranno essere compensati (quanti? come?) dalle nuove fabbriche cinesi. 

Nel mentre, le aziende cinesi continuano a competere sulla frontiera tecnologica, come dimostrato di recente dall’annuncio da parte di CATL, gigante relativamente più debole rispetto alla potenza del modello integrato di BYD, di una nuova batteria a ricarica ultrarapida. Con una tenuta complessiva di circa 400 km, la batteria è capace di ricaricarsi in circa 10 minuti. Per comprendere invece il crescente protagonismo di BYD nelle tecnologie di frontiera, è sufficiente ascoltare le conferenze di Jensen Huang, che guida NVIDIA, azienda motore dell’intelligenza artificiale: le auto del gigante cinese compaiono spesso nei filmati pubblicitari di NVIDIA per mostrare i suoi servizi, e tra il 2022 e il 2023 NVIDIA e BYD hanno rafforzato la loro partnership.

La potenza del mercato cinese, fattore strutturale dell’ascesa elettrica cinese, potrebbe essere gravemente indebolita dalla severità del rallentamento dell’economia 

Alessandro Aresu e Alberto Prina Cerai

Questo Grande Gioco tecnologico e politico è destinato a proseguire, dentro le tensioni tra Stati Uniti e Cina che domineranno questo decennio e che si collocano in uno scenario più ampio, dove la potenza del mercato cinese, fattore strutturale dell’ascesa elettrica cinese, potrebbe essere gravemente indebolita dalla severità del rallentamento dell’economia.

Senza dimenticare l’incidenza sempre più rilevante dei semiconduttori nell’automotive, e quindi la volontà cinese di utilizzare le sue capacità automobilistiche per alimentare quella sfida decisiva. Anche in questo caso, spesso a danno delle aziende di semiconduttori europee che sono posizionate esattamente in quel segmento e che talvolta inseguono l’illusione di un accesso al mercato cinese che, in ultima analisi, non avranno mai, e di certo non potranno mai avere alle loro condizioni o a cosiddette “condizioni di mercato”. Perché il potere di mercato delle aziende cinesi, nel nesso tra automotive e semiconduttori, sarà sempre dominato dalla Cina e, in ultima analisi, dal suo decisore di ultima istanza, il Partito.  

Cosa popola gli incubi dei capi di BYD e di CATL? Come gli altri grandi imprenditori cinesi, anche Wang Chuanfu e Robin Zeng, dall’alto del loro successo, devono guardare all’evoluzione interna. Il rallentamento dell’economia può colpirli, sia per la riduzione dei consumi sia perché può aumentare la frustrazione del Partito. E nessun eroe di questa sorprendente trasformazione tecnologica, che ormai fa parte del mondo così com’è, potrà permettersi un protagonismo politico improprio, o un’osservazione fuori posto sulla regolazione del settore. Perché il grande potere dell’innovazione in Cina ha paura comunque del Potere politico, che può fargli fare la fine di Jack Ma.

Note
  1. “Foreign carmakers confront ‘moment of truth’ in China”, Financial Times, 21 avril 2023.