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Questo working paper è disponibile anche in inglese sul sito del Groupe d’études géopolitiques.
La penisola italiana è solitamente descritta come uno stivale. Immaginatela invece come un pilastro, una colonna che sorge dal mare e tiene le altre terre del dominio di Carlo Magno sopra le acque. Se crollasse, l’Europa affonderebbe.
Questo, in una parola, è ciò che tenterò di sostenere: il resistibile declino dell’Italia è sia una minaccia per la sopravvivenza dell’Unione Europea, sia un’opportunità per essa di diventare un’organizzazione capace di soddisfare le domande dei suoi cittadini. Le vicende dell’Italia sono questioni di interesse comune, quindi, sulle quali gli altri dovrebbero intervenire.
Parlerò prima della minaccia e dell’opportunità, poi del declino dell’Italia, e infine del ruolo dell’Europa. Ho abbozzato il primo punto in un recente articolo per il Financial Times1, e il secondo è l’oggetto delle mie ricerche2; il terzo invece è più un appello che un’analisi.
Una moneta senza stato
L’euro, ha scritto uno dei suoi architetti, è una “moneta senza stato”3. Questo “peccato originale” è alla radice delle asimmetrie dell’unione monetaria, la più evidente delle quali è la disgiunzione tra una politica monetaria centralizzata e una molteplicità di politiche fiscali nazionali, coordinate da un sistema basato su regole inevitabilmente imperfette.
Il dibattito sulle cause della crisi del debito sovrano non è chiuso. Ma pochi negherebbero che quelle asimmetrie hanno reso l’eurozona vulnerabile a crisi di fiducia capaci di avverarsi da sole: ossia casi in cui i dubbi degli investitori sulla sostenibilità del debito di una nazione portano a vendite dei suoi titoli, che a sua volta corroborano queste preoccupazioni, provocano ulteriori vendite, e innescano una spirale che, in assenza di un credibile prestatore di ultima istanza, può portare al default. Questa dinamica fu evidente tra la primavera del 2010 e l’autunno del 2011, quando il contagio si diffuse dalla Grecia all’Irlanda, al Portogallo, alla Spagna e infine all’Italia.
Il precipitoso cambio di governo a Roma e l’aggiustamento di bilancio che seguì contennero la crisi, ma il punto di svolta fu il discorso che il presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi, pronunciò il 26 luglio 2012. “Nell’ambito del nostro mandato,” disse, “la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”4.
Le parole decisive – “whatever it takes” – poggiavano su un ampio consenso politico, e furono sufficienti. Più interessante qui è la definizione dell’obiettivo: “preservare l’euro”. In quel frangente, infatti, il debito pubblico italiano superava il 120 per cento del PIL ed era, in valore nominale, il secondo più elevato della zona euro. In gioco, quindi, non era la solvibilità dell’Italia ma la sopravvivenza della moneta comune. Perché la dimensione del debito del paese e la profonda, sedimentata interconnessione della sua economia con il resto dell’eurozona erano tali che l’unione monetaria difficilmente avrebbe retto alla sequenza, in rapida successione, del default dell’Italia, della sua uscita dall’euro e della conseguente massiccia svalutazione. Ma se questo è vero la stessa sopravvivenza dell’Unione era a rischio: perché la disgregazione della moneta comune avrebbe sottoposto le relazioni commerciali, finanziarie e politiche – soprattutto tra Francia, Germania e Italia – a tensioni tali che anche il mercato unico avrebbe potuto dissolversi. Dietro il consenso che permise a Draghi di pronunciare quelle parole, e poi di attuare le straordinarie politiche monetarie che esse prefiguravano, stava anche la valutazione che un default italiano avrebbe potuto distruggere il progetto di integrazione europea.
Eppure le riforme che seguirono furono deludenti. Ai governi fu dato un prestatore di ultima istanza e furono fatti progressi nel settore bancario, ma l’asimmetria istituzionale tra politica monetaria e politica fiscale rimase, né i vincoli che essa comporta per la capacità dei governi di contrastare le recessioni furono compensati dalla creazione di una capacità fiscale comune per la stabilizzazione macroeconomica. Questo ritardò la ripresa dell’eurozona, probabilmente, e lasciò l’Unione esposta agli stessi rischi che l’avevano minacciata nell’autunno del 2011.
L’opportunità dell’Unione
Il testo fondatore del progetto europeo, la dichiarazione Schuman5 del 9 maggio 1950, pone al suo centro la solidarietà. L’effetto peggiore della risposta dell’Unione alle crisi dell’ultimo decennio fu di romperla, spargendo diffidenza tra Nord e Sud.
La risposta alla pandemia è stata diversa. L’entità dei fondi che NextGenerationEU6 mobilita è senza precedenti, così come lo sono le sue modalità di finanziamento: obbligazioni comuni, emesse a nome dell’Unione, sostenute da risorse comuni. Entrambe attestano solidarietà.
“Per la prima volta, uno strumento di bilancio comune a livello europeo può essere utilizzato per integrare gli stabilizzatori fiscali a livello nazionale, anche se attualmente esso è solo temporaneo”. È con queste misurate parole che lo scorso settembre la presidente della BCE Christine Lagarde descrisse lo Strumento di Ripresa e Resilienza a un organismo congiunto dei parlamenti francese e tedesco7. Renderlo permanente creerebbe un’unione fiscale, che è la componente critica di qualsiasi prospettiva di ulteriore integrazione: perché un bilancio comune abbastanza grande per svolgere una funzione di stabilizzazione macroeconomica, o per finanziare altri beni pubblici comuni, richiederebbe, sia per raccoglierlo sia per spenderlo, una legittimità democratica molto maggiore di quella che l’attuale assetto istituzionale può fornire. Qualsiasi forma di unione fiscale richiede un progresso equivalente nell’integrazione politica, e ogni progresso in questo campo potrebbe migliorare il funzionamento dell’Unione anche in altri settori. Sulla scena globale, per esempio, l’influenza dell’Unione è tanto grande nella politica commerciale, dove l’integrazione è massima, quanto è trascurabile nella politica estera, dove l’integrazione è minima.
Certo, questo strumento di bilancio è una risposta ad hoc a una crisi straordinaria. Ma il progetto europeo fu in larga misura forgiato nelle crisi, come previdero i suoi fondatori, e la soluzione che quest’ultima ha ricevuto punta chiaramente verso una maggiore integrazione. Questa è la lettura che ne ha dato Draghi, per esempio, che invocando un’unione fiscale sia da privato cittadino, lo scorso settembre8, sia da primo ministro, a marzo9.
In questo l’esito del Piano di ripresa sarà decisivo. Se dovesse avere successo, gli argomenti per l’unione fiscale e politica sarebbero grandemente rafforzati dalla concreta dimostrazione della sua efficacia. Se dovesse fallire, questa prospettiva potrebbe invece dissolversi, poiché esiste un’altra soluzione per correggere l’asimmetria della moneta-senza-stato: una soluzione decentralizzante, in cui le responsabilità nazionali crescerebbero e le regole che le governano diverrebbero più rigide.
A sua volta, il successo o il fallimento del piano dipenderà principalmente dall’Italia. Non tanto perché il paese è particolarmente colpito dalla pandemia, o perché riceverà la più grande quota di sovvenzioni e prestiti, quanto perché la sua debolezza lo rende una minaccia latente e sempre presente per la sopravvivenza dell’Unione.
Il singolare declino dell’Italia
Durante il primo decennio del secolo il tasso di crescita reale dell’Italia è stato il più basso tra quelli registrati nel mondo. La doppia recessione del 2008-14 è stata la peggiore dall’unificazione della nazione, nel 1861. Tra allora e la pandemia la crescita non ha raggiunto la metà della media dell’eurozona. Nel 2019 il Pil reale era ancora qualche punto percentuale sotto il picco del 2007, infatti, e il Pil pro capite era sceso da circa il 10 per cento sopra la media dell’eurozona, alla metà degli anni ’90, al 10 per cento sotto.
L’anno scorso il PIL è sceso dell’8,9 per cento, a fronte di una media UE del 6,2 per cento, e il debito pubblico è salito al 155,6 per cento del PIL. Ossia 35 punti percentuali sopra il livello al quale era quando, nel 2011, l’Italia rischiò di distruggere l’unione monetaria: senza il Piano di ripresa, e nonostante le politiche straordinarie della BCE, lo scorso autunno una crisi simile avrebbe potuto travolgere sia il paese sia l’Unione.
La bassa crescita dell’Italia deriva principalmente dalla bassa produttività. Il problema sta soprattutto in quella componente della produttività che deriva dal progresso tecnologico e organizzativo: dall’innovazione, in una parola, che genera efficienza. La variabile che la misura – la “produttività totale dei fattori” – raramente prende valori negativi, perché di rado le economie regrediscono nel loro livello complessivo di efficienza: in Italia, invece, il governo stima che tra il 2001 e il 2019 essa sia calata del 6,2 per cento10. Questa variabile è imprecisa, e possono esserci errori di misurazione, ma l’Italia manifestamente ha un problema di innovazione.
L’innovazione può essere importata o creata endogenamente. Mentre era lontana dalla frontiera tecnologica, durante i primi decenni dopo l’ultima guerra, l’Italia crebbe molto rapidamente, come la Germania e il Giappone, perché fu particolarmente capace di adattare le tecnologie importate alle proprie condizioni, e seppe spostare grandi quantità di lavoro e capitale nei settori che meglio potevano impiegarle. Ma quando si avvicinò alla frontiera, attorno agli anni ’80, fu più lenta dei suoi pari nella transizione a un modello di crescita basato maggiormente sull’innovazione endogena. Ciò non accadde per caso, perché l’innovazione tende a dissipare il potere e le rendite delle élite.
L’equilibrio reversibile dell’Italia
La crescita guidata dall’innovazione è un processo di “distruzione creatrice”11, infatti, nel quale nuove innovazioni continuamente rimpiazzano le precedenti. In ciascuna delle sue fasi, pertanto, questo processo minaccia le élite economiche esistenti, che tipicamente sono gli innovatori della fase di crescita precedente, e potrebbero essere tentati di imbrigliarlo. La teogonia greca, come la racconta J.-P. Vernant, offre un parallelo12. Entrambi gli dei primordiali, Urano e Crono, tentarono di impedire la nascita dei loro figli proprio perché temevano l’emergere di uno sfidante: Crono alla fine rimosse suo padre Urano, infatti, e fu a sua volta spodestato da suo figlio Zeus (che stabilì l’ordine che regna tuttora).
Le élite economiche italiane furono più efficaci nel difendersi, a paragone delle loro omologhe in paesi comparabili, e lasciarono meno spazio all’innovazione e alla distruzione creativa. Questa, credo, è la causa immediata del malessere economico dell’Italia. Le sue radici più profonde sono la relativa debolezza dello stato di diritto e della responsabilità politica, che amplificarono lo squilibrio di potere tra le élite e i loro sfidanti. Il suo segno più evidente è che l’Italia è una gerontocrazia, che soffoca la mobilità sociale e dissipa la sua gioventù.13
Lo sforzo riformatore degli ultimi tre decenni fu ammirevole. Le nuove leggi erano generalmente ben concepite, spesso ritagliate su modelli europei, e diffusamente lodate. Ma furono sdentate dal fatto che le regole tendono ad essere rispettate meno che in democrazie comparabili, e dalla collusione tra élite politiche ed economiche.
Per quanto ingiusto e inefficiente, un equilibrio sociale caratterizzato da debole supremazia della legge, debole responsabilità politica e una bassa crescita può nondimeno persistere, perché tende a generare risposte difensive che lo rafforzano. Questa logica è reversibile, naturalmente, ma per superarla i cittadini comuni e le imprese devono superare un problema di azione collettiva.
Per illustrarlo prendo l’esempio dell’evasione fiscale, fenomeno di massa. Il divario tra il gettito teorico dell’IVA e quello effettivo, per esempio, è tra il 6 e l’8,6 per cento in Francia, Germania e Spagna: in Italia è del 24,5 per cento.
L’evasione fiscale di massa danneggia i servizi pubblici, la fiducia nello Stato e, indirettamente, anche la responsabilità politica. Ma poche imprese e cittadini che evadono le tasse ne traggono benefici superiori al costo di vivere in simili condizioni: la vasta maggioranza preferirebbe un paese in cui la fedeltà fiscale è maggiore, i servizi pubblici migliori, la responsabilità politica più forte, le politiche pubbliche più rispondenti alle domande degli elettori. In un referendum, la maggior parte voterebbe per l’equilibrio ad alto rispetto della legge.
Ma una volta che l’equilibrio deteriore si stabilisce l’evasione fiscale diventa una strategia individualmente razionale, perché in quel contesto pagare tutte le tasse dovute significa sovvenzionare i delinquenti e insieme ricevere meno servizi pubblici di quanto le tasse versate giustificherebbero. Se possono farlo, molti risponderanno evadendo essi stessi qualche tassa. Sanno che l’equilibrio superiore è preferibile, e che la loro strategia difensiva consolida quello deteriore, ma non sono disposti a fare il primo passo.
Né la loro cultura, né la loro storia, né una speciale perfidia spiegano la propensione degli italiani ad evadere le tasse. È la semplice razionalità di quel calcolo di costi e benefici, unita all’aspettativa che gran parte della società seguirà la medesima logica. Ciò spiega anche la singolare diffusione della corruzione e del crimine organizzato, così come la relativamente bassa affidabilità dei bilanci delle imprese; e ognuno di questi fenomeni, di riflesso, contribuisce a deprimere la produttività, principalmente tramite le ricadute sulla dimensione e capitalizzazione delle imprese.
Per uscire da questi equilibri i cittadini devono capirne la logica, e ricevere segnali credibili che essi possono cambiare: abbastanza credibili da portare molti a fare il primo passo, aspettandosi che altri faranno lo stesso. Basterà un’inflessione nelle aspettative della società per cambiarne i comportamenti, perché così come l’equilibrio deteriore è capace di consolidarsi per forza propria, così anche l’ascesa a un equilibrio superiore è capace di autoalimentarsi; e qualsiasi progresso potrebbe rapidamente produrre una marcata accelerazione della crescita, poiché i potenziali guadagni di efficienza che un quarto di secolo di declino ha lasciato a disposizione sono grandi.
Il paese soffre principalmente perché il suo sistema politico non è stato in grado di offrire ai cittadini né una spiegazione delle radici del loro malessere, né una visione abbastanza credibile e attraente da portarli a uscire da quegli equilibri.
Il deludente piano italiano
Nessuna visione di questo genere si ritrova nel Piano di ripresa dell’Italia14, quantomeno a una prima lettura. Non tanto perché la prosa è spesso oscura e talvolta atroce, quanto perché gli investimenti e le riforme che il piano srotola non sembrano derivare da un’idea chiara del futuro del paese, né paiono capaci di comporne una15.
Certo non si poteva attendere questo da un governo sostenuto da una coalizione di avversari, formato undici settimane prima della scadenza per presentare il piano alla Commissione. E le stesse ragioni possono spiegare, e in parte giustificare, perché il piano non è stato oggetto di ampia consultazione né spiegato alla società. Ma ciò rende il piano inadatto a guidare i cittadini fuori da quegli equilibri deteriori.
Questi difetti sono rimediabili, probabilmente. Mancando di un’impronta marcata, infatti, la materia di cui il piano è fatto resta malleabile, verosimilmente, e potrebbe assumere una forma più unitaria se le fosse imposta una visione più chiara. La questione, piuttosto, è se il sistema politico italiano sarà in grado di concepirne una, forgiata nel dibattito pubblico, e poi convincere la società ad abbracciarla.
La necessità di una visione è evidente dal Piano stesso. Nei prossimi cinque anni si prevede che porterà 183 miliardi di euro di spesa pubblica aggiuntiva, equivalente a circa l’11% del PIL del 2020. Il governo delinea tre scenari quanto all’impatto sulla crescita: in quello più alto il piano aumenterà il tasso di crescita del 2026 di 3,6 punti percentuali, in quello medio di 2,7 punti, in quello più basso di 1,8. All’interno di questo intervallo, spiega il governo, il percorso che il paese imboccherà dipende principalmente dall’effetto delle riforme che accompagneranno gli investimenti16.
Le riforme critiche sono le quattro orizzontali: quelle della pubblica amministrazione, del sistema giudiziario, della semplificazione normativa, e della promozione della concorrenza (e una quinta, estranea al piano: quella fiscale). Negli ultimi tre decenni, tuttavia, ognuna di esse ha uno o più predecessori comparabili, altrettanto ambiziosi: erano riforme generalmente ben concepite, come ho detto, ma il declino del paese non se ne accorse. Se dunque gli equilibri deteriori che ho descritto hanno potuto soffocare quelle riforme, in assenza di una visione convincente a sostegno dei loro attuali successori, che sola potrebbe cambiare le aspettative della società, sembra difficile aspettarsi ora risultati molto migliori.
Questo non implica necessariamente che al termine del piano il tasso di crescita crescerà di soli 1,5-2 punti, anche perché le proiezioni del governo potrebbero rivelarsi pessimistiche: la pandemia ha prodotto “innovazioni che hanno portato a guadagni di efficienza” che nel medio termine produrranno “un inevitabile aumento della produttività”, scrivono O. Blanchard e J. Pisani-Ferry in un recente policy paper del Groupe d’études géopolitiques17. Ma se l’Italia mancherà il percorso alto il piano avrà fallito: l’opportunità di concordare qualsiasi forma di unione fiscale si dissolverebbe, molto probabilmente, e sull’Unione incomberebbe di nuovo la minaccia di crisi simili a quella dell’autunno 2011.
Cosa può fare l’Europa
Sarebbe meglio, forse, che l’Italia non esistesse. Italiam non sponte sequor: Enea stesso non voleva andarci, come il destino aveva decretato, per darle una nuova organizzazione politica18. Ma dare l’Italia per persa sarebbe un’imperdonabile mancanza d’immaginazione. Perché basterebbe una curvatura nella traiettoria del paese per dissolvere quella minaccia e realizzare quell’opportunità: un’inflessione che scaturirebbe direttamente da un cambiamento nelle aspettative della società, se il sistema politico riuscisse a secernere idee capaci di persuaderla che il passaggio a un equilibrio superiore è possibile, e potrebbe avvalersi dei vasti guadagni di efficienza che sono a portata di mano, in piena vista. Affinché questo accada, tuttavia, occorre pressione.
La sofferenza economica è diffusa, la volatilità elettorale alta, e il sistema dei partiti fluttuante: tutto suggerisce che lo spazio per idee nuove sia vasto, e la domanda fremente. Inoltre, durante la pandemia la società ha dimostrato disciplina e impegno civico inaspettati, e potrebbe essere divenuta più esigente nei confronti delle sue élite. La pressione sul sistema politico potrebbe quindi aumentare.
Ma ciò che vorrei dire è che la pressione dovrebbe venire anche dall’esterno, sotto forma sia di critiche – del piano, del governo, della sua coalizione, della sua opposizione – sia di idee. Pressioni pubbliche, naturalmente, non consigli privati o rimproveri silenziosi: critiche e idee fornite apertamente, in modo da stimolare le fonti di pressione interne e permettere all’opinione pubblica di vedere come il sistema politico risponde.
I partiti europei non dovrebbero esitare. Perché se la mia analisi è fondata le principali scelte dell’Italia riguardano anche loro, soprattutto se aspirano a una maggiore integrazione europea. Del resto, sui giornali e nei salotti del continente è ormai consuetudine commentare le deliberazioni della Corte costituzionale tedesca sulla politica monetaria: l’afasia dei partiti italiani sulla produttività, l’innovazione, la mobilità sociale, la condizione giovanile non è meno importante per il futuro dell’Unione. E se le opinioni pubbliche europee adotteranno questo approccio, potrebbero spingere anche i loro governi a prendere posizioni più coraggiose sull’Italia.
Non si tratterebbe di interferenza ma del riflesso dell’interdipendenza, e potrebbe contribuire alla formazione di una vera sfera pubblica europea. Potrebbe non funzionare, certo: ma perdere questa opportunità per una riluttanza a trattare gli affari dell’Italia come affari comuni sarebbe, appunto, una mancanza d’immaginazione.
Note
- Andrea Capussela, The EU’s future hinges on Italy’s recovery fund reforms, 21 aprile 2021
- I risultati sono pubblicati in un libro più lungo (The Political Economy of Italy’s Decline, Oxford, Oxford University Press, 2018; versione italiana Declino. Una storia Italiana, Roma, Luiss University Press, 2019) e uno più breve (Declino Italia, Torino, Einaudi, 2021).
- T. Padoa-Schioppa, The Euro and its Central Bank: Getting United after the Union, Cambridge Mass., MIT Press, 2004, p. 35.
- Speech by Mario Draghi, President of the European Central Bank at the Global Investment Conference in London26 July 2012, BCE
- The Schuman Declaration – 9 May 1950
- Commissione europea, Piano per la ripresa dell’Europa
- Introductory remarks by Christine Lagarde, President of the ECB, at the Franco-German Parliamentary Assembly, 21 September 2020
- Incertezza e responsabilità, l’intervento di Mario Draghi al 41° Meeting
- Conferenza stampa del Presidente Draghi e del Ministro Speranza, 26 marzo 2021
- Piano nazionale di ripresa e resilienza, Rome, 5 May 2021, p. 4.
- Nicolas Da Silva, Le pouvoir de la destruction créatrice : de l’intégration de la critique au dépassement du néolibéralisme ?, Le Grand Continent, 29 aprile 2021
- Jean-Pierre Vernant, L’Univers, les Dieux, les Hommes. Récits grecs des origines, Seuil, 29 settembre 1999
- La percentuale di cittadini dai 15 ai 29 anni che non sono impegnati né nell’istruzione, né nel lavoro, né nella formazione è la più alta dell’Unione: ibidem.
- Governo italiano, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 5 maggio 2021
- https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/wp-content/uploads/2021/05/COMMENT-TO-THE-ITALIAN-NRRP_FORUMDD.x96206.x96206.pdf
- Ibidem, p. 244–47.
- Olivier Blanchard, Jean Pisani-Ferry, Una strategia economica contingente per la prossima fase, Il Grand Continent, 6 maggio 2021
- Virgilio, Eneide, IV.361.