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In un’Unione Europea in cui è noto che le opportunità di ridefinire le regole del gioco sono estremamente ridotte, l’attuale crisi sanitaria, economica e sociale è un’occasione unica per rimescolare le carte dell’ortodossia economica e finanziaria nata quasi trent’anni fa a Maastricht. L’opportunità che abbiamo oggi di cambiare il paradigma e riorientare la politica europea in modo sostenibile rischia però di esaurirsi molto rapidamente, come è avvenuto durante la precedente crisi – tanto più se non si avvierà al più presto un lavoro sulle proposte.
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Per la prima volta dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, i principali vincoli della governance economica europea sono stati sospesi sine die: è il caso del Patto di Stabilità e Crescita, l’istituzione chiave delle politiche di austerità di bilancio, che ha svolto un ruolo determinante nell’aggravamento della crisi del 2008; è anche il caso delle regole sugli “aiuti di Stato”, uno strumento per limitare drasticamente le politiche industriali degli Stati, al centro della potente politica europea della concorrenza. A questi elementi, si aggiungono nuove leve di intervento per garantire l’occupazione, finanziare il lavoro a orario ridotto, finanziare l’assistenza sanitaria, ecc. Come sappiamo, contrariamente a quanto accaduto al tempo della crisi del 2008, un Piano di ripresa (Next Generation EU) è stato costruito attorno a un debito comune europeo e a investimenti pubblici in parte diretti – e non più semplici crediti o garanzie sui prestiti – che hanno permesso agli Stati di avere un certo margine di manovra. In questo modo è stato riscoperto il ruolo dei bilanci nazionali ed europei come strumento per la crescita e l’occupazione. Insomma, è emersa l’opportunità per l’Unione Europea di dimostrare che può essere qualcosa di diverso da una leva per sostenere la svolta neoliberista dei governi europei.
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Non bisogna naturalmente sottovalutare l’inerzia dell’Unione e vedere la situazione attuale come qualcosa di diverso da una fase di disgelo ancora molto incerta – tanto più che i rapporti di forza e gli equilibri politici in Europa non sono fondamentalmente cambiati dopo la crisi del Covid. Le scelte fatte nell’urgenza senza precedenti della primavera scorsa non costituiscono di per sé un cambiamento di paradigma o un cambio di rotta. E non si può tornare indietro in un colpo solo sulla totalità delle scelte sedimentate dalla creazione dell’euro. Non solo le somme destinate agli investimenti pubblici diretti rimangono in definitiva limitate1, ma il Recovery Plan è stato posto sotto la tutela della cabina di pilotaggio finanziario dell’Unione: il “semestre europeo”, il potente sistema europeo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli Stati creato nel 2011 e che rimane caratterizzato dalle sue originali ossessioni per il risanamento dei bilanci, la stabilità finanziaria e le riforme strutturali. D’altronde gli orientamenti politici ed economici intrapresi non hanno subito modifiche sostanziali. I grandi patrimoni e le grandi fortune non sono stati chiamati a partecipare a una solidarietà che è essenzialmente pensata in termini di trasferimenti tra gli Stati – e non tra le classi sociali. Il Recovery Plan (dalla sua concezione europea alla sua attuazione nazionale), nonostante sia stato presentato come un nuovo Piano Marshall, aggrava ulteriormente la tendenza tecnocratica del governo europeo attraverso il rafforzamento dei dirigenti (nazionali ed europei) di fronte ai Parlamenti (e alle parti sociali) che sono invitati solo alla fine della gara per convalidare le scelte redistributive fatte senza di loro.
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Rimane il fatto che, per quanto limitati, questi margini di manovra e questa sospensione parziale del governo neoliberista rischiano di chiudersi molto velocemente. Presto o tardi (e probabilmente più presto che tardi, a giudicare dalle ultime dichiarazioni dell’Eurogruppo), le condizioni del rallentamento delle economie europee e di un “ritorno alla normalità” saranno discusse. Con due domande particolarmente impellenti:
- Chi pagherà il prezzo della crisi? Se il ricorso massiccio alla politica monetaria ha per il momento reso le cose particolarmente indolori, i deficit e i debiti si accumulano, e porranno senza dubbio la questione della loro gestione tramite piani di rimborso o di rifinanziamento: i conflitti di distribuzione non tarderanno a riemergere per rimborsare il nuovo debito (nazionale ed europeo) emesso dagli stati membri. L’ipotesi aperta da Bruno Le Maire di un accantonamento (nazionale) del debito promette un futuro infausto, tra mega-piani di austerità e aumento delle imposte per le classi medie e i più poveri.
- Quale governo economico dell’Unione per il post-Covid? Le scelte prese durante la crisi del Covid, che hanno posto le preoccupazioni per la crescita e l’occupazione al di sopra di quelle per la stabilità finanziaria e il consolidamento fiscale, possono essere la matrice per nuove politiche socialmente e ecologicamente sostenibili? Come possono gli strumenti di governance europei, nati principalmente per assicurare una disciplina di bilancio, come il Meccanismo europeo di stabilità o il Patto di stabilità e crescita, diventare il luogo di un nuovo modello di sviluppo economico, ecologico e sociale? O ancora: quale sostenibilità può essere data alla nuova capacità di intervento di bilancio?
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Insomma, l’uscita dalla crisi rimane da costruire. Captando senza dubbio queste incertezze, il campo “conservatore” si é già organizzato attivamente per richiudere al più presto quella che viene presentata come una semplice parentesi, insistendo sul carattere unico e non riproducibile di tali misure eccezionali, così come la crisi sanitaria – presentata, secondo categorie economiche alla fine poco convincenti, come uno shock “esterno” e “simmetrico”. La questione chiave è accelerare il “ritorno alla normalità” e restringere al massimo il campo delle possibili soluzioni di cui avrà necessariamente bisogno il rallentamento economico post-Covid2. Ciò fa pensare alla chiusura rapida (a partire dal 2012) dei dibattiti aperti con l’esplosione della crisi nel 2008 – a beneficio di una chiara preferenza per le politiche di consolidamento di bilancio, che hanno imposto a stati come l’Italia e il Portogallo dei saldi strutturali positivi ottenuti al prezzo di importanti sacrifici in termini di attività, di impiego e di investimenti pubblici, e che… hanno finito per inasprire una marcata ricaduta delle economie della zona euro.
Mentre si combatte, per la prima volta in tre decenni, una battaglia politica sull’orientamento della governance economica dell’Unione, non è il momento di riaccendere in Francia il vecchio dibattito sul vincolo europeo, che non ha mai smesso di essere rimesso sul tavolo dopo il referendum del 2005. Niente sarebbe peggio che restare fermi, come cinque anni fa, alle leve dell’unilateralismo e dei rapporti di forza esterni (Francia contro UE, sotto forma di disobbedienza e di ritiro dai trattati, eccetera) quando è all’interno dell’UE che si giocano oggi i futuri margini di manovra politica nazionale.
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Rimangono da elaborare le linee guida per un nuovo paradigma capace di andare oltre il “consenso di Maastricht”. Con alcuni obiettivi specifici:
- Rivedere il Patto di stabilità per stimolare gli investimenti pubblici. A seguito della crisi, gli Stati hanno visto aumentare considerevolmente il proprio debito. Nel 2021, secondo le previsioni del Fmi, il rapporto debito/Pil sarà il doppio (Belgio, Francia, Spagna, Portogallo) o il triplo (Italia, Grecia) del tetto del 60% fissato dal Trattato di Maastricht. Tuttavia, il consolidamento del bilancio, che questi tassi implicano in base alle regole del six pack, avrà un’influenza negativa diretta sugli investimenti pubblici. Mentre nel Patto di stabilità esiste una “clausola di investimento” per alcuni tipi di investimenti pubblici, essa rimane soggetta a pesanti condizioni che la rendono inefficace3. Infatti, dal 2012 gli investimenti pubblici netti nell’area dell’euro sono stati vicini o addirittura inferiori allo zero. Il ripristino del Patto di stabilità e delle relative regole del six pack dopo la crisi renderebbe impossibile effettuare gli investimenti necessari per affrontare le sfide del cambiamento climatico, le conseguenze della pandemia e/o la trasformazione digitale4. Da un lato, si dovrebbero quindi riformare le modalità di rimborso del debito previste dal six pack; dall’altro, si dovrebbe stabilire un nuovo tipo di “regola d’oro” che escluda gli investimenti pubblici dai criteri del deficit. Questa regola permetterebbe di ridurre il debito pubblico mantenendo gli investimenti pubblici5. Tale regola – l’idea che il prestito pubblico debba finanziare non solo le spese correnti ma anche gli investimenti – ha il vantaggio di essere ampiamente accettata dalla comunità degli economisti6. A condizione che questo investimento pubblico sia ben definito come netto e comprenda la spesa per l’istruzione, gli investimenti sociali, il miglioramento dei sistemi sanitari e la lotta al cambiamento climatico.
- Ampliare e sostenere il Piano di ripresa trasformato in un Fondo europeo per gli investimenti pubblici, attribuendogli obiettivi commisurati alla crisi (che è solo all’inizio) e in grado di affrontare le disuguaglianze strutturali dell’Unione: è sempre più dimostrato che la crescita delle disuguaglianze sociali potrebbe essere alla base di parte della crisi economica che stiamo attraversando. Uno dei problemi macroeconomici che caratterizza questa situazione è infatti il livello strutturalmente troppo basso dei tassi di interesse reali a lungo termine. Ne derivano minacce ricorrenti di deflazione, che la politica monetaria ha difficoltà a combattere. Una delle spiegazioni di questo fenomeno risiede nell’accumulo di risparmi da parte delle famiglie e delle imprese più ricche7. Una soluzione a questo squilibrio dovrebbe essere un sistema fiscale più equilibrato: una tassa europea sui patrimoni più elevati e sui redditi più alti, cosí come una tassa comune sugli utili delle imprese europee ad un’aliquota aggiuntiva del 15%, come abbiamo proposto nel Manifesto per la democratizzazione dell’Europa8. Il gettito di queste imposte costituirebbe una nuova risorsa propria per l’Unione, al fine di finanziare il nuovo Fondo europeo per gli investimenti pubblici. Rafforzerebbero la nuova risorsa propria già all’ordine del giorno dell’Unione costituita dalle “misure di adeguamento carbonio alle frontiere”. D’altronde, in Germania, su iniziativa di Die Linke9 e della Fondazione Rosa Luxemburg, è stata appena formulata una proposta approfondita per una tassa sulle grandi fortune. Potrebbe essere messa all’ordine del giorno dell’Assemblea parlamentare franco-tedesca prima di venire generalizzata alla zona euro.
Le spese di questo Fondo europeo per gli investimenti pubblici dovrebbero essere destinate alla riduzione delle disuguaglianze sociali strutturali all’interno dell’Unione. Esse non dovrebbero tener conto solo della redditività a breve termine degli investimenti che finanzia, ma dovrebbero basarsi su nuovi indicatori di progresso in linea con i lavori del Fair (Forum per altri indicatori di ricchezza). Queste spese dovrebbero essere ripartite secondo due assi, che prendano in considerazione la dimensione transnazionale dell’europeizzazione e la dimensione nazionale della coesione. Le prestazioni sociali per i più poveri ma anche per le classi medie, un’assicurazione contro la disoccupazione europea, l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, la sanità pubblica, lo sviluppo di un’economia sostenibile, le energie rinnovabili, il finanziamento delle infrastrutture ferroviarie, il rinnovamento termico degli edifici, ecc. dovrebbero essere priorità nazionali e transnazionali di questo fondo.
- Strappare la gestione del “semestre europeo”, il centro di gravità della governance dell’UE, dalla mano esclusiva del Tesoro e delle Banche Centrali – riuniti nel recinto centrale dell’Eurogruppo. Al culmine della crisi, il suo presidente aveva insistito per avere voce in capitolo in materia di investimenti per via della sua specifica competenza finanziaria. Ciò implica che gli investimenti europei sono in gran parte racchiusi in logiche finanziarie e nella redditività a breve termine del mercato. Tuttavia, questa redditività a breve termine, l’allungamento e l’indebolimento delle catene del valore, l’incuria delle infrastrutture sanitarie pubbliche, l’indebolimento del settore dell’istruzione e dei suoi attori, dei servizi alla persona e la distruzione dell’ambiente e delle risorse naturali non sono più tollerabili nel mondo incerto in cui il Covid ci ha fatti entrare: le pandemie future e i disastri naturali legati al cambiamento climatico e al riscaldamento globale impongono a ogni sistema di sviluppo economico di modificare il modo in cui misurano il progresso del capitalismo moderno per sostituirle con altre più inclusive e protettive. All’interno dell’Unione Europea, il braccio finanziario dei tesorieri e delle banche centrali europee e nazionali è arrivato a “catturare” il governo economico dell’Unione Europea. L’attuale piano di rilancio europeo, che àncora i fondi europei nel semestre europeo, orchestrato dall’Eurogruppo, testimonia questa preminenza esclusiva. La governance dell’allocazione dei fondi di investimento europei dovrebbe quindi essere modificata al fine di cambiare il paradigma; i piani di investimento nazionali dovrebbero essere costituiti da filoni tematici: investimenti sociali, investimenti verdi, investimenti per la salute pubblica, ecc. che saranno discussi dalle diverse formazioni tematiche del Consiglio sulla base dei pareri delle Direzioni Generali dedicate della Commissione europea. L’adozione di questi piani sarà discussa, modificata e votata da un’Assemblea transnazionale di parlamentari nazionali.
- Costruire l’Assemblea parlamentare transnazionale in modo tale che sia in grado di guidare / controllare queste politiche e dare uno sbocco politico ai conflitti di ridistribuzione tra le classi sociali europee. Attualmente, le logiche burocratiche costituiscono la logica quasi esclusiva del funzionamento dell’Unione Europea. Le Direzioni generali della Commissione, il Consiglio dell’Unione e soprattutto l’ECOFIN, la riunione dei ministri delle finanze dell’Unione, e l’Eurogruppo, per la zona euro, decidono a porte chiuse l’orientamento delle politiche economiche e di bilancio che devono essere favorite dagli Stati, con conseguenze dirette, legate in particolare alla reattività dei mercati finanziari in caso di critiche da parte di queste grandi istituzioni finanziarie europee nei confronti delle misure adottate dai governi nazionali. È peraltro ironico vedere i membri di questa struttura lamentarsi del poco seguito ricevuto dalle loro raccomandazioni, quando in realtà impediscono lo sviluppo di politiche alternative. Tuttavia, l’influenza si misura anche sulla base della capacità di anestetizzare e ostacolare, più che di promuovere.. Da un lato, questa struttura burocratica densa e opaca allontana di fatto le decisioni prese al suo interno da qualsiasi controllo parlamentare tradizionale e, dall’altro, rende i suoi membri sordi a tutta una serie di attori e partiti politici, autorità locali e regionali, sindacati nazionali e transnazionali, Ong, associazioni e attori della società civile, che rappresentano una grande varietà di forme di vita, e che sono di conseguenza esclusi dal dibattito pubblico, dal confronto, dalla formazione dell’immaginario collettivo e della creatività politica, elementi fondanti della democrazia.
L’Assemblea transnazionale composta da parlamentari nazionali degli Stati membri deve fornire una cassa di risonanza istituzionale a tutte queste voci dimenticate all’interno dell’Unione e in qualche modo bloccate nei sistemi politici nazionali, nel sistema di governance multilivello che è l’Unione. Questa arena parlamentare transnazionale parteciperà allo sviluppo di compromessi transnazionali al di là delle sole amministrazioni finanziarie. Solo essa potrà votare le nuove risorse proprie di cui sopra per finanziare il bilancio europeo e il Fondo europeo per gli investimenti pubblici, così come potrà partecipare alla definizione dei piani nazionali e del bilancio europeo assicurando che siano in grado di garantire la solidarietà e la coesione intraeuropea tra Stati e classi sociali europee.
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A questo punto, tutto resta ancora da fare. È interessante però notare che i sindacati sono i più impegnati nella costruzione di un’alternativa europea: basti pensare ai recenti testi dei sindacati tedeschi e francesi10, della Cgil in Italia11, di Ig Metall in Germania12, o di Cc-Oo in Spagna13, che percepiscono l’urgenza di non permettere che la porta aperta nella risposta alla crisi Covid si chiuda. È qui che è iniziato il lavoro transnazionale di inquadramento della crisi europea e di costruzione di alleanze sociali che ci permetteranno di uscire dalla trappola del confronto tra gli Stati del Nord e gli Stati del Sud, o tra creditori e debitori, che si sta cristallizzando e continua a crescere sempre di più nelle istanze istituzionali del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo. Su questo, i partiti sono in ritardo: come se si fossero impigliati nella routine del pensiero europeo, quando non limitano del tutto il loro orizzonte al livello nazionale, sembrano ancora incapaci di formulare una diagnosi europea e di prendere le misure del momento che si è aperto su scala transnazionale. In questo momento di pre-campagna in cui si affilano le idee e i programmi, è tempo che i partiti politici della sinistra europea abbandonino gli indugi e colgano questa opportunità storica per andare oltre il “consenso di Maastricht”.
Note
- Distribuiti su 4 o 5 anni, i 390 miliardi di prestiti comuni dell’UE che andranno ad alimentare direttamente i bilanci nazionali corrispondono allo 0,5% del PIL della spesa pubblica aggiuntiva: https://voxeurop.eu/fr/thomas-piketty-ue-cest-le-moment-davancer-avec-un-petit-nombre-de-pays-plus-fort-et-plus-loin/
- German Council of the Economic Experts, Overcoming the Coronavirus crisis together. Strengthening resilience and growth, Annual Report 2020/21.
- Comunicazione della Commissione, Tirer le meilleur parti de la flexibilité offerte par le pacte de stabilité (2015). https://eur-lex.europa.eu/legal-content/fr/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0012&from=ES
- P. Bofinger, « Easing the EU fiscal straitjacket », Social Europe, 14 décembre 2020
- https://www.ofce.sciences-po.fr/pdf-articles/actu/Rapport-FNTP-05-12.pdf
- Anche il Consiglio tedesco degli esperti economici, di orientamento conservatore, l’ha esplicitamente incluso nell’elaborazione del famoso Schuldenbremse, il freno al debito, nel 2007.
- Mian, A. R., Straub, L., & Sufi, A. (2020). Indebted demand (No. w26940). National Bureau of Economic Research. Voir aussi : J. Pisani-Ferry, « les inégalités sont au plus haut et les taux d’intérêt au plus bas », Le Monde, 22 novembre 2020.
- Si veda il sito : www.tdem.eu e Changer l’Europe, c’est possible !, Points, 2019.
- Proposta preparata da Stefan Bach su richiesta di Die Linke e della Fondazione Rosa Luxemburg : https://www.diw.de/documents/publikationen/73/diw_01.c.801975.de/diwkompakt_2020-157.pdf
- E il testo comune delle organizzazioni sindacali francesi e tedesche (DGB, CGT, CFDT, FO) del giugno 2020 : “Solo una risposta europea ambiziosa potrá evitarci degli anni di crescita debole o persino di recessione”: http://syndicollectif.fr/europe-tribune-commune-dgb-cfdt-cgt-fo-cftc-unsa/
- http://www.cgil.it/next-generation-eu/
- Cf. Hans-Jurgen Urban (Directeur général d’IG Metall) « Warum die EU jetzt vor einer ungewissen Zukunft steht », 21 octobre 2020.
- Javier Droz, « ¿Existe una oportunidad para un cambio de modelo en la salida de la crisis de la pandemia? »