L’Europa tra due guerre
Dall’Ucraina a Gaza, le bombe cadono su un mondo fratturato. Il 2023 è stato l’anno delle due guerre; il 2024 sarà quello delle elezioni. Una diagnosi sull’Europa davanti alla svolta firmata Josep Borrell al Grand Continent Summit
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- Il Grand Continent •
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Due guerre mortali si sviluppano ai nostri confini e dominano l’agenda europea: la guerra di aggressione russa contro l’Ucraina e la guerra che è di nuovo divampata in Medio Oriente. Mi concentrerò qui sulle conseguenze di queste guerre per l’Europa e non tratterò quindi altri temi importanti per la nostra politica estera, come le relazioni con la Cina, l’impatto del cambiamento climatico o le tensioni nel Sahel.
Quando ho iniziato il mio mandato nel 2019, avevo già intuito che le questioni di sicurezza sarebbero diventate sempre più importanti. È per questo motivo che ci eravamo impegnati nello sviluppo dello Strategic Compass, la Bussola strategica, una nuova strategia per la nostra politica di sicurezza e di difesa comune. Quando l’ho presentata nel novembre 2021, avevo detto che «l’Europa era in pericolo».
L’Europa è in pericolo
Al tempo, molti pensavano che stessi esagerando, che si trattasse solo di una manovra di marketing per «vendere» lo Strategic Compass. All’epoca, la maggior parte degli osservatori credeva ancora che la Russia stesse accumulando le sue truppe ai confini dell’Ucraina per fare pressione sull’Occidente, affinché questo facesse ulteriori concessioni. Per quanto riguarda il Medio Oriente, era «raramente stato così calmo», come diceva Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale del Presidente Biden, ancora lo scorso settembre. Venivo regolarmente scoraggiato dall’interessarmi alla questione israelo-palestinese. In ogni caso, era impossibile trovare una soluzione a questo conflitto e con gli accordi di Abramo la situazione tra Paesi arabi e Israele si andava evolvendo positivamente. Certo, i palestinesi subivano violenze crescenti in Cisgiordania e gli insediamenti illegali continuavano a rosicchiare il territorio di un potenziale Stato palestinese, ma nessuno prestava più attenzione. L’opinione diffusa era che la questione palestinese si sarebbe risolta da sola.
Ma poche settimane dopo la presentazione della Bussola strategica, la guerra faceva il suo brutale ritorno alle frontiere dell’Unione, e dal 7 ottobre la situazione nelle nostre immediate vicinanze si è ulteriormente aggravata. La drammatica situazione a Gaza è diventata la questione più urgente da affrontare, ma la guerra contro l’Ucraina rimane un tema fondamentale perché rappresenta una minaccia esistenziale per l’Unione europea. Sebbene i loro attori e le loro origini siano molto differenti, questi due conflitti sono interconnessi. Il modo in cui il conflitto a Gaza viene percepito da quello che oggi è noto come «Sud globale» rischia di indebolire il sostegno di molti di questi Paesi all’Ucraina contro l’aggressione russa.
Il momento Demostene dell’Europa
Quando, all’epoca della pandemia di COVID-19, abbiamo istituito Next Generation EU attraverso l’emissione di debito comune, alcuni hanno parlato di un momento hamiltoniano, in riferimento alla decisione presa nel 1790 da Alexander Hamilton, primo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, di farsi carico del debito degli Stati federati, creando così un debito federale comune. Questa analogia è però discutibile nella misura in cui Next Generation EU non ha riguardato lo stock di debiti degli Stati membri ed è stata un’operazione una tantum, che non era destinata a ripetersi. Oggi, altri parlano di un momento Demostene, in riferimento alle azioni del grande oratore e statista ateniese che, a partire dal 351 a.C., mobilitò i suoi concittadini con una serie di famosi discorsi, le Filippiche, al fine difendere l’indipendenza di Atene e la sua democrazia contro l’imperialismo di Filippo di Macedonia, padre di Alessandro Magno. Ecco un paragone più azzeccato: siamo infatti confrontati all’imperialismo di una grande potenza che minaccia non solo l’Ucraina, ma la nostra democrazia e l’intera Unione Europea.
Temo che se non cambiamo rapidamente rotta, se non mobilitiamo tutte le nostre capacità, se lasciamo che Putin vinca in Ucraina, se lasciamo che la tragedia subita dalla popolazione di Gaza continui, il progetto europeo sarà seriamente minacciato.
Esaminiamo quindi più dettagliatamente queste due guerre e il modo in cui possiamo influenzarne il corso. Ci era stato spesso detto che la geografia non contava più, che era scomparsa dai conflitti. Ma questi due conflitti riguardano ancora questioni territoriali. Nel caso dell’Ucraina, il conflitto è tra uno Stato sovrano, l’Ucraina, e una potenza imperialista, la Russia. La Russia non è mai riuscita a diventare un vero Stato nazionale. È sempre stata un impero, sia sotto gli zar, sia sotto i sovietici, ora sotto Putin. Finché questa identità imperialista non sarà messa in discussione, la Russia continuerà a essere una minaccia per i suoi vicini, in particolare per noi europei, e il suo regime politico rimarrà autoritario, nazionalista e violento. Molti pensatori russi lo hanno già sottolineato: finché la Russia non abbandonerà il suo progetto imperialista, non sarà in grado di democratizzarsi o riformarsi.
Due popoli e una sola terra
Il conflitto tra Israele e Palestina è di natura diversa, ma riguarda anch’esso una questione territoriale. Si tratta di due popoli che lottano per la stessa terra su cui entrambi hanno diritti legittimi, e sono ormai cent’anni che questo conflitto perdura. Abbiamo avuto una guerra dei cent’anni in Europa, ma questa è la guerra dei cent’anni in Medio Oriente. Come ne usciamo? Delle due, l’una: o questi due popoli condividono questa terra, oppure uno dei due dovrà andarsene, morire o diventare un popolo di cittadini di seconda classe sotto la dominazione dell’altro.
Il futuro delineato dalla seconda opzione non sarebbe accettabile. Bisogna preferire la prima opzione. Questo è il senso della soluzione dei due Stati, di cui si discute da più di 30 anni con gli accordi di Oslo. Ma da allora ben poco è stato fatto per attuarla. Eppure l’intera comunità internazionale sostiene questa soluzione, così come tutti gli Stati membri dell’Unione europea.
Gli estremisti di entrambe le parti, Hamas da una parte e i fondamentalisti della destra israeliana dall’altra, si oppongono e hanno fatto di tutto per rendere impossibile una soluzione a due Stati fino ad oggi. In particolare, gli accordi di Oslo non hanno fermato la colonizzazione della Cisgiordania, ovvero, come in Ucraina, l’occupazione di terre altrui in violazione di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite. Oggi si contano in Cisgiordania 700.000 coloni israeliani, il quadruplo di quelli presenti all’epoca degli accordi di Oslo, con il chiaro obiettivo di rendere impossibile la creazione di uno Stato palestinese.
Il governo israeliano rifiuta la soluzione dei due Stati
Hamas si oppone all’esistenza stessa dello Stato di Israele. Ma anche l’attuale governo israeliano è contrario alla soluzione dei due Stati, e lo è da molto tempo. Benyamin Netanyahu, l’attuale Primo Ministro, si è presentato ai suoi concittadini promettendo che uno Stato palestinese non avrebbe mai visto la luce, nonostante l’intera comunità internazionale fosse favorevole. Anche questa comunità ha quindi un problema con la politica di Benyamin Netanyahu. Altre voci si levano però all’interno della società israeliana, come quella dell’ex Primo ministro israeliano Ehud Olmert 1 o quella di una giovane sopravvissuta all’attacco del Kibbutz Be’erii 2, la cui testimonianza mi ha molto toccato, per sottolineare la necessità di un tale Stato palestinese. Sono convinto che la sua esistenza è indispensabile per la sicurezza a lungo termine dello Stato d’Israele.
La tragedia del 7 ottobre ha tuttavia segnato il crollo di uno status quo insostenibile, anche se non volevamo vederlo. A mio parere, ci sono due lezioni da trarre da questa tragedia. La prima è che la soluzione non può essere trovata dalle stesse parti in conflitto, ma deve essere imposta dall’esterno dalla comunità internazionale, dai vicini arabi, dagli Stati Uniti e dall’Europa. In secondo luogo, dobbiamo cambiare i nostri metodi. A Oslo, il punto d’arrivo del negoziato non è stato definito. Dobbiamo invertire il processo. Prima di tutto, dobbiamo definire questo punto di arrivo, che la comunità internazionale deve imporre. E poi dobbiamo cercare, attraverso il negoziato, il modo per raggiungerlo. Oggi gli Stati arabi stanno dicendo chiaramente, compresi quelli che hanno riconosciuto Israele e mantengono relazioni con esso, che è completamente escluso che loro paghino ancora una volta per ricostruire Gaza se non c’è alcuna garanzia che la soluzione dei due Stati sarà effettivamente attuata. Se questo non accade, la pace non tornerà mai stabilmente.
Non c’è una soluzione militare al conflitto israelo-palestinese
Non esiste una soluzione militare al conflitto israelo-palestinese. Hamas rappresenta soprattutto un’idea, e non si può uccidere un’idea con le bombe. L’unico modo per uccidere una cattiva idea è proporne una migliore, che dia speranza e fiducia in un futuro in cui la pace sia possibile. Questa può e deve essere l’attuazione della soluzione dei due Stati.
Ma torniamo all’Europa e poniamoci una domanda fondamentale: qual è la nostra capacità di agire collettivamente di fronte a questi conflitti? Non siamo uno Stato e nemmeno una federazione di Stati. La nostra politica estera e di sicurezza è definita all’unanimità, il che significa che basta che uno Stato vi si opponga perché non possiamo agire.
E ovviamente è difficile raggiungere tale unanimità di fronte a problemi complessi. Se avessimo un sistema di voto a maggioranza qualificata o una regola decisionale che non richiedesse l’unanimità totale, potremmo far muovere tutti per trovare un punto di convergenza. Ci sarebbe un incentivo a negoziare, perché a nessuno piace essere isolato. Ma se possiamo bloccare l’intera Unione rimanendo isolati, c’è la grande tentazione di usare questa leva per ottenere concessioni da altri Paesi. È quello che è successo all’ultimo Consiglio europeo quando è stata presa la decisione di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina. Se un Paese può imporre il veto, gli altri sono costretti a contrattare il suo ritorno al consenso generale. E questa contrattazione è spesso molto costosa, e fa soprattutto perdere molto tempo. Reagiamo troppo lentamente agli eventi, e spesso la paghiamo cara per questo. In pratica, non sempre la forza dei numeri è sufficiente e, nei momenti critici, le nostre regole spesso ci impediscono di agire. L’allargamento dell’Europa all’Ucraina, alla Moldavia e ai Paesi balcanici solleva la questione della riforma dell’Unione europea. Non riesco a immaginare come possiamo continuare a funzionare con 37 membri se manteniamo la regola dell’unanimità. Dobbiamo lavorare in modo diverso se vogliamo agire con sufficiente rapidità e forza in questo ambiente pericoloso.
Davanti alla guerra contro l’Ucraina, una reazione europea notevole
Nel caso dell’Ucraina, tuttavia, l’unanimità è stata fortunatamente raggiunta molto rapidamente. Prima dell’inizio della guerra, avevo visitato il Donbass nel gennaio 2022. Avevo incontrato Denys Shmyhal, il primo ministro ucraino. Mi disse che tra pochi giorni i russi avrebbero invaso la regione e mi chiese se li avremmo aiutati, non inviando truppe, ma consegnando armi affinché gli ucraini potessero difendersi. All’epoca non sapevo come rispondere, perché non ero sicuro che avremmo avuto l’unanimità necessaria per farlo. Ma fortunatamente, quando è arrivato il giorno, l’abbiamo avuta.
La reazione europea alla guerra contro l’Ucraina è stata davvero notevole. Innanzitutto, siamo riusciti a ridurre drasticamente la nostra dipendenza energetica da Mosca, cosa che sembrava quasi impossibile all’inizio con una dipendenza del 40% dal gas russo. Inoltre, Mosca pensava che questa dipendenza ci avrebbe impedito di reagire. Invece l’abbiamo fatto. Il prezzo da pagare, però, è stato alto. L’inflazione si è riaccesa e l’economia è stata frenata. Abbiamo anche pagato un prezzo geopolitico significativo, perché abbiamo acquistato il gas disponibile a un prezzo che molti Paesi non potevano permettersi di pagare, privandoli così di questa risorsa. Ma ci siamo liberati dalla dipendenza energetica dalla Russia, che costituiva un vincolo importante per la nostra politica estera.
Abbiamo anche imposto sanzioni senza precedenti contro la Russia. Sebbene non abbiano fermato la macchina da guerra di Putin, hanno indebolito l’economia russa facendo scendere il valore del rublo e facendo salire l’inflazione. Infine, per la prima volta, abbiamo fornito sostegno militare a un Paese in guerra. Abbiamo fornito all’Ucraina attrezzature militari per un valore di quasi 30 miliardi di euro, in particolare mobilitando lo Strumento europeo per la pace. Non era stato originariamente concepito per questo scopo, ma sono molto orgoglioso di essere riuscito a metterlo al servizio dell’Ucraina. Ed è grazie al nostro aiuto che l’Ucraina è riuscita a resistere. Gli aiuti militari americani sono stati certamente maggiori dei nostri. Ma se si sommano gli aiuti militari, finanziari, economici e umanitari, l’Europa ha sostenuto l’Ucraina molto più degli Stati Uniti.
Questa unità durerà? Che cosa faremo se gli americani ridurranno il loro sostegno all’Ucraina eleggendo un nuovo presidente, o forse anche prima? Sono domande a cui bisognerà rispondere. Durante il Grand Continent Summit, qualcuno mi ha chiesto se crediamo che Putin possa vincere la guerra in Ucraina. Non è una domanda pertinente: quello che ognuno di noi pensa sull’argomento è di scarso interesse. La domanda a cui dobbiamo rispondere è cosa siamo disposti a fare per garantire che Putin perda questa guerra. Siamo disposti a fare tutto il necessario per raggiungere questo risultato? Vogliamo davvero impedire la vittoria di Vladimir Putin, ovvero l’insediamento a Kiev di un governo fantoccio, come quello della Bielorussia? Per quanto mi riguarda, penso che dobbiamo fare di più e farlo più rapidamente per sostenere l’Ucraina, perché la Russia rappresenta una grande minaccia strategica per l’Unione europea, anche se devo ammettere che non tutti gli Stati membri concordano sulla natura di questa minaccia.
Non dobbiamo infatti sottovalutare i nostri avversari. La Russia è ancora in grado di mobilitare un gran numero di truppe, nonostante le pesanti perdite che ha subito finora. Nel febbraio 2022, c’erano 150.000 truppe russe ammassate al confine con l’Ucraina. Oggi sono 450.000 in Ucraina. La controffensiva ucraina non è riuscita a sfondare le linee russe, ma sarebbe stato molto difficile farlo senza il supporto aereo, che abbiamo promesso loro ma non abbiamo ancora fornito. Putin si è sbagliato sulle capacità del suo esercito. Si è sbagliato sugli ucraini. Si è sbagliato sulla volontà di unità degli europei. Si è sbagliato sulla forza del legame transatlantico. Eppure è ancora lì. È ancora disposto a lasciar morire migliaia di russi per conquistare Kiev. Il suo esercito e il suo popolo stanno soffrendo, ma lui non sa cosa significhi tornare indietro.
Vladimir Putin non vuole davvero negoziare
Prima della guerra, tutti sono andati a Mosca, Emmanuel Macron, Olaf Scholz… per cercare di dissuadere Vladimir Putin dall’invadere l’Ucraina. Non c’è stato alcun risultato. Questo vale ancora adesso. Vladimir Putin è determinato a continuare finché non avrà ottenuto la vittoria dal suo punto di vista. Basta guardare la sua ultima conferenza stampa per rendersene conto. È chiaro che non ha intenzione di accontentarsi di prendere un pezzo di Ucraina e lasciare che il resto entri nell’Unione Europea. Al contrario, sta già iniziando a minacciare altri Paesi, in particolare la Finlandia. In ogni caso, non cercherà di placarsi prima delle elezioni americane, che spera diano un esito che giovi ai suoi piani imperialisti. La guerra ad alta intensità quindi continuerà e noi dobbiamo prepararci. Per cominciare, dobbiamo sviluppare la nostra industria della difesa, che non è assolutamente all’altezza delle sfide che dobbiamo affrontare. Difendere l’Ucraina significa difendere la nostra stessa sicurezza. Se l’Ucraina dovesse perdere la guerra, incoraggerebbe la Russia ad accrescere ulteriormente i suoi appetiti imperialisti.
Ma, come ho detto, questo non è il punto di vista di tutti gli Stati membri. Alcuni non vedono la Russia di Vladimir Putin come una minaccia strategica. La divisione su questa questione esistenziale minaccia il futuro dell’Unione europea? È impossibile dirlo in questa fase. Da parte mia, sono convinto in ogni caso che l’Europa debba fare tutto il possibile per evitare una vittoria di Vladimir Putin in Ucraina, che sarebbe straordinariamente grave. E su questo lavorerò instancabilmente nei prossimi mesi. Sono convinto che questa minaccia possa, al contrario, contribuire a cementare la nostra unione e a renderci più forti.
L’Europa divisa sul conflitto israelo-palestinese
Davanti al conflitto israelo-palestinese, la situazione è molto diversa. La percezione di questo conflitto varia molto da uno Stato membro all’altro, in particolare a causa degli eventi legati alla pagina più buia della storia europea, la Shoah. Tuttavia, il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo a minima tra gli europei, affermando che Israele ha il diritto di difendersi in conformità con il diritto internazionale e che non avremmo richiesto un cessate il fuoco ma delle pause umanitarie. Quando però, in due occasioni, è stata messa ai voti una risoluzione alle Nazioni Unite che chiedeva tale cessate il fuoco, ci siamo divisi, cosa che ci indebolisce. Tuttavia, tra le due votazioni, il numero di Stati membri dell’UE che sostenevano la richiesta è aumentato da 8 a 14, mentre il numero di quelli contrari è sceso da 4 a 2, mentre i rimanenti si sono astenuti.
Che capacità abbiamo di influenzare gli attori di questo dramma? Siamo il maggior fornitore di aiuti ai palestinesi e in particolare il maggior finanziatore dell’Autorità nazionale palestinese. La Commissione europea ha appena passato al microscopio questi aiuti per verificare se il denaro potesse andare in qualche modo a Hamas. Non è così e spero che gli aiuti europei ai palestinesi continuino a essere commisurati alle necessità, perché senza l’Autorità nazionale palestinese la situazione sul campo sarebbe ancora più difficile. Siamo anche il principale partner commerciale di Israele e abbiamo con esso l’accordo di associazione più stretto che abbiamo al mondo. Quindi sì, avremmo gli strumenti per influenzare gli attori del conflitto se lo volessimo, ma finora non abbiamo voluto usarli, soprattutto per quanto riguarda Israele. Da parte mia, credo che l’Europa debba essere molto più impegnata nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese e che abbiamo finora delegato troppo agli Stati Uniti la ricerca di una soluzione a un conflitto che ci riguarda molto da vicino.
Problemi di coerenza e credibilità
La concomitanza di questi due conflitti pone problemi di coerenza e credibilità nei confronti del resto del mondo. Nel caso dell’Ucraina, abbiamo difeso il rispetto della sovranità del Paese, della sua integrità territoriale e dei principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite. E la comunità internazionale ci ha seguito: 145 Paesi hanno condannato l’aggressione russa e sostenuto l’Ucraina alle Nazioni Unite. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che molti di questi Paesi non condividono il nostro senso di indignazione per l’aggressione russa contro l’Ucraina. Sono certamente d’accordo nel condannare questa invasione alle Nazioni Unite, ma si fermano lì. Non hanno alcuna intenzione di seguire il nostro esempio per quanto riguarda le sanzioni. E ci chiedono di porre fine a questa guerra il prima possibile, perché ne soffrono le conseguenze, in particolare sui prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari. Inoltre, tendono a diffidare della nostra politica, che dovrebbe essere basata su principi immutabili, ma che per molti di loro è in realtà una politica a geometria variabile in funzione dei nostri interessi.
Nel caso del conflitto israelo-palestinese, la nostra mancanza di unità ha indebolito la nostra credibilità in materia di difesa della legalità internazionale. Quando 144 Stati sostengono l’Ucraina all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, crediamo che siano dalla parte giusta della storia e che sia la comunità internazionale a parlare. Ma quando 153 Paesi chiedono un cessate il fuoco umanitario a Gaza, facciamo fatica a credere che sia lo stesso. È difficile appellarsi al giudizio della comunità internazionale e al voto alle Nazioni Unite in un caso e non nell’altro. Questa sfasatura pone all’Europa dilemmi politici e morali essenziali che devono essere affrontati con lucidità e coraggio.
Questo è uno dei motivi principali per cui il conflitto tra Israele e Palestina e la guerra in Ucraina sono strettamente legati, nonostante siano di natura molto diversa. Se non vogliamo perdere la nostra posizione in gran parte del mondo, se non vogliamo che quanto sta accadendo a Gaza indebolisca il sostegno dato all’Ucraina da molti Paesi, e non solo da quelli musulmani o arabi, ma anche da quelli dell’America Latina, per esempio, allora dobbiamo difendere i nostri principi e i nostri interessi in un modo che sia molto più compatibile con la percezione che il resto del mondo ha di quanto sta accadendo in un luogo e nell’altro.
Ci sono, ovviamente, molte altre questioni che svolgono un ruolo importante nella nostra politica estera e di sicurezza ma, nel contesto attuale, ho scelto di concentrarmi sui due principali conflitti che stiamo affrontando, sui rischi esistenziali che essi rappresentano per l’Europa e sull’assoluta necessità che la società europea li comprenda e che i suoi leader politici agiscano di conseguenza. Vi ringrazio per l’attenzione.
Note
- Eric Cortellessa, «Former Israeli Prime Minister: Israel’s Endgame in Gaza Should be a Palestinian State», TIME Magazine, 6 novembre 2023.
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