Nel suo ultimo libro, Digital Empires (Oxford University Press, 2023), lei descrive tre modelli normativi concorrenti per l’economia digitale: americano, cinese ed europeo. Quali sono questi modelli e come riflettono i valori di fondo di ciascuna giurisdizione? Quali sono gli «imperi digitali» a cui si riferisce nel titolo?
Nel panorama digitale odierno, Stati Uniti, Cina e Unione Europea appaiono come formidabili «imperi digitali». Questa metafora riflette il loro ruolo di potenze tecnologiche, economiche e normative, ognuna delle quali plasma l’ordine digitale globale secondo i propri valori e le proprie ideologie. Come gli imperi storici, essi estendono la loro influenza oltre i confini, esportando i loro distinti modelli di governance e attirando altre nazioni nelle rispettive sfere di influenza. Questi modelli, profondamente radicati nel tessuto culturale e ideologico di ciascun impero, rappresentano una moderna estensione del potere e dell’influenza nel campo digitale.
Al centro di questi imperi ci sono tre diversi modelli normativi, ognuno dei quali riflette una diversa visione del capitalismo digitale. Il modello americano è essenzialmente orientato al mercato e pone l’accento sulla libertà di espressione e di innovazione, con un’interferenza governativa minima. Questo approccio si basa sulla fiducia nel potere di trasformazione della tecnologia per la prosperità economica e il progresso sociale. Il modello cinese, invece, utilizza la tecnologia come strumento di controllo politico, con il governo che svolge un ruolo centrale nella guida e nella regolamentazione del settore tecnologico. L’Unione Europea, invece, sostiene un approccio basato sui diritti, in cui la regolamentazione è concepita per proteggere i diritti individuali e garantire un mercato digitale equo e incentrato sugli esseri umani.
Il modello americano mostra una grande fiducia nei meccanismi di mercato, ostentando un certo ottimismo tecnologico e avocando un ruolo limitato per l’intervento del governo. Si tratta di una posizione tecno-liberale che ritiene l’intervento pubblico come un potenziale ostacolo all’efficienza del mercato e alle libertà individuali. Al contrario, l’approccio cinese riflette una lettura strategica della tecnologia per rafforzare il controllo statale e la stabilità della società, spesso a scapito delle libertà individuali. In questo caso, la tecnologia viene utilizzata come strumento di censura, sorveglianza e propaganda, in linea con gli obiettivi del Partito Comunista Cinese.
Il quadro europeo è nettamente diverso, in quanto dà priorità ai diritti individuali e ai valori democratici nell’economia digitale. Questo modello cerca un equilibrio tra la libertà di espressione e altri diritti fondamentali, sostenendo l’intervento normativo per proteggere i cittadini e garantire che dai progressi digitali si traggano giusti benefici. Questo approccio riflette il desiderio di allineare il progresso tecnologico ai principi di una società liberale e democratica, in netto contrasto con l’enfasi americana sul libero mercato e quella cinese sul controllo statale.
Pur avendo caratteristiche uniche, questi modelli presentano anche punti di convergenza nel tentativo di bilanciare le forze di mercato, il controllo statale e i diritti individuali. Anche negli Stati Uniti, un modello normativo basato sul mercato non è mai esistito in forma pura. Tuttavia, quando si parla di compromessi, gli Stati Uniti propendono generalmente per soluzioni incentrate sul mercato, mentre la Cina privilegia gli interessi statali e l’UE si concentra sulla tutela dei diritti dei cittadini. Questi principi fondamentali plasmano le rispettive economie digitali e sono fonte di tensioni e conflitti in corso. La comprensione di questi modelli è essenziale per capire le complesse dinamiche che stanno definendo il panorama digitale globale e la sua futura traiettoria.
Lei sostiene che gli Stati Uniti stanno perdendo la loro battaglia orizzontale contro gli altri due modelli e che il loro modello normativo è in declino. Come spiega questo fenomeno?
L’economia digitale di oggi poggia su una base costruita dagli Stati Uniti e dalle sue aziende tecnologiche leader. Per oltre vent’anni, il modello normativo statunitense basato sul mercato ha permesso l’espansione internazionale delle principali aziende tecnologiche statunitensi. Sotto le amministrazioni Clinton, Bush e Obama, gli Stati Uniti non solo hanno sostenuto i valori del libero mercato e della libertà del web in patria, ma hanno anche esportato in modo proattivo questi valori in altri Paesi, sottolineandone l’importanza per la crescita economica e il progresso sociale in tutto il mondo. Di conseguenza, il potere del settore privato americano è oggi visibile ovunque. I cittadini di tutto il mondo comunicano utilizzando le piattaforme online americane e pochi vorrebbero tornare a un mondo senza gli strumenti che consentono agli esseri umani di interagire e condividere informazioni tra loro con notevole facilità.
Ma credo che l’agenda del governo statunitense sulla libertà di Internet abbia preparato la sua stessa fine, fino a scomparire dalle agende politiche di tutto il mondo. Nonostante la genuina ammirazione, se non addirittura la gelosia, di aziende e governi stranieri per il successo delle aziende tecnologiche statunitensi, queste ultime sono anche sempre più criticate in tutto il mondo. Gli effetti negativi delle pratiche commerciali di questi giganti della tecnologia sulle economie e sulle società straniere si fanno sempre più sentire, alimentando il malcontento e accelerando le richieste di limitare il loro potere e la loro influenza in diverse giurisdizioni. Cresce il disagio per i danni associati a queste aziende, tra cui gli abusi di potere di mercato, le ripetute violazioni della privacy, la normalizzazione della disinformazione e dei discorsi di odio e la destabilizzazione delle democrazie. Questi fallimenti dimostrano che l’economia digitale statunitense spesso non mantiene la sua promessa tecno-liberale di essere un amplificatore della democrazia e delle libertà individuali, minando l’assunto di fondo secondo cui la democrazia liberale è l’inevitabile conseguenza di un liberato mercato tecnologico.
Tuttavia, anche se i decisori americani riconoscono i limiti del loro modello basato sul mercato, la traduzione legislativa di questa consapevolezza si sta rivelando difficile. L’avversione dei tecno-liberali per la regolamentazione è stata alimentata nel corso degli anni dai persistenti sforzi di lobbying dell’industria tecnologica. Inoltre, le disfunzioni politiche del Congresso stanno attualmente paralizzando qualsiasi sforzo legislativo significativo e il sistema legale statunitense probabilmente non è ancora pronto per una «rivoluzione antitrust».
Molti negli Stati Uniti chiedono un approccio alla regolamentazione digitale più simile a quello dell’UE. Ma la concorrenza con la Cina potrebbe portare a una «corsa al ribasso nella regolamentazione»?
Gli Stati Uniti si trovano in una situazione unica. Da un lato, cresce l’insoddisfazione per il suo approccio alla regolamentazione basato sul mercato. Dall’altro, l’intensa competizione con altre superpotenze limita la capacità di attuare cambiamenti sostanziali. In altre parole, la battaglia orizzontale tra i diversi governi e quella verticale tra governi e aziende tecnologiche sono profondamente intrecciate. Il governo statunitense è riluttante a regolamentare in modo troppo aggressivo le proprie aziende tecnologiche per timore di soffocare la loro capacità di innovazione, poiché tale strategia potrebbe a sua volta indebolire gli Stati Uniti nella rivalità orizzontale con la Cina per la supremazia tecnologica. La questione cruciale che l’amministrazione statunitense deve affrontare è quindi come conciliare la necessità di una riforma normativa con il mantenimento della leadership tecnologica e della competitività nel panorama globale.
E la Cina? Spesso si tende a pensare che sia una questione di controllo statale. Ma lei fornisce una visione più sfumata, dimostrando che c’è molto spazio per l’innovazione e, cosa più sorprendente, che esiste una regolamentazione basata sui diritti, come quella dell’UE, che enfatizza le «responsabilità condivise».
È importante offrire una visione sfumata della Cina, sottolineando che nessun modello è assoluto. I modelli americano ed europeo presentano elementi dirigisti, mentre il modello cinese presenta aspetti orientati al mercato, con il settore tecnologico cinese che beneficia in modo significativo del venture capital americano, non solo delle sovvenzioni statali.
È vero che il controllo politico è al centro del modello di regolamentazione statale cinese. In nome della stabilità sociale, il governo impiega tecnologie che gli consentono di esercitare una sorveglianza capillare sui cittadini e di censurare le informazioni a cui possono accedere online, utilizzando Internet come strumento di propaganda. Per attuare un regime di censura su larga scala, il governo cinese ha bisogno dell’aiuto delle sue aziende tecnologiche, utilizzando sia ricompense che la minaccia di sanzioni per assicurarsi la loro collaborazione. Questi sono gli aspetti chiave di quello che io chiamo il modello autoritario digitale, che si discosta radicalmente dal modello americano basato sul mercato e da quello europeo basato sui diritti.
Tuttavia, la governance digitale cinese non si limita all’oppressione e alla sorveglianza. Il governo cinese ha cercato di facilitare la crescita dell’industria tecnologica del Paese. Oltre ad astenersi dal regolamentare l’industria tecnologica con misure restrittive, ha anche attuato una politica industriale proattiva. Ha fornito generosi sussidi statali e adottato altre misure di politica industriale per accelerare lo sviluppo tecnologico del Paese e garantire che la Cina diventasse autosufficiente in tutte le tecnologie chiave. Ad esempio, nel 2015 il governo cinese ha lanciato un piano decennale noto come programma «Made in China 2025», che consente alle imprese statali cinesi di investire in tecnologie strategicamente importanti, fornendo al contempo generosi sussidi statali alle aziende nazionali e incoraggiando la negoziazione di accordi di trasferimento tecnologico con le aziende che operano in Cina. Questo programma è stato pesantemente criticato all’estero per i suoi obiettivi ed effetti protezionistici, inducendo il governo ad abbandonare ogni riferimento esplicito ad esso, pur continuando a perseguirne gli obiettivi nella pratica.
Anche il governo cinese prende sul serio la protezione dei consumatori e non vede di buon occhio che le aziende sfruttino i dati dei clienti. Se da un lato consente allo Stato di utilizzare questi dati, dall’altro pone delle restrizioni su ciò che le aziende possono fare con essi. Questo approccio è evidente in settori quali il diritto della concorrenza e la privacy dei dati, dove vi è una chiara posizione contro lo sfruttamento dei diritti dei consumatori. Da questo punto di vista, vi sono analogie con l’UE, in particolare per quanto riguarda la legge cinese sulla protezione dei dati. Tuttavia, sebbene sia modellata sul GDPR, quest’ultimo prevede eccezioni per la sorveglianza statale.
Dalla fine del 2020, il modello normativo cinese si è orientato verso un maggiore controllo statale sull’industria tecnologica del Paese, suggerendo che il governo cinese sta rivalutando in modo sostanziale l’accordo inizialmente stipulato con le sue aziende tecnologiche. In primo luogo, ha emanato nuove e severe linee guida antimonopolio, che hanno messo in agitazione i mercati globali. Pechino ha anche pubblicato nuove regole che limitano la raccolta di informazioni personali da parte delle applicazioni mobili. Poi, le autorità di regolamentazione hanno presentato regole sul marketing online dal vivo, che ora è una tendenza importante nell’e-commerce cinese. Infine, il legislatore cinese ha pubblicato una legge monumentale sulla sicurezza dei dati, che stabilisce requisiti rigorosi per vaste categorie di dati, limitandone il trasferimento transfrontaliero. Nel 2021 l’attività normativa è stata vertiginosa e ha riguardato in particolare fintech, e-commerce, istruzione privata, giochi online e intrattenimento. In parte, questo nuovo controllo normativo riflette la crescente attenzione di Pechino per la ridistribuzione della ricchezza e la pressante necessità di ricercare una «prosperità comune» di fronte alle divisioni sociali e alle disuguaglianze presenti nella società cinese. Il governo sta anche rispondendo all’indignazione dell’opinione pubblica per le pratiche commerciali delle principali aziende tecnologiche. Il governo cinese vuole anche ristabilire il controllo su un’industria che è cresciuta così tanto da minacciare il potere e l’influenza dello Stato e concentrare l’industria tecnologica su settori strategicamente più rilevanti, in grado di sostenere la crescita economica a lungo termine del Paese.
Passiamo ora all’Unione. Come si traduce nella pratica un approccio basato sui diritti ?
Il modello europeo ritiene che i governi abbiano un ruolo centrale nel guidare l’economia digitale e nell’utilizzare l’intervento normativo per sostenere i diritti fondamentali degli individui, preservare le strutture democratiche della società e garantire un’equa distribuzione dei benefici nell’economia digitale. Questa posizione favorevole alla regolamentazione non si limita al settore tecnologico, ma riflette una visione più ampia del funzionamento dei mercati e del ruolo ottimale delle autorità pubbliche, in linea con il fondamento costituzionale basato sui valori dell’integrazione europea.
Il diritto alla privacy, codificato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ne è un buon esempio. Il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), che stabilisce una protezione dettagliata della privacy, è diventato un «gold standard» globale. Anche il sistema giudiziario dell’UE ha svolto un ruolo fondamentale nell’estendere la portata dei diritti di protezione dei dati personali dei cittadini europei in una serie di sentenze fondamentali in materia di privacy, tra cui il caso Google Spain, meglio noto come «diritto all’oblio».
Un altro esempio è la moderazione dei contenuti online. Fino a poco tempo fa, l’UE si affidava a una regolamentazione volontaria, ad esempio attraverso il codice di condotta non vincolante del 2016 sulla lotta contro i discorsi illegali di incitamento all’odio online, firmato con diversi giganti della tecnologia. Per quanto riguarda la propaganda terroristica, nel 2021 l’UE ha adottato un regolamento vincolante sulla prevenzione della diffusione di contenuti terroristici online, che mira a trovare un equilibrio tra i diritti fondamentali di tutte le parti interessate. L’UE è inoltre determinata a limitare la diffusione della disinformazione online, visti i suoi effetti nocivi sulla democrazia. La Commissione ha elaborato un codice di disinformazione non vincolante che, nell’aggiornamento del 2022, è stato sottoscritto dalle principali piattaforme online. I firmatari si impegnano volontariamente ad adottare misure quali l’aumento della trasparenza nella pubblicità politica, la chiusura di account falsi, la facilitazione del fact-checking, la demonetizzazione della diffusione della disinformazione e la concessione ai ricercatori dell’accesso ai dati per facilitare la ricerca sulla disinformazione. A integrazione di questi codici e regolamenti esistenti, nel 2022 l’UE ha adottato il Digital Services Act (DSA), che stabilisce un regime completo e giuridicamente vincolante di trasparenza e responsabilità per le piattaforme online di grandi dimensioni in relazione ai contenuti che ospitano.
L’altro importante strumento politico dell’UE è il diritto della concorrenza. Sebbene questo strumento sia tradizionalmente utilizzato per promuovere l’efficienza del mercato piuttosto che l’equità, la commissaria Margrethe Vestager ritiene che la politica di concorrenza possa contribuire a creare un campo di gioco più equo in cui anche i piccoli rivali possano tenere testa ai potenti operatori storici. Alcune recenti decisioni della Commissione, come il caso Google Shopping nel 2017, illustrano come questo concetto di equità informi l’azione antitrust dell’UE nella pratica, riflettendo e rafforzando un modello normativo basato sui diritti. Ma c’è anche un crescente consenso sul fatto che lo strumentario di applicazione dell’Unione, che si basa sull’applicazione ex post del diritto della concorrenza, sia insufficiente. Queste indagini richiedono molto tempo e spesso non riescono a sbloccare la concorrenza. I piccoli rivali non possono sopravvivere sul mercato per il decennio necessario alla Commissione per raccogliere prove e costruire un caso contro un’azienda dominante. In parte in risposta a queste preoccupazioni, l’UE ha adottato nuove regole di concorrenza ex ante nel 2022: il Digital Markets Act (DMA). Nel descrivere gli obiettivi della legislazione, la Commissione sottolinea che «la proposta di DMA affronta gli squilibri economici, le pratiche commerciali sleali dei gatekeeper e le loro conseguenze negative, come l’indebolimento della contendibilità dei mercati delle piattaforme».
Una critica comune all’approccio normativo dell’UE, almeno negli Stati Uniti, è che ostacola l’innovazione e la crescita economica, in particolare perché la regolamentazione non riesce a tenere il passo con la crescente innovazione tecnologica. Ad esempio, mentre il pacchetto normativo dell’UE veniva discusso nel 2022, abbiamo assistito al boom dell’IA generativa. Eppure lei sostiene che questa critica è infondata.
In effetti, il modello europeo è spesso criticato per l’eccesso di regolamentazione, che potrebbe uccidere l’innovazione e soffocare il progresso economico. Secondo questo punto di vista, se da un lato l’Unione è in grado di salvaguardare meglio i diritti fondamentali degli individui e le strutture democratiche della società, dall’altro il suo approccio normativo priverà le società di opportunità economiche. Questa preoccupazione deriva dalla convinzione diffusa che esista un inevitabile compromesso tra regolamentazione e innovazione. Tuttavia, se è vero che l’UE ha avuto meno successo nel produrre aziende tecnologiche di punta, come vedremo in seguito, ci sono altre ragioni oltre alla regolamentazione a spiegare principalmente questo fatto.
È vero che l’Europa non riesce a fare molto quando si tratta di incoraggiare l’innovazione. Uno dei principali ostacoli che le aziende tecnologiche dell’UE devono affrontare è che non beneficiano di un mercato unico digitale pienamente integrato che consenta loro di operare senza soluzione di continuità in tutta Europa. Questo spiega in parte perché le aziende tecnologiche europee hanno avuto difficoltà a stabilire una presenza sul mercato paragonabile a quella dei loro rivali americani e cinesi. Un altro ostacolo importante è la mancanza di mercati dei capitali profondi e integrati che permettano alle aziende europee di finanziare le loro innovazioni in Europa. Invece, le aziende dell’UE devono spesso fare affidamento sui mercati dei capitali statunitensi per trovare opportunità di crescita. L’assenza di giganti tecnologici europei si spiega anche con le barriere legali e culturali all’assunzione di rischi e all’imprenditorialità in Europa. Le leggi punitive sulla bancarotta nell’UE hanno reso il fallimento così costoso che gli imprenditori europei sono spesso riluttanti ad assumersi il tipo di rischio necessario per fondare ambiziose aziende tecnologiche.
Infine, il deficit di innovazione dell’Europa può essere in parte attribuito all’incapacità dell’UE di attrarre i migliori talenti innovativi del mondo attraverso una politica di immigrazione proattiva. Le università sono un punto di ingresso fondamentale per i talenti immigrati, che spesso portano all’integrazione dei laureati nel mercato del lavoro, come avviene negli Stati Uniti. Tuttavia, stanno emergendo nuove preoccupazioni, come la legislazione olandese attualmente in preparazione, che potrebbe impedire agli studenti cinesi di studiare nelle università europee. Tali restrizioni generalizzate potrebbero ostacolare un flusso vitale di talenti umani. L’Europa non deve solo incoraggiare l’arrivo di un maggior numero di studenti stranieri, ma anche fornire loro percorsi chiari per la residenza e facilitare la loro integrazione nei mercati del lavoro e nelle reti professionali. Inoltre, è essenziale che l’Europa sia percepita come un luogo in cui gli imprenditori in erba possono avere successo. Ciò significa creare un mercato unico digitale coerente, garantire finanziamenti accessibili e fornire un’equa compensazione per l’innovazione. Negli Stati Uniti, gli innovatori trovano spesso un ambiente più favorevole, con università che li sostengono, una vivace scena di venture capital e meno restrizioni per trarre profitto dalle loro innovazioni. Per rendere l’Europa un luogo più attraente per la creazione e lo sviluppo di un’azienda tecnologica è essenziale incoraggiare l’apertura delle università e del mercato del lavoro e migliorare l’ecosistema delle start-up nel suo complesso. In questo modo, l’Europa può diventare una destinazione più attraente per i talenti globali che guidano il progresso tecnologico.
Tutto ciò suggerisce che il problema dell’innovazione in Europa non sta nella scelta di regolamentare l’industria tecnologica in nome della salvaguardia dei diritti individuali e delle libertà sociali. Questa osservazione dovrebbe anche dissipare le preoccupazioni dei politici statunitensi e di altre parti interessate circa le conseguenze attese dall’adozione di normative digitali di tipo europeo.
L’UE è stata criticata anche per i suoi sforzi di stabilire salvaguardie per l’IA. I critici temono che si stia muovendo troppo in fretta sulla regolamentazione quando non c’è nemmeno una comprensione sufficiente di come si evolverà l’IA. È innegabilmente difficile regolamentare tecnologie in rapida evoluzione come l’IA, ma questo dovrebbe tradursi in inazione. Sebbene possa esserci la tentazione di adottare un approccio attendista, in particolare con le tecnologie emergenti come l’IA, questo approccio ha un prezzo. Ritardare la regolamentazione può rafforzare la posizione degli attuali leader di mercato, rendendo ancora più difficile una regolamentazione efficace in futuro. Il potere di questi early adopter è già una sfida e la loro crescente influenza non fa che aumentare l’urgenza della regolamentazione. Nonostante le difficoltà, è necessario regolamentare rapidamente, anche se non abbiamo una conoscenza completa delle tecnologie in rapida evoluzione. Il costo dell’attesa è troppo alto e una regolamentazione proattiva è essenziale.
Qui entra in gioco il concetto di regolamentazione «a prova di futuro». È importante sviluppare quadri agili in grado di adattarsi ai cambiamenti tecnologici. Ciò potrebbe comportare l’attribuzione di una maggiore autorità a organismi come la Commissione europea per interpretare e adeguare i regolamenti in base all’evoluzione della tecnologia.
Quando parla dell’approccio normativo dell’UE, sembra che si riferisca principalmente ai responsabili politici di Bruxelles. Ma tutti gli Stati membri sono d’accordo con la stessa politica, o alcuni di loro sono più trainanti di altri?
Non esiste una posizione uniforme tra tutti gli Stati membri dell’UE quando si tratta di definire i dettagli delle politiche digitali. Sebbene l’impegno di base per i diritti fondamentali sia condiviso, esistono delle sfumature. Ad esempio, la Francia, viste le sue recenti esperienze con il terrorismo, è più incline alle eccezioni per la sicurezza nazionale rispetto alla Germania, che tende ad avere un approccio assolutista sulla privacy dei dati e ai diritti fondamentali.
Allo stesso modo, la Francia favorisce una politica industriale più protezionistica, sostenendo la sovranità tecnologica. Questa posizione contrasta con quella dei Paesi nordici, che sottolineano i vantaggi dell’apertura economica globale, in particolare per le loro economie orientate all’esportazione. Queste tensioni interne si riflettono nel modello europeo e talvolta ne mettono in discussione la coerenza e la legittimità. Negli ultimi anni, ad esempio, Polonia e l’Ungheria hanno compromesso gli impegni dell’Unione in materia di diritti e democrazia, minando la credibilità del blocco nel suo complesso nel difendere questi principi sulla scena mondiale.
Tuttavia, queste differenze tra gli Stati membri possono talvolta portare a una regolamentazione più equilibrata. Poiché la legislazione europea deve tenere conto dei diversi punti di vista all’interno dell’Unione, spesso rappresenta un compromesso che la rende più adattabile come modello per le diverse giurisdizioni. Questa necessità intrinseca di compromesso a Bruxelles è, in un certo senso, un punto di forza del processo legislativo dell’UE.
In questa dinamica negoziale manca ora una voce importante: quella del Regno Unito. La Brexit ha cambiato l’approccio dell’UE alla regolamentazione dell’economia digitale?
Il Regno Unito è sempre stato un campione degli approcci basati sul mercato all’interno dell’UE. Tuttavia, è interessante notare che dopo la Brexit non si è allontanato molto dall’approccio dell’UE e ha implementato regolamenti rigorosi nell’economia digitale. Il suo Online Security Bill, ad esempio, è per certi versi più severo del DSA dell’UE. Il Regno Unito ha anche assunto una posizione forte sul diritto della concorrenza, come dimostra la sua iniziale opposizione (e successiva approvazione) all’acquisizione di Activision da parte di Microsoft. Preparando una legislazione simile alla DMA dell’UE, il Regno Unito dimostra di non voler utilizzare la propria indipendenza normativa per smantellare la regolamentazione basata sui diritti. Il Regno Unito sembra navigare su una rotta intermedia, tra il modello americano e quello europeo, e sembra meno incline a una legislazione altamente prescrittiva. Nel complesso, ritengo che il modello del Regno Unito sia principalmente basato sui diritti, anche se incorpora alcuni aspetti basati sul mercato.
Ma la Brexit ha certamente alterato l’equilibrio del dibattito sulla politica digitale all’interno dell’Unione. In assenza della voce del Regno Unito, la prospettiva franco-tedesca sulla politica industriale ha più spazio per dominare. La coalizione dei Paesi nordici, a favore del libero commercio e tecnologicamente innovativa, sta cercando di controbilanciare queste voci più protezionistiche. Tuttavia, senza il peso economico del Regno Unito, questi Paesi nordici sono meno influenti. La Francia, da parte sua, è riuscita a incoraggiare l’UE ad adottare una strategia che ricorda il modello statale cinese, impegnandosi in gare di sussidi, controlli sulle esportazioni e restrizioni agli investimenti.
L’UE sembra quindi voler sviluppare una politica industriale per l’economia digitale. Ritiene che questo approccio sia adeguato per raggiungere l’obiettivo di promuovere lo sviluppo del settore tecnologico in Europa?
Comprendo la necessità di una maggiore sovranità tecnologica in risposta a complesse sfide geopolitiche, ma dubito che l’Europa possa raggiungere questa sovranità solo attraverso i sussidi. Spendere miliardi per ridurre leggermente la dipendenza dai semiconduttori stranieri sembra insostenibile. Sostengo invece un approccio creativo alla sovranità, incentrato sul rafforzamento delle capacità tecnologiche europee. Ciò potrebbe includere il completamento del Mercato unico digitale e dell’Unione dei mercati dei capitali, consentendo alle aziende tecnologiche di svilupparsi e finanziarsi all’interno dell’Unione. Dovremmo anche riconsiderare le leggi sul fallimento eccessivamente punitive che inibiscono l’assunzione di rischi e sviluppare una strategia globale per il talento per attrarre nell’UE i talenti globali. A mio avviso, questa strategia è molto più vitale ed efficace del ricorso a una costosa politica industriale e a un protezionismo dannoso.
Gli europei non devono dimenticare che Bruxelles ha il potere di esportare regolamenti che sono sia benefici che dannosi. L’effetto Bruxelles è uno strumento potente che potrebbe rendere il protezionismo una norma globale. Ecco perché invito alla cautela di fronte a regolamenti protezionistici che hanno il potenziale di minare, e non di aumentare, la competitività dell’industria europea.
Un altro aspetto interessante che lei sottolinea nel suo libro è che i tre «imperi digitali» tendono a esportare i loro modelli all’estero. Lei ha già detto che il modello americano guidato dal mercato sta perdendo popolarità sia negli Stati Uniti che all’estero. La Cina sta facendo meglio?
L’approccio della Cina all’esportazione del suo modello digitale è in gran parte incentrato sulle infrastrutture. Si tratta di costruire gli elementi chiave delle società digitali in varie regioni, tra cui Asia, Africa, America Latina e parte dell’Europa. Le infrastrutture comprendono le reti 5G, i cavi sottomarini, i centri dati e le tecnologie per le città intelligenti, compresi i sistemi di sorveglianza, nell’ambito dell’iniziativa Digital Silk Road.
Costruendo questa spina dorsale digitale, la Cina non solo pone le basi per un futuro sviluppo tecnologico compatibile con le sue tecnologie, ma garantisce anche ai fornitori cinesi future opportunità di mantenere ed espandere questa infrastruttura. Questa strategia rafforza notevolmente la presenza e l’influenza delle aziende cinesi in queste regioni.
La potenza dell’infrastruttura digitale cinese è particolarmente efficace perché risponde a un bisogno vitale di sviluppo digitale in queste regioni. L’economicità e la disponibilità dell’infrastruttura cinese ne fanno una scelta pragmatica per molti Paesi, soprattutto laddove le soluzioni offerte dalle aziende europee potrebbero essere più costose e quindi meno accessibili. In questo modo, la Cina sta abilmente estendendo la propria sfera di influenza e plasmando il percorso dello sviluppo digitale in varie parti del mondo.
Di conseguenza, il modello cinese a guida statale sembra guadagnare terreno in altre giurisdizioni, come lei dimostra nel suo libro. In che misura questa espansione è dovuta all’influenza cinese, piuttosto che a una politica pragmatica da parte dei governi che riconoscono di non poter promuovere da soli un’economia digitale competitiva, ma di poter sfruttare le tecnologie digitali per consolidare il proprio potere?
Il mondo tende sempre più all’autoritarismo, con un numero crescente di governi che cercano di esercitare un maggiore controllo sulle proprie società. In questo contesto, l’approccio dello Stato cinese funge spesso da modello che trova forte eco per ragioni ideologiche e politiche. Il suo esempio ha dimostrato che l’ipotesi che la libertà sia in qualche modo una proprietà intrinseca di Internet era sbagliata. La Cina ha anche dimostrato come le politiche restrittive possano coesistere con una cultura dinamica dell’innovazione. Contrariamente a un’opinione diffusa nelle democrazie, un modello normativo autoritario guidato dallo Stato può chiaramente sostenere una cultura dinamica dell’imprenditorialità privata che può alimentare il progresso tecnologico e la crescita economica. Sono queste caratteristiche evidenti che rendono difficile per l’Occidente sostenere la retorica secondo cui la libertà è necessaria per l’innovazione e la ricchezza, rendendo il modello cinese attraente per i Paesi che cercano la crescita economica insieme al controllo politico.
Le ragioni per emulare il modello cinese variano. Per alcuni governi si tratta di un allineamento ideologico con l’autoritarismo, mentre per altri è una decisione pragmatica basata sulle priorità, le esigenze e le sfide dello sviluppo. I Paesi in via di sviluppo che necessitano di un percorso di sviluppo digitale spesso danno priorità alle esigenze economiche immediate rispetto a preoccupazioni secondarie come la sorveglianza. In questi contesti, la privacy può essere vista come un lusso, mentre i cittadini si concentrano maggiormente sulle necessità di base e sulla sicurezza fisica.
In una precedente conversazione sull’«effetto Bruxelles», lei ha concluso riconoscendo la natura evolutiva della dinamica alla base dell’influenza del modello normativo dell’Unione europea à all’estero, soprattutto alla luce della relativa contrazione del mercato europeo. Alla luce dei recenti cambiamenti geopolitici ed economici, sta assistendo a un’erosione dell’«effetto Bruxelles» nel settore digitale? Oppure ci sono nuove dinamiche che ne ridefiniscono l’influenza e la portata?
Non vedo necessariamente l’erosione dell’effetto Bruxelles nel settore digitale. L’Unione è stata in grado di estendere la sua influenza sui mercati globali utilizzando il suo vasto potere normativo per plasmare le politiche sulla privacy dei dati delle aziende tecnologiche e dei governi stranieri. Mentre gli Stati Uniti esportano il loro potere privato e la Cina il suo potere infrastrutturale, la principale esportazione dell’UE nella sfera digitale è, senza dubbio, il suo potere normativo – una forma di potere a cui non possono sfuggire né le aziende tecnologiche straniere né altri governi, compresi gli Stati Uniti e la Cina. Questo potere normativo esternalizza il modello normativo europeo basato sui diritti in tutto il mondo, consentendo all’UE di svolgere un ruolo di primo piano, insieme a Stati Uniti e Cina, nel plasmare l’economia digitale globale.
Nonostante le recenti difficoltà, l’Europa ha continuato a introdurre importanti normative digitali, come la DSA, la DMA e, si spera, presto anche l’AI Act, nonché leggi legate al cambiamento climatico come il Green Deal. Queste iniziative dovrebbero continuare ad avere un’influenza globale. Ad esempio, il maggiore accesso da parte delle autorità e dei ricercatori alle informazioni sui modelli di business e sugli algoritmi delle piattaforme ai sensi della DMA farà luce sulle pratiche globali di queste piattaforme, poiché queste aziende non sviluppano e distribuiscono algoritmi separati per l’Europa. I risultati di queste indagini saranno resi pubblici in tutto il mondo, il che aumenterà la trasparenza e la responsabilità anche in altri mercati. Inoltre, nella misura in cui la DSA riuscirà a costringere le grandi piattaforme a prepararsi meglio ai rischi sistemici, come le interferenze elettorali, questi investimenti aggiuntivi in misure di mitigazione del rischio influiranno probabilmente sulle strategie di gestione del rischio globale di queste società. La DSA potrebbe inoltre fungere da modello per altri governi per l’introduzione di normative in questo settore, determinando un effetto de iure di Bruxelles e sottolineando la capacità dell’UE di influenzare la legislazione estera in questo ambito. I regolamenti dell’UE per combattere la disinformazione e l’incitamento all’odio hanno già ispirato i legislatori stranieri a intraprendere riforme legislative.
L’UE sta inoltre aprendo la strada a una migliore applicazione del diritto della concorrenza nell’economia digitale su scala globale. Ad esempio, le molteplici indagini condotte dall’UE su Google a partire dal 2010 sono state oggetto di attenzione a livello mondiale e diverse giurisdizioni hanno avviato procedimenti molto simili contro Google, tra cui Russia, Brasile, Turchia, Corea del Sud e Giappone. Nell’estate del 2021, Apple, Amazon, Google e Meta erano oggetto di oltre settanta indagini antitrust in tutto il mondo. È interessante notare che più di cinquanta di queste denunce sono state presentate negli ultimi due anni, il che indica un recente e crescente slancio su scala globale. Man mano che i Paesi si allontanano dal modello americano basato sul mercato, adottano, o addirittura imitano direttamente, il modello europeo basato sui diritti. Anche l’UE è all’avanguardia nel tentativo dei governi di rafforzare i propri strumenti normativi per contenere meglio il potere di mercato delle grandi aziende tecnologiche e i comportamenti dannosi associati a tale potere. L’innovativo DMA dell’UE, adottato nel 2022, è seguito da vicino in tutto il mondo e diversi governi stanno introducendo o prendendo in considerazione normative simili.
Nel complesso, si è assistito a un notevole spostamento verso un approccio europeo alla regolamentazione dell’economia digitale, in particolare con l’affievolirsi dell’attrattiva del modello statunitense guidato dal mercato.
Ma mi preoccupa il modo in cui l’Europa sta usando questo potere normativo globale. C’è una tendenza al protezionismo, da cui vorrei mettere in guardia. Ad esempio, se l’Europa inizia a utilizzare la politica di concorrenza come strumento di politica industriale per promuovere i campioni europei, come suggerito nel Manifesto franco-tedesco per una politica industriale europea, potrebbe inavvertitamente diventare un grande esportatore di tecno-protezionismo. Questo potrebbe avere conseguenze inaspettate: anche le economie emergenti potrebbero preferire i propri campioni nazionali ai potenziali acquirenti europei.
La natura dell’impatto dell’ «effetto Bruxelles» sugli standard globali potrebbe cambiare se l’Europa non considera attentamente le implicazioni del suo potere normativo: dovrebbe prestare attenzione a come le sue politiche vengono percepite e riprodotte a livello globale.
L’ «effetto Bruxelles» sembra quindi più forte che mai per la regolamentazione dell’economia digitale. Eppure, come lei sottolinea, molti Paesi sono preoccupati non tanto dalla tutela della privacy e di altri diritti fondamentali, quanto dalle opportunità economiche offerte da altri «imperi digitali», in particolare dalla Cina. L’UE sembra talvolta cercare di offrire un sostituto agli investimenti cinesi nelle infrastrutture, attraverso progetti come la Global Gateway Initiative. Pensa che questi tentativi avranno successo?
L’UE si trova di fronte a una sfida unica nell’esportare il proprio modello normativo: è all’avanguardia nella regolamentazione sofisticata e a tutela dei diritti, mentre molti Paesi semplicemente non dispongono di infrastrutture di base e danno priorità al loro ottenimento. Il problema principale dell’iniziativa Global Gateway è che l’UE non ha la stessa leva finanziaria della Cina. Per essere competitiva, l’UE dovrebbe offrire ai Paesi beneficiari investimenti sostanziali e condizioni di finanziamento interessanti, che attualmente non sono alla pari con quelle offerte dalla Cina, soprattutto se si considera che gli investimenti concessi dalla Cina sono soggetti a minori vincoli normativi.
L’UE ha bisogno di una diplomazia economica europea coerente, che attualmente manca. Ad esempio, quando aziende europee come Nokia ed Ericsson propongono ad altri Paesi alternative alle reti 5G di Huawei, contano sul sostegno dei rispettivi governi nazionali, Finlandia e Svezia, che non sono in grado di eguagliare il livello di finanziamento o di sostegno politico fornito dal governo cinese alle proprie aziende. I governi europei devono coordinarsi per unificare gli sforzi a livello europeo, non solo in termini di finanziamenti, ma anche di impegno diplomatico. Ciò significa costruire relazioni con questi Paesi ed essere chiari sulle implicazioni della scelta delle infrastrutture cinesi rispetto a quelle europee. L’UE dovrebbe anche riconoscere la necessità di costruire capacità e fornire assistenza economica diretta ai Paesi terzi come parte della sua strategia digitale. Per convincere questi Paesi non basta fare appello alle idee e ai valori europei. Servono anche incentivi finanziari tangibili e una diplomazia abile.
Le attuali tensioni politiche, economiche e geopolitiche influenzano l’attrattiva dei diversi modelli normativi in competizione. Lei ha già menzionato il nuovo zelo per la politica industriale all’interno dell’UE, che riflette in parte le preoccupazioni geopolitiche. Vede una tendenza più generale all’isolazionismo a livello globale?
L’attuale contesto politico offre terreno fertile per una sorta di tecno-protezionismo o nazionalismo digitale. Anche prima dell’inizio della pandemia di Covid-19, il nazionalismo economico stava guadagnando terreno, minando le istituzioni che sostengono i mercati aperti e la cooperazione internazionale basata sulle regole. Oggi, i governi di tutto il mondo scambiano sempre più spesso l’apertura economica con una politica industriale dalle forti sfumature nazionaliste. Limitano gli investimenti esteri, limitano le esportazioni e sovvenzionano la produzione interna come parte di un più ampio cambiamento strutturale dell’economia. L’emergere della pandemia COVID-19, e ora i conflitti militari in Ucraina e Israele-Palestina, rafforzano ulteriormente queste tendenze. Il risultato è una parziale frammentazione dell’economia digitale, con flussi limitati di dati, tecnologia e investimenti, che dà origine a una ricerca globale di sovranità tecnologica.
Vorrei però sottolineare che la totale autosufficienza tecnologica è un obiettivo difficile da raggiungere per la maggior parte dei Paesi, comprese grandi potenze tecnologiche come gli Stati Uniti e la Cina, dato il grado di integrazione dell’economia digitale odierna. Ciò è particolarmente vero in settori come quello dei semiconduttori, dove gli ecosistemi sono profondamente integrati e i costi di replica sono proibitivi. Di conseguenza, il decoupling totale in settori come le catene di fornitura dei semiconduttori è altamente improbabile. I Paesi sono quindi costretti a mantenere un livello di coesistenza, nonostante le pressioni per il decoupling.
Nel mio libro, spiego che la dinamica attuale pone i Paesi «tra rivalità e moderazione». Questa situazione riassume la continua tensione tra l’escalation delle pressioni e la necessità di una riduzione delle stesse. C’è un equilibrio costante tra gli interessi commerciali che incoraggiano un ulteriore impegno economico e le preoccupazioni per la sicurezza nazionale che impongono limiti a tale impegno. Finora non abbiamo assistito a un’escalation totale o a una tregua duratura, ma ci troviamo a navigare costantemente tra questi interessi complessi e spesso contrastanti.
Date queste interdipendenze, in un mondo ideale la regolamentazione dell’economia digitale sarebbe una questione di governance plurale su scala internazionale. Come si posizionano i tre «imperi digitali» nel più ampio dibattito sulla governance internazionale in campo digitale?
Gli Stati Uniti, e in parte l’Europa, hanno tradizionalmente favorito un approccio plurale, con diversi stakeholder, alla governance dell’economia digitale. Questo modello valorizza la partecipazione di governi ed enti privati, come le aziende tecnologiche, alla definizione di standard e quadri di governance. Si basa sulla convinzione che le regole sviluppate attraverso la collaborazione tra pubblico e privato siano più efficaci.
Tuttavia, la Cina non è molto a suo agio con questo modello, che ritiene dia un potere eccessivo alle aziende europee e americane. La Cina ha chiesto di spostare queste discussioni in istituzioni come le Nazioni Unite, dove gli Stati sono gli attori principali e dove la Cina può esercitare un’influenza sui Paesi in via di sviluppo. Nonostante gli sforzi, le Nazioni Unite non sono diventate il centro nevralgico di queste discussioni, il che ha portato la Cina a partecipare maggiormente alle organizzazioni multi-stakeholder e agli organismi di standardizzazione.
Tuttavia, alcuni sforzi sono in corso, come nel campo dell’intelligenza artificiale, dove le Nazioni Unite stanno cercando di creare dei quadri di governance. Sebbene lo status di forum multinazionale delle Nazioni Unite sia vantaggioso, la sua credibilità è stata danneggiata dalle disfunzioni del Consiglio di sicurezza e dall’attuale mancanza di fiducia tra i principali attori globali. In generale, la partecipazione di democrazie tecnologicamente avanzate come Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, Corea del Sud e Giappone può portare a un maggiore consenso tra gli alleati che la pensano allo stesso modo. Tuttavia, escludere un attore importante come la Cina significa escludere una parte significativa dello sviluppo di qualsiasi modello di governance. Gli accordi basati sulle Nazioni Unite tendono a essere più inclusivi, ma spesso si traducono in accordi più superficiali a causa della diversità di interessi e ideologie dei Paesi membri.
In questo ambito, è essenziale gestire le nostre aspettative. Un approccio pratico potrebbe essere la creazione di un organismo globale di esperti indipendenti, simile al Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, che si concentri sulla regolamentazione dell’IA. Tale organismo potrebbe far progredire le conoscenze scientifiche e favorire una migliore governance tra le nazioni, il che sembra più realizzabile rispetto alla negoziazione di un trattato dettagliato nell’ambito delle Nazioni Unite.
Se la cooperazione internazionale non è sempre possibile, e data l’evoluzione dei fattori tecnologici, economici e geopolitici, pensa che i principali modelli normativi convergeranno o divergeranno ulteriormente?
Il recente ordine esecutivo del Presidente Biden sulla sicurezza dell’IA è un chiaro esempio di come gli Stati Uniti si stiano muovendo verso un approccio europeo alla governance digitale. Il testo dimostra un forte impegno a proteggere i diritti e a mitigare gli effetti dannosi dell’IA. Tuttavia, la capacità legislativa degli Stati Uniti è limitata a causa di un Congresso diviso e polarizzato, rendendo gli ordini esecutivi un’opzione più praticabile per i regolamenti.
L’approccio degli Stati Uniti, riflesso nell’Ordine esecutivo, sembra favorire una regolamentazione specifica del settore. L’obiettivo è dare alle varie agenzie, nel loro settore, il potere di applicare la legislazione esistente, estendendone l’applicazione all’IA. Ciò differisce dalla legislazione europea, che ha un approccio orizzontale ed è quindi vincolante per un ampio spettro economico. Gran parte del decreto americano include le migliori pratiche e rimane volontario per le aziende, il che lo rende meno restrittivo, ma rimane indicativo del cambiamento delle priorità e delle aspettative negli Stati Uniti.
Gli obiettivi degli Stati Uniti e dell’Unione europea sono sempre più allineati e ciò può essere favorito da un dialogo istituzionalizzato, come quello che si svolge nell’ambito del Consiglio UE-USA per il commercio e la tecnologia. Questa cooperazione è vantaggiosa per entrambe le parti. Tuttavia, c’è incertezza sulla prossima amministrazione statunitense e su come potrebbe influenzare l’attuale traiettoria della cooperazione transatlantica in materia normativa . La presidenza Trump ha ricordato agli europei la vulnerabilità di queste relazioni rispetto ai cicli elettorali statunitensi e c’è una preoccupazione di fondo sulla sostenibilità di questo approccio collaborativo dopo le prossime elezioni presidenziali.
Lei ha un suo punto di vista su come dovrebbe essere combattuta la «battaglia per l’anima dell’economia digitale», chiedendo un approccio più inclusivo e democratico alla governance digitale e un nuovo ordine costituzionale digitale. Quali sono gli elementi chiave dell’approccio che volete adottare per la regolamentazione dell’economia digitale? E quali sono i passi concreti da compiere per raggiungere questo obiettivo?
Il nostro compito principale è ora quello di dimostrare che la democrazia liberale può governare efficacemente l’economia digitale. Questo è essenziale, perché l’alternativa è la governance da parte di regimi autoritari o di aziende tecnologiche non regolamentate. Nel panorama attuale, gli Stati Uniti sono alle prese con la legislazione, l’Europa ha problemi di attuazione e la Cina applica la legge in modo autoritario. Questo scenario rischia di far sembrare vuota la vittoria del modello europeo, se nella pratica prevarrà il modello guidato dal mercato e le aziende tecnologiche rimarranno non regolamentate.
Nonostante queste sfide, vorrei sottolineare che i governi non sono destinati a perdere le loro battaglie verticali contro le aziende tecnologiche e che le tecno-democrazie non sono destinate a fallire nella loro battaglia orizzontale contro le tecno-autocrazie. Ma i governi, in particolare negli Stati Uniti, devono reclamare e impiegare efficacemente la loro autorità normativa. Hanno il potere di riscrivere le leggi che regolano le aziende tecnologiche, ma questo richiede volontà politica.
Allo stesso modo, l’Europa deve dimostrare di essere in grado di applicare efficacemente le proprie normative. L’UE ha ripetutamente riconosciuto che i suoi risultati in termini di applicazione lasciano molto a desiderare e sa che deve trovare un modo per tradurre i suoi valori dichiarati e le leggi che ha approvato in progressi concreti sul campo. L’attuazione di nuovi regolamenti come il DMA, il DSA e l’AI Act sarà un banco di prova cruciale. Invierà un messaggio sulla fattibilità e sull’impatto del modello normativo europeo nel plasmare i risultati del mercato e nell’allineare l’economia digitale ai valori democratici. Gli enti preposti all’applicazione delle norme devono disporre di risorse umane e finanziarie sufficienti per far fronte al potere delle aziende tecnologiche, il che significa dotarli di personale esperto e fornire loro i mezzi per esercitare efficacemente la propria autorità. Le autorità di regolamentazione devono scegliere le loro battaglie in modo strategico, utilizzando vari strumenti come le leggi sulla concorrenza, sulla privacy dei dati e sulla moderazione dei contenuti per inviare segnali chiari al mercato.
Le aziende tecnologiche devono anche riconoscere che non possono permettersi di opporsi costantemente alle autorità di regolamentazione. Attualmente soffrono di un profondo deficit di fiducia e reputazione presso i politici e l’opinione pubblica, che impedisce loro di adottare una posizione combattiva nei confronti dei regolatori senza scatenare una reazione ancora più brutale. Temendo un’ulteriore alienazione da parte dei regolatori, è probabile che scelgano le loro battaglie verticali, combattendone solo alcune e abbandonandone altre. Un approccio cooperativo, in cui le aziende tecnologiche collaborano volontariamente con le autorità di regolamentazione, porterà a un’economia digitale più prevedibile, governabile e stabile. Questa evoluzione è inevitabile e abbracciare questo cambiamento è essenziale per creare un panorama digitale più democratico e inclusivo.