Leonardo Grifoni, studente di storia dell’arte a Siena, ma originario di Firenze, sogna il ritorno della monarchia. Biondo, sembra un nobile («Tranne per le Timberland»), e dice, entrando alla Fortezza da Basso, a Firenze, dove sono riuniti gli euro-sovranisti: «Io sono monarchico. Non riconosco Mattarella. Non riconosco la Costituzione». Non è iscritto alla Lega, non è iscritto in realtà a nessun partito. Dice che un re perfetto c’è già per l’Italia, è Emanuele Filiberto di Savoia. Vuole un’«Europa diversa», che poi è uno dei leitmotiv della giornata organizzata da Matteo Salvini insieme all’internazionale sovranista, una contraddizione in termini, dal titolo «Free Europe!». Accanto al giovane Grifoni campeggia lo striscione: «Jobs, security, common sense». Lavoro, sicurezza, buonsenso. Contro la deindustrializzazione, contro la spinta alle auto elettriche voluta dalla Commissione Europea a partire dal 2035 (norma fortemente difesa dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni), che è un aiuto alla Cina, ripetono all’unisono i sovranisti. Contro la tecnocrazia, contro l’immigrazione, contro la burocrazia. Guglielmo Picchi, oggi semplice cittadino ma un tempo vice-ministro degli Esteri della Lega, prevede che alle prossime elezioni europee la media dei partiti che compongono il gruppo di Identità e Democrazia – l’estrema destra europea – «varrà il 15 per cento e non potrà essere ignorata». Ma l’architrave dei sovranisti non sarà, come cinque anni fa, la Lega, che prese il 34 per cento. L’austriaco Harald Vilimsky, capo delegazione al Parlamento Europeo di FPÖ, rilascia interviste ai media austriaci, ma dice che non vuole parlare con gli stranieri. Nel suo intervento, dal palco, più tardi si farà riconoscere, affermando che è «sbagliato sostenere l’Ucraina ed è sbagliato anche sostenere la guerra di Israele contro la Palestina». Filo-russo, come i tedeschi di AfD. Una prima differenza, la più importante forse, all’interno della famiglia sovranista, quella fra chi è filo-russo e chi no.
Arriva Matteo Salvini, il padrone di casa, mano nella mano con la fidanzata Francesca Verdini, che poi in disparte gira video con il cellulare mentre la selva dei giornalisti interroga il ministro dei Trasporti, non particolarmente tenero nei confronti degli alleati della maggioranza, assai critici – da Fratelli d’Italia a Forza Italia – verso questa convention. Il ministro degli Esteri, il forzista Antonio Tajani, mesi fa se l’era presa con i tedeschi di AfD («Mi fanno schifo, hanno una cultura nazista») e, in un’intervista a Repubblica, ha detto pochi giorni fa che con la Lega non ci sono problemi, tant’è che in Italia il governo è comune. I problemi sono però altri: «Altre forze non sono in sintonia con il Ppe. Ma forse neppure con la Lega, che con una sua ministra, Locatelli, porta avanti politiche opposte a quelle di AfD, che vuole classi separate per i bambini disabili. Una cosa che fa ribrezzo». Chi nel centrodestra preferisce la sinistra alla Lega e ai suoi alleati in Europa, ribatte Salvini, «commette un errore incredibile perché questa Europa con la sinistra al governo è quella dei tagli alla salute, alla scuola, è quella dell’immigrazione incontrollata, dello strizzare l’occhio a un fanatismo islamico che anche ieri ha fatto una vittima nel cuore dell’Europa. Mi dispiacerebbe che qualcuno di centrodestra preferisse la sinistra ad alleati di centrodestra». A chi gli fa notare che, appunto, pure il leader di Forza Italia, Tajani, condivide questa preclusione, Salvini obietta ancora: «Sbaglia, chi sceglierà la Lega alle Europee sceglie l’alternativa alla sinistra, a Macron e ai comunisti. La Lega non governerà mai con i socialisti. Faccio un invito al centrodestra unito in Italia a essere unito in Europa poi non posso imporre niente controvoglia a nessuno».
Antonio Maria Rinaldi, europarlamentare, twitta una foto con Alberto Bagnai e Claudio Borghi, il dinamico duo che sognava l’Italexit quando nella Lega spadroneggiavano i No Euro. Altri tempi, i tempi del «Tramonto dell’euro» (Imprimatur), opera di Bagnai, bibbia dei combattenti per la libertà dalla moneta unica contro gli «euroinomani». «Sul palco Marco Zanni e si comincia. Gli occhi di tutta l’Europa sinistra in via di sfratto guardano qui con timore e hanno ragione», twitta Borghi. Sono le 11 e mezzo, si comincia. I giornalisti, stipati nella sala accanto, non possono entrare. Acqua e caffè sul tavolo. La colonna sonora è di Giorgio Gaber: «La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche il volo di un moscone / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione». Michele Serra, tra gli intervistati del docu-film uscito pochi giorni fa al cinema su Gaber, potrebbe avere qualcosa da obiettare.
Si contano le assenze degli invitati, e le assenze pesano. Geert Wilders, che ha appena vinto le elezioni in Olanda con il suo Partito per la Libertà e sta cercando di capire se riuscirà a fare il primo ministro, manda un video. L’estremista olandese è una vecchia conoscenza delle convention sovraniste organizzate dalla Lega. Nel 2016 l’euro-destra si ritrovò a Milano all’incontro «Più liberi, più forti!» (accompagnato da un sottotitolo di quelli altermondialisti, quasi no global: «Un’altra Europa è possibile»). C’erano davvero tutti, compresi gli assenti di stavolta. «Sono contento di essere a Milano, perché è la città in cui nel 2005 è stato assegnato a Oriana Fallaci il massimo premio cittadino, l’Ambrogino d’oro. E se lo meritava, perché è stata una delle giornaliste più coraggiose», spiegò Wilders, aggiungendo che il libro della giornalista e scrittrice fiorentina, La rabbia e l’orgoglio, lo aveva ispirato a fondare il suo partito. Con Salvini condivide una stessa visione sulla pericolosità sociale e culturale dell’Islam radicale.
Pure Marine Le Pen manda un video. D’altronde a settembre è stata a Pontida, ospite di Salvini, ed è appena rientrata dal Portogallo, dove è andata a far campagna elettorale per André Ventura, presidente di Chega, formazione sovranista lusitana. In presenza però c’è il giovane Jordan Bardella, classe 1995, presidente di Rassemblement National («Parla un italiano più corretto rispetto a qualche giornalista italiano», dice Salvini). La signora Le Pen nel video non esce dal copione preannunciato, dallo schema classico degli antisistema, parla dell’Unione Europea che «agisce contro» i cittadini, quell’Europa «tecnocratica» che vuole renderci tutti «consumatori intercambiabili». «Per la signora Von Der Leyen l’immigrazione non è un problema, ma un progetto», dice Le Pen, prima di concludere con una citazione autorevole: «Machiavelli ci aveva avvertito che la forza dei tiranni è l’inerzia del popolo». Siamo a Firenze, e tutti o quasi i leader sovranisti sentono il bisogno di citare il capoluogo toscano, Machiavelli o Dante, all’inizio dei loro interventi (e ringraziano «il Capitano», cioè Salvini). Il Rinascimento, la culla dell’Europa, eccetera. Il sabato, giorno prima della manifestazione, le delegazioni hanno fatto un giro agli Uffizi. Poi, cena all’hotel fiorentino Baglioni, quattro stelle.
Il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, possibile candidato del destra-centro alle elezioni fiorentine del 2024 (ha appena ottenuto la cittadinanza italiana), ha salutato Salvini ma non ha preso parte al tour serale in museo con le delegazioni di ID, perché impegnato in un evento sulla musica sacra nel Rinacimento con donatori internazionali. Visita pagata, «e anche tanto», ci dice Susanna Ceccardi, europarlamentare della Lega, che pur convalescente dopo una brutta influenza ha fatto da cicerone insieme ad altri colleghi. Sulla visita c’è stata non poca polemica da parte di Dario Nardella, sindaco di Firenze al secondo mandato, possibile candidato alle Europee, che ha chiamato la cittadinanza a manifestare. «Ancora una volta gli Uffizi che sono simbolo di cultura, di apertura, di internazionalità, universalità, vengono piegati a operazioni di marketing politico. Io non userei mai gli Uffizi per fare politica, purtroppo c’è chi lo fa e questa cosa fa male alla città», ha detto il sindaco dando il buongiorno ai sovranisti. Dagli Uffizi però fanno sapere che la visita è stata «richiesta e pagata regolarmente come avviene ordinariamente nei frequenti casi di visita a museo chiuso». Schmidt ha però fatto sempre gli onori di casa con tutti: ministri, presidenti e ambasciatori. Nel 2021, ricordano dagli Uffizi, arrivò Edi Rama, primo ministro albanese, peraltro insieme a Nardella. «A Lisbona abbiamo fatto un tour e nessuno ha detto niente, a Parigi siamo stati al museo Rodin e nessuno ha detto niente», ci dice ancora Ceccardi.
In platea, nella Fortezza da Basso che un tempo ospitò la Festa nazionale del Pd (quando c’erano Massimo D’Alema e Walter Veltroni in attività), sono seduti i vertici della Lega. A Roma e sui territori. Lorenzo Fontana, presidente della Camera. Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, Massimiliano Fedriga, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Luca Zaia, presidente della Regione Veneto. Anche i militanti arrivano da varie parti della penisola.
«Siamo i normali», afferma l’estone Martin Helme, leader del Partito Popolare Conservatore. «L’Unione Europea è una minaccia per l’Europa», dice il bulgaro Kostadin Kostadinov, leader di Rinascita, partito filo-russo, che parla della crisi demografica: «Non esiste stato europeo che non è toccato da questo problema». Arriva il rumeno George Simion, leader di AUR, che però ha annunciato l’adesione al gruppo dei Conservatori. L’intervento lo fa in italiano, ringrazia anche lui «il Capitano» e dice di voler difendere «Dio, patria e famiglia», oltre che la libertà. Cita Dante Alighieri, la Divina Commedia, «una allegoria piena di lezioni preziose»: «L’Europa è l’inferno. Inferno perché abbiamo i migranti irregolari, inferno perché abbiamo la deindustrializzazione, inferno perché abbiamo la distruzione dell’identità nazionale, inferno perché abbiamo il declino del cristianesimo». Arriva la sindaca di Monfalcone Anna Maria Cisint, che ha appena chiuso due moschee, e spiega perché «l’islamismo integralista è un pericolo per le città e la nostra storia». Applausi dal pubblico.
A questo punto della giornata, chiamiamo il professor Marco Tarchi dell’Università di Firenze, politologo, tra i massimi esperti europei di populismo, per capire come può essere letta l’assemblea di Salvini. La sensazione è che la prima sfida – in vista delle Europee ma non solo – sia rivolta a Giorgia Meloni e ai suoi conservatori. «Mi sembra un’ipotesi non infondata», ci dice Tarchi: «Fra i conservatori dell’eurogruppo di Meloni e i nazional-populisti di Identità e Democrazia c’è un’evidente concorrenza, e anche nel recente passato non sono mancati colpi bassi, con il passaggio all’Ecr di partiti in precedenza legati a Le Pen e soci: i casi svedese e finlandese, ovviamente favoriti dalla guerra russo-ucraina, ne sono un esempio. Il progetto di Meloni di avere, nel 2024, una massa d’urto tale da poter varare nel parlamento di Strasburgo una Commissione di centrodestra, imponendo un’alleanza al Ppe, ha subìto una dura battuta d’arresto con la sconfitta del PiS in Polonia, e continua a scontrarsi con i veti di più d’uno dei partiti aderenti al gruppo dei popolari. In questa situazione di stallo, un successo – probabile, visti l’exploit olandese e i sondaggi in Francia e in Germania – dei populisti alle europee potrebbe provocare un riflusso di adesioni a loro vantaggio e mettere Meloni in difficoltà nel suo stesso campo. Favorendo, di riflesso, le quotazioni di Salvini in Italia».
C’è anche una dimensione locale in questa convention, osserviamo. Non è forse un caso che l’incontro fra Salvini, Wilders e gli altri avvenga proprio nel capoluogo toscano. La destra vuole vincere non più soltanto nelle aree rurali, diciamo così, ma anche in città? Da questo punto di vista, che significato avrebbe per la destra una vittoria a Firenze? Lo chiediamo al professore, autore di un fondamentale saggio sull’Italia populista: «Il discorso qui si fa più complicato, perché, se si intende l’incontro fiorentino come una sorta di sfida della Lega a Fratelli d’Italia, è difficile pensare che lo si possa collocare nel quadro di una strategia unitaria delle destre in vista delle elezioni locali», risponde Tarchi: «Né credo che riunire a Firenze una parte della classe dirigente del nazional-populismo europeo possa avere anche un minimo impatto sull’opinione pubblica cittadina. Semmai, può galvanizzare i militanti leghisti in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Si tratta di un’iniziativa quasi esclusivamente simbolica. Certo, se la sinistra perdesse Firenze – prospettiva che ad oggi mi pare improbabile – l’effetto sarebbe catastrofico e aprirebbe la strada a una sconfitta in Regione».
Ma come sta il sovranismo oggi? E come si presenta alle elezioni europee? Si può dire che esista oggi una internazionale sovranista, un movimento sovranista? Chiediamo a Tarchi: «Di fatto, no. Lo si vede nella dispersione di partiti che osservatori superficiali spesso includono in una stessa categoria in due gruppi, per non dire tre (perché c’è da considerare il Fidesz di Orbán, e anche qualche formazione minore che non sta né con l’Ecr né con Id) in sede europarlamentare. I conservatori sono in genere sovranisti senza essere populisti. Il contrario è più raro, ma non impossibile. E, in ogni caso, il coordinamento delle forze è molto arduo, perché ognuna di queste formazioni guarda quasi esclusivamente al suo popolo e agli interessi della sua nazione, che spesso non coincidono con quelli di altre. Le posizioni opposte sul ricollocamento degli immigrati fra i paesi del gruppo di Visegrád e i loro ipotetici confratelli dell’Europa meridionale e occidentale non sono che uno degli esempi di questa difficile compatibilità. Una vera internazionale di sovranisti e/o populisti è una contraddizione logica».
Ma quale potrebbe essere il ruolo di Salvini in questa compagine? Non è più la stagione del 2018-2019, almeno per la Lega… «Se ci si limita al fronte nazional-populista, non c’è dubbio che ormai lo scettro sia saldamente in mano a Marine Le Pen e al suo efficace delfino Bardella. Salvini, in questo contesto, può vivere solo di riflesso e giocando la carta delle buone relazioni personali con la leader del Rassemblement national. Che, non dimentichiamolo, non suscita affatto la stessa simpatia in esponenti leghisti come Giorgetti e Zaia, che desidererebbero semmai aperture, oggi impraticabili, verso il centrodestra europeo».
In ogni caso la sensazione è che la destra dia risposte a domande e problemi che esistono ma che la sinistra non vuole vedere. Può essere una chiave di interpretazione per capire il successo di Geert Wilders in Olanda? «Certamente. E l’elenco di questi temi sarebbe lungo: non ci sono solo immigrazione, sicurezza, insofferenza verso le invasioni di campo dell’Unione europea. Ci sono anche le questioni legate alla cosiddetta «svolta green» del campo progressista, che rischia di far pagare prezzi salati a quegli strati meno privilegiati della società che un tempo erano serbatoi di voti per socialisti e comunisti. Ci sono le preoccupazioni per la deindustrializzazione causata dai continui sviluppi tecnologici. E molte altre questioni a cui la sinistra, arroccata intorno ai ‘temi etici’ che toccano solo minoranze di classe medio-alta, appare sorda», ci dice ancora Tarchi, che salutiamo per tornare alla convention.
Giusto in tempo, sta per parlare il capo della Lega. Identità e Democrazia «non è una caserma», spiega Salvini nel suo intervento finale, dove rispolvera il solito George Soros, paragonandolo al colossale Golia (mentre lui e i soci sovranisti sono i piccoli ma combattivi Davide). Dolcevita scuro, giacca scura. Ci sono culture diverse, storie diverse in platea e sul palco, spiega. Ma noialtri ci sentiamo di aggiungere che ci sono pure delle notevoli contraddizioni. E anche delle attese diverse. Dei momenti diversi nella vita di questi partiti. La Lega è un partito di governo, gli altri ancora no. La signora Le Pen aspira a diventare presidente in Francia, Wilders prova a diventare primo ministro in Olanda. André Ventura – anche lui ha mandato un video – potrebbe vincere le elezioni portoghesi del marzo 2024. Ognuno ha il proprio particulare da difendere, i propri interessi e le proprie prerogative da tutelare. L’internazionale sovranista procede in ordine sparso a differenza del Partito Popolare Europe, che ha centralizzato in questi anni le sue risorse, non solo politiche, cercando di mantenere una certa omogeneità sulle policies. L’obiettivo è non perdere il controllo sull’Europarlamento. Ma chissà che alla fine non si torni di nuovo alla «maggioranza Ursula» che già ora governa l’Unione.
Mentre sentiamo parlare i vari leader e ascoltiamo l’intervento di Salvini, una domanda ci sorge spontanea: ma a chi è servito questo evento? La giornata fiorentina è servita poco ai leader sovranisti, che si sono fatti un giro per una delle capitali mondiali dell’arte. E infatti chi aveva altro da fare non è venuto al «cantiere nero» (macché nero, assicura Salvini, è «un’onda blu»). Perché, fondamentalmente, l’iniziativa serviva sopratutto a Salvini. E forse perché non si vuole disturbare troppo Meloni, per ora, poi chissà. Sicuramente, tra i due è il capo della Lega quello in difficoltà. Dopo i fasti della stagione 2018 (17,4 per cento alle Politiche) e i fasti della stagione 2019 (34,3 per cento alle Europee), Salvini si è arenato sulla spiaggia del Papeete Beach. Per lui è quindi normale essere in competizione – una competizione politica ma anche culturale – con Giorgia Meloni. Il leader della Lega e la presidente del Consiglio discutono su tutto. Dalla gestione dei migranti agli alleati europei. Mentre Meloni rivendica un conservatorismo istituzionalizzato, Salvini cerca una corrispondenza d’amorosi sensi con l’estremismo di destra. «Preferisco la serietà della Le Pen alle politiche di Macron e dei socialisti europei», ripete sempre Salvini.
Assai rappresentativo dello stato di salute dei rapporti fra la presidente del Consiglio e il leader leghista è stato, nei mesi scorsi, il caso del generale Roberto Vannacci, appena nominato comandante delle forze operative terrestri dell’esercito. Matteo Salvini ha difeso pubblicamente il controverso generale, autore di un bestseller che già a settembre aveva venduto centomila copie, invitandolo a candidarsi con la Lega alle Europee. Vannacci, a un certo punto, era diventato uno degli strumenti della Lega per infastidire Fratelli d’Italia. Non è l’unico, appunto, come dimostra la convention fiorentina, e certamente ne arriveranno altri. Meloni si trova tutt’ora accerchiata: da una parte c’è Salvini, ma dall’altra c’è la pressione della destra a destra di Fratelli d’Italia. Qualcuno evidentemente sognava la rivoluzione, che non c’è stata (per qualcun altro, per la verità, a destra della destra, l’accusa di tradimento esiste dai tempi della svolta di Fiuggi). «C’è un clima di disillusione che si respira in tutto quel mondo che attendeva un cambiamento rispetto al passato e perciò ha votato Giorgia Meloni», ha detto di recente l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno in un’intervista a Repubblica: «A destra c’è una spaccatura, tant’è che noi con il Forum dell’Indipendenza italiana abbiamo preso posizione contro molte delle scelte politiche del governo che è in continuità con l’agenda Draghi».
La presidente del Consiglio ha scelto una certa strada: collocazione atlantica, sostegno all’Ucraina, alleanze conservatrici in Europa. Salvini cerca evidentemente il sorpasso a destra. Con la convention alla Fortezza da Basso è iniziata la campagna elettorale di Salvini per le Europee, ma anche la stagione per provare a logorare la leadership di Meloni. Anche sul fronte più localista. L’anno prossimo non ci sono soltanto le Europee, ma, in Italia, anche le elezioni amministrative. Tra le città che vanno al voto c’è anche Firenze, considerata strategica non solo dal Pd, che in Toscana – ex regione rossa – ormai governa pochi capoluoghi di provincia, ma anche dal destra-centro. Il candidato potrebbe insomma essere Schmidt, direttore degli Uffizi, fresco di cittadinanza italiana. Candidatura civica, ma scelta da Fratelli d’Italia. Le elezioni fiorentine del 2024, in una terra in cui la destra saldamente governa quasi tutte le città (da Pisa a Siena, un tempo territori progressisti), sono uno spartiacque. Vincere a Firenze nel 2024 significa vincere le elezioni regionali del 2025. Il candidato contro Eugenio Giani, presidente della Regione uscente, potrebbe essere il sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi (sempre di FdI). Per questo Salvini non vuole farsi trovare impreparato. Anche se l’elettorato di destra è già passato dalla Lega a Fratelli d’Italia. Anche nella Toscana periferica, per parafrasare un libro del francese Christophe Guilluy.
Da parte del Pd c’è consapevolezza della posta in gioco, come testimonia un certo nervosismo dei vertici fiorentini del Pd, che proprio domani, lunedì 4 dicembre, si riuniranno in uno storico circolo, la casa del popolo di San Bartolo a Cintoia, per decidere il futuro della candidatura a sindaco di Firenze. Una consapevolezza che si evince dalle parole di Emiliano Fossi, deputato del Pd e segretario regionale toscano, affidate a «Quale Pd» (Laterza): «Ci siamo molto baloccati con l’idea che la Toscana fosse contendibile, ma penso che sia una versione parecchio addolcita. La Toscana è contesa e in buona parte conquistata. Sono almeno 12 anni che ci sono segnali di progressivo sgretolamento del consenso nei confronti del centrosinistra e del Pd. A ogni passaggio elettorale, abbiamo perso parti importanti della nostra regione. Quindi continuare a raccontarci che siamo un partito forte rischia di essere una novella che ci raccontiamo, mentre il mondo cambia e noi non ce ne accorgiamo. E io, come si dice dalle nostre parti, preferisco aver paura che toccarne. Questo processo è storicamente in corso e non si arresta da solo. Vedo con preoccupazione le prossime scadenze elettorali, come le Regionali del 2025. Sappiamo bene che se perdiamo la Toscana il Pd è finito. Non solo il Pd toscano, ma il Pd nazionale».
La destra ne è altrettanto consapevole e intravede una possibilità concreta di vittoria. D’altronde, come ha spiegato di recente Ian Buruma in un’intervista a La Stampa: «Gli elettori non sono interessati a quello che accade fuori dai confini nazionali, non pensano ai riflessi sull’Ucraina o alle questioni europee. Per loro contano le questioni domestiche, lavoro, sicurezza, economia. E il messaggio che lanciano è chiarissimo: lasciateci stare, non vogliano restare invischiati negli affari internazionali. È la rivalsa delle province contro le élite liberal delle città. Quanto accaduto nei Paesi Bassi non è diverso dall’America. E vedo un sintomo simile anche nella galassia che ha appoggiato Meloni». Un fenomeno che attraversa i territori, dalla Toscana all’Europa e oltre.