Nel suo contributo a Fratture della guerra estesa, ha spiegato che le analogie con la prima Guerra fredda sono più apparenti che sostanziali. Allora perché utilizziamo questa formula? E cosa dice di noi il rifarci costantemente a vecchie categorie come «Guerra fredda» o «non allineamento» per dare senso al mondo?
Dice che abbiamo poca fantasia e poche capacità interpretative. È necessario stabilire strumenti critici più aggiornati, come i diversi livelli di analisi che ho individuato nel mio contributo: un livello teologico-politico, un livello politico e geopolitico europeo e un livello geopolitico mondiale.
Ci sono delle differenze fondamentali tra le due guerre. L’aspetto più evidente è che la seconda non è ancora fredda: il conflitto in Ucraina è in corso e rimane incandescente. La differenza essenziale però è che la Guerra fredda storica esauriva in sé sostanzialmente tutto lo scontro politico a livello mondiale. C’erano certamente, da parte dell’una e dell’altra potenza, tentativi di guadagnare spazi nelle periferie del mondo. La sostanza della politica internazionale però era il confronto tra i due blocchi, che si manifestava in Europa, un’Europa che era passata da essere soggetto a essere oggetto della politica internazionale. Era un bene estremamente prezioso, che veniva spartito senza essere quasi conteso. C’era un reciproco accordo sul fatto che la configurazione dei due imperi non fosse modificabile, tant’è che l’occidente non ha mai approfittato delle rivolte che avvenivano periodicamente nei paesi dell’Est per staccarli dal controllo sovietico.
Il mondo era congelato nella sua parte principale, cioè l’Europa. Adesso invece, il conflitto è certamente fra gli Stati Uniti e i loro alleati da una parte e la Russia dall’altra, ma è un conflitto che non è stabilizzante, perché avviene all’interno di un mondo globalizzato. Anche se la globalizzazione è fortemente in crisi, non è possibile mantenere oggi l’impermeabilità dei sistemi economici tipica della prima Guerra fredda. Nonostante le sanzioni, l’economia russa continua ad essere alimentata dalle opportunità di un mondo percorso da una quantità sostanzialmente infinita di linee di valorizzazione economica. La stessa idea di un «blocco economico» non è percorribile. Ci siamo svincolati dalla Russia come fornitrice privilegiata di gas e di fonti energetiche, e l’abbiamo fatto anche abbastanza facilmente, sostituendola con fonti di approvvigionamento più costose ma di altra provenienza. La Russia, a sua volta, si è emancipata dalla pesante subalternità economica verso l’occidente, aggirando le sanzioni con l’aiuto della Cina, dell’Iran o della Corea del Nord.
La realtà è che questa seconda Guerra fredda avviene in un contesto largamente fluido e dinamico, cioè di una globalizzazione sotto stress, subalterna alle logiche politiche e geopolitiche che credeva di aver sepolto e che invece si stanno affermando. Tuttavia la globalizzazione è tutt’altro che interrotta e continua a giocare un ruolo fondamentale. L’unico punto in cui l’interscambio economico è fermo è precisamente tra Occidente e Russia.
Inoltre, a queste differenze fra le due guerre, se ne aggiunge una terza: il mondo è abitato da almeno un’altra superpotenza, quella cinese. E per la prima superpotenza, gli Stati Uniti, quello è il vero nemico, il vero competitore strategico, mentre la Russia non è che un vecchio concorrente il cui ruolo è stato ridotto dalla storia. È un concorrente regionale, e tale deve rimanere, mentre al grande gioco partecipano Stati Uniti e Cina.
Se parliamo oggi di nuova Guerra fredda, è a causa del suo nucleo incandescente in Ucraina. Lei sottolineava l’impossibilità di leggere il conflitto con un solo schema, e notava la compresenza di varie scale, quella Ucraina, quella europea, quella globale. A più di seicento giorni dall’invasione, come si stanno articolando queste scale? Quali tendono alla risoluzione del conflitto? Quali a una sua estensione?
Paradossalmente, non abbiamo moltissime notizie sull’andamento delle operazioni militari vere e proprie.
Da entrambe le parti si è di recente parlato di stallo, prima che entrambe negassero sdegnate. È molto probabile che sia vero: per diversi motivi, entrambe le parti si sono precluse la capacità di operare in modo decisivo sul piano militare, facendo un salto di qualità da una guerra a media intensità a una guerra totale. Questo passaggio significherebbe, per i russi, mettere in gioco l’aviazione e, per gli ucraina, sistemi missilistici in grado di colpire il cuore del territorio nemico. Siamo davanti a uno stallo che è soltanto una mezza vittoria per Putin, perché gli conferisce la continuità territoriale tra la Russia e la Crimea attraverso l’Ucraina orientale. È una vittoria solo a metà, perché il suo vero obiettivo strategico mirava ad altre priorità.
Una era Odessa, come perno della linea Kaliningrad-Odessa. Gravare concretamente su quella linea, tenere saldamente entrambi i cardini dell’istmo Ponto Baltico è cruciale. La situazione russa è fragile: il possesso del cardine nord è solo nominale, visto che Kaliningrad è accerchiata da altre potenze ostili – i Baltici, la Svezia e la Polonia – e il cardine Sud non è completamente controllato, perché la chiave sarebbe Odessa, più che Sebastopoli.
Soprattutto, l’obiettivo strategico fondamentale, la capacità russa di dominare la politica ucraina, o addirittura di annettere il Paese, non è venuto alla luce. Anche se la guerra finisse ora e fosse concesso a Putin di conservare in modo stabile le proprie conquiste territoriali, avrebbe comunque al suo fianco occidentale un’Ucraina ferocemente anti-russa. Forse non integrata formalmente nella NATO, ma garantita dalle potenze occidentali e sorretta dal denaro dell’UE, quest’Ucraina diventerebbe un fronte orientale europeo permanente. La capacità di Putin di premere sull’Europa diventerebbe molto limitata. Non sarebbe il vincitore che annette l’Ucraina come una provincia ribelle e mostra ai terrorizzati vicini l’entità del suo potere imperiale.
Putin ha subito uno stop non indifferente. Parlando solo dal punto di vista geopolitico – senza considerare il significato di questa guerra dal punto di vista del diritto internazionale, chiaramente un significato negativo e disastroso – quella di Putin è solo una mezza vittoria. A questo si unisce una sconfitta nel Baltico, che è sostanzialmente un lago in mano ai nemici della Russia.
La guerra in Europa non è stata una grande impresa per Putin, sebbene la dica necessaria per difendersi dalle mire della NATO. La realtà è che la Russia non è stata in grado di esercitare un’egemonia stabile sull’Ucraina e ha dovuto ricorrere a strumenti come i colpi di stato e la corruzione, finché l’Occidente non si è messo di traverso, conscio dell’importanza strategica del Paese. Se i danni, umani, materiali e reputazionali sono tremendi, l’esito militare e strategico è mediocrissimo. Anche se il fronte si congelasse, il risultato sarebbe una mezza Guerra fredda in Europa, concentrata nell’interruzione dei rapporti fra Europa e Russia.
Questa interruzione è dannosa anche per l’Europa, perché questa si è presentata sostanzialmente in ordine sparso davanti a Mosca ed è stata costretta soltanto dalle pressioni americane e fronteggiare duramente la guerra in Ucraina. Ricordiamo l’esitare della Germania, che da questa guerra esce priva dell’asset strategico della propria economia neomercantilista, il gas a buon mercato. Questo le aveva consentito nel nuovo millennio, dopo le riforme Schröder-Hartz, un boom economico fondato su un’economia di esportazione, energia a buon mercato, grande capacità industriale ed esportazioni; questi erano i pilastri della Germania, che adesso barcolla.
Un Paese ne è molto contento – non Putin, a cui questo interessa poco – ma gli Stati Uniti, che avevano un conto aperto con la Germania. Ricordiamo le polemiche di Trump sulla bilancia commerciale tedesca e cinese, accusata di impoverire l’America. La Germania sembra ora «sistemata», mentre non vale lo stesso per la Cina.
Nella Guerra fredda, l’Europa occidentale ha cercato le sue forme autonome di distensione e di apertura ad Est – la politica gollista o l’Ostpolitik – per vivere serenamente su un solo continente. Quella della seconda Guerra fredda è un’Europa totalmente schiacciata sull’Atlantico o ha qualcosa di autonomo da esprimere nei confronti della Russia e della Cina? L’Europa di oggi è anche diversa da quella della distensione: Sofia, Bucarest, Varsavia, Praga e le altre capitali dell’Europa centrale citate da Churchill nel discorso di Fulton sono ora dalla «nostra» parte della cortina.
L’Europa attuale è certamente più estesa rispetto al passato, ma non è affatto più unita. Inoltre, manca di capacità politica, come l’Europa di ieri. Questa Europa, per quanto estesa, è anche più sbilanciata: un’Europa che non ha rapporti con la Russia è un’assurdità. È un’assurdità che può esistere soltanto in una fase patologica della storia europea; in una fase fisiologica, l’Europa ha sempre avuto rapporti con la Russia. Anche la Germania, dopo il nazismo, ha ristabilito rapporti con la Russia. La Russia è parte dell’identità europea, ha un sistema politico semi-europeo. Certo, l’altra metà è orientale. Uno dei problemi di Putin è che crede davvero in una visione binaria e duale della Russia, in cui la parte asiatica pesa tanto quanto quella europea. Questo differisce profondamente dalla concezione, condivisa anche dai comunisti, di vedere la Russia come principalmente europea: un enorme corpo asiatico, ma con la testa europea e rivolta a occidente.
Se a questa visione di Putin si aggiunge la guerra, con l’interruzione dei rapporti tra Europa e Russia, il risultato è un’Europa completamente consegnata agli Stati Uniti, perché da sola non riesce ad avere una capacità strategica e politica, ma rimane intimorita e rattrappita, anche se più grande. Non solo è rattrappita, ma è divisa, perché conosciamo le sue fratture profonde. C’è un’Europa orientale fortemente anti-russa e filo-americana, mentre l’Europa del Sud ha interessi divergenti rispetto a quelli dell’Europa del Nord: Spagna, Italia e Grecia hanno poco in comune con la Germania o l’Olanda. L’Europa di Bruxelles è un’Europa lotaringica, fondata su un rapporto Francia-Germania. Ci sono diverse Europe e a tenerle tutte insieme non è la paura della Russia – perché gli europei sarebbero andati in ordine sparso davanti a Putin – ma la capacità politica e militare degli Stati Uniti, che naturalmente non vogliono perdere il loro rapporto con l’Europa, per cui hanno combattuto tre guerre mondiali.
Stiamo assistendo a una fase di disfacimento delle architetture che avevano vinto la Guerra fredda e che avevano sorretto il ventennio successivo alla vittoria occidentale. Dovremmo essere capaci di inventare un nuovo modo di stare al mondo tra Europa, Russia, Stati Uniti e Cina, ma abbiamo davanti solo la politica di potenza, e chi la potenza non ce l’ha la subisce, molto semplicemente. L’Europa la subisce poco, nel senso che il grosso della violenza non tocca l’Europa, ad eccezione dell’Ucraina, ma la subisce, senza avere potenza da proiettare efficacemente all’esterno.
Dal sette ottobre, con l’inizio della guerra del Sukkot, c’è un nuovo punto caldo nel mondo. È un punto caldo di questa nuova Guerra fredda o obbedisce ad altre logiche? C’è qualcosa che lega Gaza e l’Ucraina?
Io non credo che siano direttamente legati, se non per il fatto che sono entrambi dei fronti di violenza e di incandescenza che coinvolgono l’Occidente. L’occidente, che poi vuol dire l’impero americano e i suoi alleati, ha un’estensione tale, che riscontra problemi in diverse aree, senza che vi sia un’unica mente a collegare insieme i diversi focolai. Il focolaio israelo-palestinese è vecchissimo e nasce nel 1948.
Possiamo però chiederci a chi giova questo focolaio. Noi sappiamo che giova a tutti gli attori ostili a una normalizzazione della situazione mediorientale che abbia come pilastri l’Arabia Saudita e Israele. Se il Medio Oriente si stabilizza grazie ai buoni rapporti tra Arabia Saudita e Israele, tenendo conto che quest’ultimo è la sentinella americana nella zona, possiamo individuare chi trae un vantaggio dalla tragedia israelo-palestinese, anche se i responsabili politici non li sapremo mai.
Ci vorrà tempo per una situazione di pace co-egemonica tra Arabia Saudita e Israele per stabilizzare il Medio oriente. Fra le condizioni per il formarsi di questa situazione di pace, c’è sicuramente la soluzione della questione palestinese, che può passare soltanto attraverso l’abbandono, da parte araba e palestinese, della pregiudiziale contraria all’esistenza dello Stato di Israele, che è presente nello statuto di Hamas. Basterebbe che questo obiettivo di eliminazione dello Stato di Israele venisse convertito verso l’obiettivo di rinominare lo Stato d’Israele, ad esempio chiamandolo stato israelopalestinese. Di fatto, i palestinesi sono la metà della popolazione complessiva di Israele. Questa potrebbe essere la soluzione migliore per tutti, ma capisco sia assolutamente impensabile per gli uni e per gli altri. Se l’eliminazione dello Stato di Israele significa che gli israeliani vengono buttati a mare o sono costretti a vivere in uno Stato islamico, significa che qualcuno non vuole la pace.
Dopo gli accordi di Oslo, che sono falliti, il tentativo è stato di cercare una pace non politica, ma una pace militare, cioè fondata sullo strapotere militare di Israele, che blocca e tiene la ferma la protesta palestinese. È un metodo che non porterà ad alcun risultato. Tuttavia, è necessario che Israele non abbia più davanti a sé delle forze politiche che hanno come primo punto dei loro programmi l’eliminazione pura e semplice dello Stato ebraico. È evidente che lo Stato di Israele ha la sua ragion d’essere storica e politica nell’olocausto: la reazione israeliena è una reazione sicuramente abnorme, frutto di un passato abnorme e di un presente abnorme.
Serve un attore disposto alla normalizzazione. Gli americani hanno creduto di poter affidare questo problema a Israele, ma Israele non è la soluzione, è parte del problema. Gli Stati Uniti vogliono pacificare il Medio Oriente per i loro interessi, non perché sono gli angeli custodi del mondo, ma ho l’impressione che, per riuscirci, ci debbano tornare loro, magari insieme a truppe ONU, contingenti arabi o contingenti israeliani. Ma ci deve essere un terzo autorevole, perché affidare la soluzione a uno dei contendenti è impossibile.
Come ci porta tutto questo all’Ucraina? I nemici degli Stati Uniti possono trarre qualche vantaggio da questa situazione molto dinamica, in cui tutto può cambiare. Se ci sarà una drammatica estensione della guerra, nessuno ne uscirà vincitore, ma nella situazione fluida di questo momento credo che l’Iran sia soddisfatto, che la Russia sia soddisfatta, che la Cina sia abbastanza soddisfatta, mentre gli Stati Uniti siano angosciati.
Ha detto che l’Europa è passata da essere il soggetto della politica mondiale a esserne l’oggetto. Si può dire che oggi non siamo neanche più l’oggetto, che le più grandi fratture globali riguardano altre aree del mondo, in particolare il Pacifico? Qual è la posizione della Cina in questa nuova fase della globalizzazione, altra differenza cruciale rispetto alla prima Guerra fredda?
Per capire la globalizzazione e il ruolo che la Cina ha al suo interno servono tre premesse. La prima è che la globalizzazione è stata, prima di tutto, il riconoscimento che l’economia di mercato ha sconfitto l’economia di comando sotto il profilo dell’efficienza. La seconda è sapere che abbiamo confuso l’economia di mercato con la democrazia, un errore grave. Si può benissimo essere portatori di una forte economia di mercato e avere strutture politiche non democratiche: la Cina o il Vietnam ne sono un esempio. La terza è la grande decisione della Cina di entrare nell’economia di mercato, presa da Deng Xiaoping e fortemente contrastata a suo tempo. Tuttavia Deng ha avuto la meglio e grazie a questa decisione la Cina è diventata il vero competitor degli Stati Uniti. Come dimensione grezza, la sua economia è superiore a quella degli Stati Uniti, anche se è inferiore sul piano qualitativo. La posizione della Cina è una posizione di necessaria ed implicita minaccia all’egemonia mondiale degli Stati Uniti.
Da quando la Cina è stata fatta entrare nelle grandi istituzioni economiche internazionali, cioè il WTO e l’FMI, si è comportata secondo le regole del gioco, senza essere un attore revisionista. È stata un attore che ha giocato con una visione e un’adesione collaborativa a quelle istituzioni. La Cina è la fabbrica del mondo, ha bisogno di importare ed esportare, ha bisogno del capitalismo globale, di cui vuole essere il perno o uno dei perni. La sua linea non sarà mai quella della chiusura autarchica, ma nemmeno quella del colonialismo tradizionale, cioè l’occupazione politico-militare di territori.
L’espansione della Cina è un’espansione commerciale che ruota intorno a due direttrici. La prima è il progetto delle Nuove vie della seta che, per quanto non abbia una prospettiva brillantissima davanti a sé, aveva comunque un senso chiaro, quello di un rapporto forte tra la Cina e l’Europa che coinvolgesse e attraversasse tutta l’Asia. L’altra è una direttrice di influenza economica e politica in Africa. Influenza e non controllo, sviluppata attraverso un sistema di aiuti, prestiti, costruzione di infrastrutture in vari Paesi africani in cui c’è per la Cina uno spazio teorico superiore a quello occidentale, se non altro perché la Cina non ha un passato coloniale da farsi perdonare.
La Cina, tuttavia, sotto il profilo strategico, ha due grossi problemi. Il primo è che dai tempi di Kissinger e Nixon non ha più avuto un rapporto facile e positivo con l’Unione Sovietica e poi la Russia. Era stata separata dal blocco asiatico continentale, che risultava spezzato: una delle clausole geopolitiche principali da un punto di vista occidentale. Il secondo è l’impegno americano nell’impedirle l’accesso all’oceano, impegno che continua a essere forte, visto che la Cina è chiusa da una serie di alleanze americane che controllano tutta la costa del Pacifico e tengono il Paese in una gabbia marittima abbastanza visibile. Dietro la questione di Taiwan ci sono ovviamente l’impulso nazionalistico cinese e il suo orgoglio smisurato da una parte – un fattore politico reale, non mera sovrastruttura – ma dall’altra anche un interesse strategico. La riannessione di Taiwan significherebbe per la Cina affacciarsi liberamente sul Pacifico, liberandosi dalla serie di arcipelaghi e penisole in mano agli americani.
Gli Stati Uniti hanno da tempo, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, istituito una sorta di gigantesco cordone sanitario intorno al continente asiatico, che blocca qualsiasi proiezione marittima di qualunque potenza asiatica. Tutte sono bloccate da un sistema di alleanze, da un sistema di basi militari e navali che rispondono all’esigenza strategica primaria degli Stati Uniti, cioè controllare entrambe le sponde di entrambi gli oceani su cui il continente americano si affaccia e di avere al tempo stesso il pieno controllo del mare. Evidentemente, questi due assi geostrategici degli Stati Uniti sono ancora in pieno vigore e hanno subito un vero scacco soltanto quando dalla catena di alleanze asiatiche è uscito l’Iran, diventato da allora la grande breccia.
La Cina, che sembra molto aggressiva, sotto il profilo geopolitico sta giocando sulla difensiva. Per uscire dalla sua condizione di subalternità, dovrebbe compiere atti di autentica aggressione, un passo che una leadership estremamente prudente come quella cinese si guarda bene dal farlo, tranne con Taiwan, che rimane il punto interrogativo più grande.
Tornando al quadro generale, lei ha definito la Guerra fredda storica come un affrontarsi di universalismi progressisti. Cosa rimane oggi di universale e progressista? Chi è capace di dare al mondo un’idea di futuro? Non sembra farlo la Russia. Può farlo l’Occidente? Può farlo la Cina?
Ecco l’altra grande differenza fra le due guerre fredde. Allora di affrontavano due ipotesi di futuro progressista, o che almeno dicevano di esserlo. Erano due visioni figlie dell’Occidente, della modernità e del progressismo. Oltre a tutte le differenze già segnalate, dobbiamo aggiungere che il conflitto odierno è solo geopolitico, non ha come posta in palio una visione del mondo. E gli occidentali sono stati gli ultimi a capire che la loro visione del mondo non è universale: hanno tentato di esportare democrazia e valori occidentali, attirando naturalmente numerosi giudizi di imperialismo, non infondati. Fino a qualche anno fa, l’idea era che la democrazia fosse il futuro dell’umanità e che i Paesi democratici avessero il diritto, se non il dovere, di operare cambi di regime nei Paesi non democratici, naturalmente quelli piccoli.
Quella occidentale era una percezione di superiorità tecnologica e scientifica, ma anche etico-politica. Forse abbiamo capito che è solo la nostra civiltà, e che il suo primo dovere è rispettare le altre. I cinesi non cercano di imporre la cultura cinese al mondo intero, poiché, fondamentalmente, si considerano tanto superiori da non aver alcun interesse a civilizzare gli altri. I russi, al contrario, conservano un impulso imperialistico, quasi messianico, ma che non coinvolge il resto del mondo; si tratta di una missione russa.
Ai tempi questo impulso imperialistico-messianico si era tradotto nell’appoggio ai partiti comunisti di tutto il mondo e nelle lotte di liberazione dei paesi colonizzati. Questa prospettiva pretendeva di avere un impatto positivo sul resto del mondo, ma oggi non è più così. I russi non ci stanno offrendo un modello di civiltà, stanno solo cercando di realizzare un loro destino imperiale di salvare l’umanità, un’umanità che per loro coincide con la cristianità ortodossa, perché la cristianità cattolica e quella protestante occidentale sono state cancellate dall’individualismo, dalla tecnica e dall’economia politica ed è sostanzialmente morta.
Ora invece la presenza di Dio nel mondo è garantita dalla Russia come portatrice di una salvezza di carattere comunitario e non occidentale. Questo messaggio non è rivolto a noi, ma è un messaggio rivolto a loro stessi; al più, secondo Dugin, è rivolto a staccare l’Europa dagli Usa, prospettando agli europei una loro identità diversa da quella americana.
E chi può offrire un messaggio che parli al mondo?
Non c’è nessuno che possa farlo. La nostra visione attuale, nel bene e nel male, è che in questo mondo esiste un pluralismo di potenze e culture che possono benissimo evitare il conflitto. Non sono favorevole al concetto di conflitto tra civiltà come esito necessario della nostra condizione contemporanea: può esserci una coesistenza di civiltà, ma è necessario riconoscere la loro differenza.
Non possiamo più considerarci i portatori dell’unica civiltà del pianeta e guardare al mondo musulmano, alla Cina e alla Russia come scimmie antropoforme prive dei benefici del tecno-capitalismo occidentale, che peraltro praticano benissimo. Bisogna davvero provincializzare l’Europa e riconoscere che non è che una parte del tutto.
Se non c’è un messaggio universale, vediamo il messaggio che diamo a noi stessi. L’Occidente ha saputo competere nella Guerra fredda con l’embedded liberalism prima e con il capitalismo neoliberale poi. Quale futuro c’è ora? Per cosa lottiamo? In nome di cosa chiediamo di soffrire per Kiev?
Questo è un problema centrale. È inutile chiedere alle persone di soffrire – non dico «morire per Kiev», ma soffrire per Kiev – in nome di uno scontro tra democrazia e autoritarismo che si combatte in Ucraina. La cosa può essere vera o meno, a seconda di quanto ritentiamo democratica l’Ucraina. Il punto è che non dovremmo essere costretti a dire se l’Ucraina è o non è democratica. La minaccia russa la stessa, indipendentemente dalla democraticità dell’Ucraina.
Basta semplicemente dire che non possiamo tollerare che l’orso russo faccia ciò che vuole alle porte di casa nostra, a prescindere dal livello di democrazia dell’Ucraina. Dobbiamo smetterla di combattere «guerre giuste», o meglio, quelle che noi definiamo giuste. Se proprio dobbiamo combattere una guerra, la dobbiamo combattere per i nostri interessi, non per una giustizia superiore di cui saremmo i mandatari. Poco importa che l’Ucraina sia democratica o meno. Va difesa nei fatti, perché non possiamo permettere a un bruto di sfondare la porta ed entrare in casa. Questa è la motivazione, una buona vecchia teoria del domino, è più che sufficiente: se non fermiamo l’orso russo ora, chi sarà il prossimo? Chi verrà mangiato? Se la Russia avesse invaso l’Ungheria, invisa all’opinione progressista occidentale, non avremmo abbandonato il Paese alla sua sorte, ma l’avremmo difeso per motivi geopolitici.
Questo vende i sacrifici per l’Ucraina molto meglio che lo scontro tra democrazia e autocrazia, che espone l’Occidente a contestazioni, non del tutto infondate.
La Guerra fredda è stata anche un modo per l’occidente di riformarsi, pensiamo al capitalismo occidentale. Nella competizione politica interna e globale, ha dovuto garantire un certo tenore di vita e un orizzonte di maggiore eguaglianza sociale. Questa nuova Guerra fredda non sembra dare l’occasione di ripensarci.
Certo, la Guerra fredda aveva un contributo vagamente progressista, per assurdo che possa sembrare. La situazione attuale, invece, si spiega solo col pluralismo dei punti di potenza nel mondo. In questo pluralismo si inserisce il timore, da parte degli Stati Uniti, dell’ascesa minacciosa (per loro) della potenza cinese.
Questo è il fatto: non ci sono grandi argomentazioni, grandi disegni universali e morali. È anche veramente sbagliato fare grandi disegni quando non possiamo, perché ci esponiamo a critiche facili. Davvero siamo pronti a considerare l’Arabia Saudita tra i «buoni»? Esiste un’egemonia americana nel mondo, che si manifesta in molti modi, ma non è sufficiente a coprire il mondo intero, mentre ci sono larghe fette di mondo che non accettano questa egemonia dal punto di vista culturale, militare e anche economico. A noi questo può dispiacere, ma fare una narrazione primitiva di «bene contro male» può solo peggiorare le cose.
Visto che siamo arrivati a temi di puro potere, un tratto distintivo della Guerra fredda era la paura atomica, un tratto inquietante ma anche un fattore di ordine e sicurezza nel sistema internazionale. Abbiamo ancora paura della bomba? Esiste ancora questa minaccia tutelare?
Spero che abbiamo ancora paura della bomba atomica!
Questa salutare paura ci ha consentito di rimanere al mondo, evitando molte guerre in Europa. Grazie all’atomica ci siamo sempre fermati prima. È un discorso tanto banale quanto brutale, ma sicuramente vero. Ho vissuto metà della mia vita sotto la minaccia nucleare. Era una minaccia così seria che nessuno ne parlava apertamente. Né gli americani né i russi promettevano di bombardare, perché quella era una minaccia reale e sentita, dunque se ne parlava poco. Ho sentito con orrore, quando è iniziata la guerra in Ucraina, che tutti evocavano le bombe atomiche. Poi ho capito che era solo un modo di dire, perché nessuno Stato adopera bombe atomiche. La cosa è diversa quando si tratta di organizzazioni terroristiche che accedono a tali armamenti dopo l’era atomica.
Personalmente, non credo che le bombe atomiche abbiano un significato destabilizzante. Anzi, penso che potrebbero fungere da elemento stabilizzante in questa situazione. L’arma serve per non essere adoperata e per tenere relativamente basso il confronto tra coloro che la possiedono. Il problema di Israele è che Hamas non possiede bombe atomiche, non ha una logica statale, che è una logica intrinseca di moderazione. Guardiamo alla Corea del Nord, uno Stato che era solito sbraitare sulla scena internazionale e che si è molto tranquillizzato da quando si è dotato dell’arma atomica. Ogni stato con armi nucleari diventa un bersaglio legittimo per gli altri detentori, fenomeno che generalmente induce a una moderazione delle azioni. È triste ma vero. Ovviamente è essenziale garantire un controllo sicuro sulle armi nucleari, ma credo ancora nel loro valore come deterrente e stabilizzante in un sistema di Stati. Il punto è che quando manca lo Stato, tutto può accadere. Nel Medio Oriente, questa mancanza di stabilità è evidente.
Focalizziamoci un momento sulle istituzioni globali e multilaterali. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nascono con una certa speranza, che la Guerra fredda congela. Queste speranze si riaprono con la fine dei blocchi e vengono ridimensionate dall’iperpotenza statunitense. Qual è ora il loro ruolo? Cosa possiamo attendere dalle istituzioni globali in questa nuova fase?
Focalizziamoci un momento sulle istituzioni globali e multilaterali. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nascono con una certa speranza, che la Guerra fredda congela. Queste speranze si riaprono con la fine della Guerra fredda e vengono ridimensionate dall’iperpotenza statunitense. Qual è ora il loro ruolo? Cosa possiamo attendere dalle istituzioni globali in questa terza fase?
È un problema sapere che l’ONU manca di capacità d’intervento, ma neanche un’autorità morale. Possiamo chiederci quante divisioni ha il Papa, ma non ci chiediamo nemmeno quante divisioni abbia l’ONU. Questo è un problema nessuno dovrebbe esserne contento.
Ad esempio, per risolvere la questione palestinese, si sta pensando di dare la responsabilità della sicurezza nella striscia di Gaza – e magari anche in Cisgiordania – a una presenza internazionale sotto la casacca ONU. L’esigenza è sentita: in certe circostanza il gioco degli equilibri di potere può generare stabilità Tuttavia, ci sono situazioni in cui non si formerà mai un equilibrio di potere, a meno che non intervenga un terzo, altrimenti c’è solo uno squilibrio continuo. Un esempio tipico è il Medio Oriente, dove la presenza di un terzo minimamente neutrale sarebbe auspicabile.
L’autorevolezza dell’ONU è scomparsa, se c’è mai stata. Viviamo in un momento in cui c’è solo geopolitica. Dalla geopolitica può teoricamente uscire un ordine di equilibrio temporaneo, ma attualmente c’è solo caos. Un ordine mondiale universale centrato sull’ONU è impossibile. Al momento neanche le grandi organizzazioni economiche internazionali riescono a produrre davvero ordine. Il Fondo Monetario, l’OMC e altre autorità faticano a mantenere l’ordine. Qualcosa fanno, ma l’ordine è il prodotto della politica e, in questa fase, la politica è, da un lato, estremamente accesa e violenta e incapace, dall’altro, di fornire quadri ordinativi
Lei ha parlato di questo imbarbarimento delle relazioni internazionali rispetto alla prima Guerra fredda. Abbiamo però delle sfide universali più grandi: la transizione ecologica, la terra che cambia sotto i nostri piedi, l’eventualità di un’altra pandemia. Queste sono sfide universali che erano assenti o meno sentite nella prima Guerra fredda. Rappresenteranno un’occasione di coordinamento globale o delle nuove linee di frattura?
Al momento non hanno rilievo politico, nel senso che non sono l’obiettivo di azioni collettive reali. A parole si può dire tutto sui problemi climatici, che nascono dall’attività umana, dalla Cina, dall’India e dagli Stati Uniti, attori che si guardano bene dal lanciare politiche innovative, come invece sta cercando di fare l’Europa. Io non credo che sarà la questione climatica a cambiare le brutte regole del brutto gioco che è la politica internazionale. Un altro discorso è quello delle pandemie. Se dopo del Covid arrivasse qualcosa di ancora peggiore, allora la sfida sarebbe una sfida reale, che avrebbe esiti al momento non prevedibili, ma credo che nessuno voglia la pace nel mondo al prezzo di una pandemia.