Mentre la guerra del Sukkot ha detronizzato la guerra della Russia contro l’Ucraina nei briefing stampa delle principali istituzioni statunitensi, il 24 ottobre 1 il numero due del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, responsabile dell’Indo-Pacifico, ha lanciato un promemoria: «Siamo consapevoli che il Dipartimento ha identificato la Cina come la principale sfida strutturante (pacing challenge)».
Nel dibattito pubblico americano, sempre più polarizzato, questo è uno dei pochi argomenti su cui repubblicani e democratici concordano: la priorità della competizione con la Cina, che prevale su tutti gli altri aspetti della politica estera statunitense.
Per rispondere a questa sfida, le amministrazioni statunitensi che si sono succedute a partire da Barack Obama, che per primo ha esposto il concetto nel 2011, hanno perseguito un «pivot to Asia» 2. Il pivot consiste essenzialmente nel prestare maggiore attenzione alle sfide che provengono da questa regione, stanziare nuove risorse per affrontarle, consolidare nuove reti di partner e ricalibrare le interdipendenze a discapito della Cina e a vantaggio dei partner americani.
Un pivot implica uno spostamento di attenzione da una geografia a un’altra, in questo caso a scapito dei due teatri che hanno catturato maggiormente l’attenzione degli Stati Uniti negli ultimi tempi: l’Europa e il Medio Oriente. Le richieste di condivisione degli oneri, il disimpegno da conflitti infiniti, la delega della gestione delle crisi regionali e la fine della dipendenza energetica sono tutte rotture più o meno caotiche che dovrebbero liberare energie e risorse americane a vantaggio dell’Indo-Pacifico.
Ma questo senza tener conto del fatto che gli spostamenti dei rapporti di forza creano vuoti e che la percezione di una distrazione o di un disimpegno dalle aree che dipendono dalle garanzie di sicurezza americane viene sfruttata da potenze regionali vendicative o revisioniste in agguato, a cominciare da Russia e Iran. La guerra in Ucraina, che dura da venti mesi, e ora l’esplosione di violenza in Medio Oriente, sono manifestazioni di ricomposizioni geopolitiche che nascono dalla sensazione che il poliziotto del mondo sta guardando dall’altra parte.
Di fronte a queste crisi, l’amministrazione Biden, eletta con la promessa di ripristinare le alleanze e i partenariati danneggiati da Donald Trump, ha deciso di sostenere con determinazione i suoi alleati tradizionali. In questo, Joe Biden è fedele a una «certa idea di America», «la nazione più potente della storia», la cui «leadership è ciò che tiene insieme il mondo», come ha ricordato nel suo discorso alla nazione del 20 ottobre.
Ma la realtà è che queste operazioni sono tutti deragliamenti e battute d’arresto nell’attuazione del pivot. In questo modo, stanno generando un crescente dibattito negli Stati Uniti e mettono in discussione l’opportunità di un sostegno su larga scala all’Ucraina, a destra del partito repubblicano, e di un sostegno a Israele, a sinistra del partito democratico. La Cina, nel frattempo, non può che approfittare di questi ostacoli che complicano i calcoli americani.
La priorità di Washington nel breve e medio termine continuerà ad essere quella di potersi concentrare nuovamente e il più rapidamente possibile sul suo pivot, mentre il disimpegno dall’Europa e dal Medio Oriente rimane la direzione ormai presa dalla storia. Questa dinamica però è carica di rischi: in primo luogo per i partner americani, con la prospettiva di un passaggio politico nel 2024 che potrebbe significare una brusca inversione di metodo; in secondo luogo, per gli Stati Uniti, con il rischio che emergano nuove crisi nelle aree da cui si sta allontanando.
Le peripezie del poliziotto del mondo
Il pivot verso l’Asia è in linea con quella che l’ex vicesegretario alla Difesa Graham Allison ha definito la «trappola di Tucidide», ovvero la tendenza delle potenze egemoniche a entrare in conflitto con la potenza che sfida la loro supremazia, come lo storico greco descrisse la guerra del Peloponneso. In realtà, pur negando qualsiasi intenzione bellicosa, gli Stati Uniti sono chiaramente in grado di mantenere la loro posizione di forza in caso di confronto con la Cina.
In questo paradigma, l’emergere di conflitti che non hanno un legame diretto con la competizione con la Cina e che richiedono la mobilitazione di risorse da parte degli americani sono percepiti da molti funzionari ed esperti americani come «distrazioni» dall’obiettivo principale.
Queste distrazioni sono il risultato della sensazione dei critici statunitensi che l’America non sia più in grado di imporre l’ordine sulla scena internazionale, dopo tre decenni di erosione della capacità degli Stati Uniti di svolgere il ruolo di poliziotto del mondo. Gli anni ’90 sono stati il decennio dell’illusione della «fine della storia», della supremazia duratura degli Stati Uniti, illustrata dai successi degli interventi per sconfiggere l’Iraq nella seconda guerra del Golfo e per fermare la violenza nei Balcani occidentali. Al contrario, il primo decennio del 2000, iniziato con gli attentati dell’11 settembre, è stato il decennio degli interventi «impantanati» – in Afghanistan e soprattutto in Iraq – che si sono conclusi con un fallimento e con la prima seria sfida alla pretesa di egemonia degli Stati Uniti.
Alla luce di questi fallimenti, il decennio 2010 è stato segnato da scelte di non intervento, sia di fronte alla guerra internazionalizzata in Siria e ai crimini di Bashar al-Assad, sia di fronte alle annessioni russe della Crimea e del Donbass ucraino. Poiché queste guerre non riguardano direttamente la sicurezza americana, le amministrazioni Obama e Trump hanno scelto di lasciare la gestione di queste crisi agli attori regionali: Francia e Germania nel caso dell’Ucraina, attraverso gli accordi di Minsk; Turchia, Russia e Iran nel caso della Siria, attraverso il formato di Astana.
Nel decennio 2020, misuriamo le conseguenze di queste decisioni di non intervento: avranno avuto l’effetto di rafforzare e incoraggiare le potenze regionali e internazionali ostili all’Occidente: Russia, Iran, Cina e Turchia in particolare. Il nostro decennio è quello del ritorno di guerre ad alta intensità, in Ucraina, nel Caucaso, in Medio Oriente, un domani nello Stretto di Taiwan e forse nei Balcani occidentali, condotte o alimentate da queste potenze incoraggiate dal disimpegno americano – senza dimenticare gli altri conflitti aperti, in particolare nel Corno d’Africa e nella regione dei Grandi Laghi, meno legati al rimescolamento dei rapporti di forza.
Di fronte a queste crisi, l’amministrazione Biden ha optato per un approccio selettivo (ritirandosi dal Caucaso, ad esempio), ma è stata risoluta nell’affrontare i due conflitti che considera più importanti: la guerra della Russia contro l’Ucraina e la guerra tra Israele e Hamas, in contrasto con il suo disimpegno dall’Europa e dal Medio Oriente.
Sostegno all’Ucraina: salvare un legame transatlantico in bilico
Nella risposta all’aggressione russa all’Ucraina, la leadership americana si è rivelata decisiva. Il suo impegno immediato a favore di Kiev, sia a livello diplomatico che militare, in particolare fornendo l’equipaggiamento difensivo necessario a fermare le offensive russe (sistemi antiaerei, armi anticarro, lanciarazzi multipli), ha giocato un ruolo fondamentale nel vanificare i piani del Cremlino per una rapida vittoria. Ancora oggi, gli Stati Uniti rimangono di gran lunga il principale fornitore di aiuti militari all’Ucraina, con un totale di 47 miliardi di dollari, quasi la metà dei 100 miliardi di dollari di aiuti della comunità internazionale.
Allo stesso tempo, gli americani rafforzarono la loro presenza nel territorio coperto dalla NATO, come rassicurazione per gli alleati più esposti. Nei primi mesi dopo lo scoppio del conflitto, il numero di truppe statunitensi di stanza in Europa è passato da 80.000 a 100.000. Gli Stati Uniti hanno anche fornito una chiara leadership nella gestione e nella coesione della turbolenta famiglia transatlantica, temperando l’ardore del polo baltico o aiutando i tedeschi a superare le loro riserve nel trasferimento di equipaggiamenti pesanti all’Ucraina.
Queste decisioni invertono, almeno temporaneamente, una chiara tendenza al disimpegno. Nel 2020, ad esempio, Donald Trump ha ordinato il ritiro di 12.000 truppe dalla Germania, in un contesto di tensioni bilaterali. Allo stesso tempo, Washington ha cercato di utilizzare la NATO come veicolo per infondere nei suoi alleati le nuove priorità americane: condivisione degli oneri attraverso l’impegno ad aumentare la spesa per la difesa (fino al 2% del PIL con un Defence Investment Pledge), maggiore considerazione delle questioni legate alla Cina nel lavoro dell’Alleanza e consolidamento dei partenariati nell’Indo-Pacifico.
Tuttavia, questo rinnovato impegno in Europa è sempre meno consensuale. I recenti dibattiti al Congresso degli Stati Uniti hanno evidenziato la politicizzazione della questione del sostegno all’Ucraina, che non potrà che aumentare con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del novembre 2024. Oltre a Donald Trump, che ha dichiarato pubblicamente di voler «porre fine al conflitto in ventiquattro ore», gli altri candidati repubblicani sono accomunati dall’essere ostili alla continuazione dell’approccio «finché ce ne sarà bisogno» («as long as it takes») promosso dall’amministrazione Biden, sia che si tratti di Ron de Santis che di Vivek Ramaswamy, il quale ha, ad esempio, soppesato la preoccupazione di Washington per la sovranità dell’Ucraina con quella per la sicurezza del confine statunitense con il Messico.
Il proseguimento della politica di sostegno all’Ucraina avrà quindi un costo politico crescente per il candidato Biden, che deve affrontare critiche anche all’interno del suo stesso schieramento su questo tema, in particolare da parte dei «restrainers» che ritengono spetti all’Europa prendersi le responsabilità di primo davanti a una Russia ormai indebolita. A questo proposito, il fatto che Washington ospiti il prossimo vertice della NATO nell’estate del 2024, a poche settimane dalle elezioni, potrebbe essere un calice avvelenato per l’amministrazione Biden. Quest’ultima si troverà ad affrontare pressioni contraddittorie dalla politica interna, con l’opposizione che spinge per un disinvestimento sulla questione ucraina, e dalla politica estera, con gli alleati che spingono per promesse di sostegno a Kiev, a partire da impegni a favore dell’adesione dell’Ucraina alla NATO. L’attuale situazione di stallo della controffensiva ucraina, se continuerà, probabilmente non farà che irrigidire queste posizioni contraddittorie.
Se non siete più in Medio Oriente, sarà il Medio Oriente a venire da voi
In Medio Oriente, lo scoppio della guerra del Sukkot ha portato a una mobilitazione americana su larga scala: valzer diplomatico con visite del Presidente, del Segretario di Stato (tre in un mese) e del Segretario alla Difesa, discorso di Joe Biden alla Nazione, dispiegamento di gruppi aerei e navali intorno a due portaerei, tra cui la Ford – l’ammiraglia della Navy – e 900 rinforzi, oltre a 14 miliardi di dollari di finanziamenti richiesti al Congresso da Joe Biden.
Anche queste decisioni rappresentano una rottura di un altro raro consenso bipartisan: estraniarsi il più possibile da una regione con equazioni insolubili. Lo storico e massiccio coinvolgimento nella regione è stato guidato soprattutto dalle esigenze energetiche, portando a partnership opportuniste, come quella con l’Arabia Saudita.
Riducendo la propria dipendenza dagli idrocarburi, soprattutto attraverso lo sfruttamento di risorse statunitensi non convenzionali (gas e petrolio di scisto), gli Stati Uniti sembravano essere riusciti ad affrancarsi parzialmente da almeno tre campi minati dell’ultimo decennio.
Il primo è quello delle «guerre infinite», per usare l’espressione di Donald Trump, che ha fatto del disimpegno americano uno dei cavalli di battaglia della sua campagna presidenziale. Prima di lui, l’amministrazione Obama aveva già avviato il processo di ritiro dai due pantani dell’Afghanistan e dell’Iraq, nonostante sporadiche surges dettate dalle contingenze (Afghanistan 2009, Iraq 2014). Soprattutto, Barack Obama ha rifiutato di coinvolgere troppo gli Stati Uniti nelle crisi derivanti dalla «primavera araba». Soprattutto, ha deciso di non far rispettare la propria linea rossa sull’uso di armi chimiche in Siria e quindi di non intervenire contro il regime di Bashar al-Assad, aprendo la strada all’asse russo-iraniano in quel Paese, che da allora è andato sempre più rafforzandosi. Donald Trump, da parte sua, ha deciso unilateralmente di ritirare le truppe americane dalla Siria nord-orientale nel 2019, così come quelle schierate in Afghanistan, la cui effettiva partenza, a fronte di un’offensiva talebana, si è concretizzata sotto l’amministrazione Biden. Da allora, sebbene gli Stati Uniti abbiano mantenuto una presenza militare nella regione (45.000 soldati in 11 Paesi) e continuino a intraprendere azioni cinetiche in Siria e Iraq, si sono di fatto ritirati da teatri di crisi che avrebbero potuto condurli in una spirale negativa difficile da controllare.
Il secondo campo minato su cui Washington ha ottenuto risultati è la lotta al jihadismo internazionale proiettato dalla regione, grazie all’azione decisiva della Coalizione internazionale contro Daesh, riunita e guidata dagli Stati Uniti. Il principale risultato di questa coalizione è quello di aver sconfitto l’autoproclamato califfato dello Stato Islamico a cavallo tra Siria e Iraq, con l’aiuto sul campo dei suoi proxy nelle Forze democratiche siriane, a maggioranza curda. Il terrorismo non è scomparso, né sono scomparse le cause che lo alimentano – o la Coalizione contro Daech, se è per questo – ma questa vittoria militare ha certamente posto fine al potere di attrazione e di disturbo dello Stato Islamico.
Il terzo era quello di integrare Israele nel suo contesto regionale, normalizzando le sue relazioni con alcuni Paesi arabi, il cui fulcro sono gli accordi di Abramo, siglati dall’amministrazione Trump con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, seguiti da accordi separati con il Marocco e il Sudan. L’idea di fondo era quella di costruire un blocco in grado di ridurre le possibilità di conflitto regionale e, allo stesso tempo, di unire le forze contro un rivale comune, la Repubblica Islamica dell’Iran, riducendo il peso per l’America.
L’amministrazione Biden ha proseguito questo sforzo facilitando un accordo storico per la demarcazione del confine marittimo tra Israele e Libano, ufficialmente in stato di guerra. Soprattutto, ha lavorato per ottenere una normalizzazione ancora più significativa tra Israele e Arabia Saudita, che era ben avviata prima della guerra del Sukkot. Così facendo, Joe Biden ha a sua volta cercato di ottenere un importante successo diplomatico regionale da sbandierare in faccia a Trump, ma anche davanti a successo (perlomeno d’immagine) della Cina nella regione, mediando un riavvicinamento tra l’Iran e l’Arabia Saudita (in realtà raccogliendo i frutti degli sforzi condotti soprattutto dall’Iraq e dall’Oman). Sebbene non sia possibile stabilire in che misura questa prospettiva di riavvicinamento saudita-israeliano sia stata un fattore di innesco di nuove ostilità nella regione da parte dell’asse Hamas-Hezbollah-Iran, certamente è stato un fattore importante sullo sfondo.
Fino a quest’ultimo episodio di conflagrazione, il processo di disimpegno americano non aveva migliorato significativamente la stabilità della regione, ma non l’aveva nemmeno danneggiata. Privando gli attori regionali del loro capro espiatorio preferito, ma anche per molti di loro di un partner essenziale per la sicurezza, si sono trovati costretti a riflettere sullo sviluppo di nuovi partenariati, tra di loro e con altri attori extraregionali. L’impatto è stato positivo su una serie di tensioni e divisioni, che si sono ridotte. Questo vale in particolare per la frattura, più acuta che mai dopo la Primavera araba, tra i Paesi che sostengono l’Islam politico (Turchia, Qatar, Libia (Tripoli)) e quelli che vedono quest’ultimo come una grave minaccia (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Siria), Ne sono un esempio la fine della frattura tra Doha da un lato e Riyadh e Abu Dhabi dall’altro, il processo di reintegrazione regionale del regime di Bashar al-Assad, la relativa attenuazione delle guerre in Yemen e Libia e il disgelo delle relazioni di Ankara con l’asse anti-Fratellanza Musulmana.
Gli Stati Uniti hanno quindi pensato di poter continuare a ridurre significativamente il proprio coinvolgimento nel complicato Medio Oriente. Come segno dei tempi, nell’ultima revisione della difesa nazionale statunitense per il 2022 3, il Medio Oriente è stato declassato nella gerarchia delle principali sfide per la sicurezza.
Questo senza considerare l’aporia iraniana, su cui gli Stati Uniti stanno ancora inciampando. In primo luogo, perché l’Iran ha la capacità di far esplodere i campi minati di cui sopra, in particolare attraverso i suoi proxy: Hamas, Hezbollah, le milizie irachene e gli Huthi. In secondo luogo, perché si tratta di un importante pomo della discordia tra i Repubblicani, che sostengono la massima pressione su Teheran, e i Democratici, eredi del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), il processo di dialogo progettato per cercare di controllare le ambizioni nucleari dell’Iran in cambio di un adeguamento delle politiche sanzionatorie statunitensi. Questo processo, avviato nel 2014, prima seppellito da Trump e poi resuscitato da Biden, è ora più morto che mai, ma non ancora dichiarato tale. Inoltre, è stata certamente un’ingenuità da parte di Washington credere che a Israele sarebbe bastato avere più amici arabi per evitare la questione palestinese, mentre la colonizzazione della Cisgiordania accelerava e Gaza continuava a soffrire di un blocco.
La guerra del Sukkot rappresenta quindi un «grande passo indietro» per la diplomazia americana, costretta a tornare ai fondamenti del «sostegno incondizionato» a Israele, con l’effetto di compromettere, per un periodo indefinito, gli sforzi di normalizzazione regionale a cui i Paesi arabi presi di mira sono comunque legati, ma che stanno diventando politicamente impraticabili man mano che Gaza e la sua popolazione vengono schiacciati militarmente. Questo sostegno ha anche il costo di aumentare il discredito di una parte significativa dell’elettorato democratico, che per la prima volta nella sua storia nel 2023 ha mostrato più «simpatia» per la Palestina che per Israele, secondo un sondaggio Gallup 4 pubblicato ancora prima dello scoppio delle ostilità.
Il grande «vincitore» in questa situazione è la Cina, che ha perso qualche punto nei confronti di Israele a causa della sua tiepida reazione agli attacchi terroristici di Hamas, ma che mantiene e addirittura aumenta la sua credibilità presso i Paesi arabi e la maggioranza dell’opinione pubblica internazionale per il suo costante e chiaro sostegno alla causa palestinese.
Il rompicapo della definizione delle priorità
Con i grandi conflitti in Ucraina e in Israele/Palestina, la strada verso il pivot è più dissestata che mai. La crisi politica negli Stati Uniti per la nomina del nuovo Speaker della Camera dei Rappresentanti ha evidenziato la difficoltà di fare una selezione tra le priorità. Già prima della guerra del Sukkot, la nomina era ostaggio della questione del sostegno all’Ucraina, i cui meriti erano contestati da una minoranza molto attiva di repubblicani MAGA, che ritenevano che i fondi sarebbero stati meglio utilizzati per rispondere alle sfide interne americane o per affrontare la Cina. La guerra tra Israele e Hamas ha rimescolato le carte in tavola, generando la necessità di un nuovo pacchetto di aiuti militari, a vantaggio dello Stato ebraico, esponendo così l’inutilità delle argomentazioni contro il sostegno all’Ucraina da parte di molti repubblicani che non vedevano più alcun vincolo di bilancio nell’aiutare Israele.
Alla fine è stato raggiunto un compromesso su un pacchetto complessivo di 106 miliardi di dollari, con una ripartizione interessante: 61 miliardi per l’Ucraina e 14 miliardi per Israele. Ci sono poi 14 miliardi destinati al controllo dell’immigrazione, per placare la destra repubblicana, e 9 miliardi per gli aiuti umanitari, soprattutto per la Palestina, per placare la sinistra democratica. Infine, ci sono 4 miliardi per contrastare l’influenza della Cina nei Paesi in via di sviluppo dell’Indo-Pacifico e 3,4 miliardi per la base di produzione di sottomarini, che può anche essere vista come diretta contro la Cina (vedi AUKUS). Questo declassamento della priorità dell’Indo-Pacifico ha suscitato le reazioni dei principali sostenitori del pivot, come Elbridge Colby 5, figura repubblicana di spicco in materia. Ha inoltre generato il timore di una «distrazione duratura» tra i partner dell’Indo-Pacifico che fanno maggiore affidamento sull’impegno americano con la Cina, in particolare Taiwan, Giappone e Corea del Sud, timore che il tour diplomatico del Segretario di Stato nella regione, dal 7 al 10 novembre, intendeva fugare.
Sebbene la manovra del «pacchetto globale» fosse l’unica in grado di sbloccare un nuovo pacchetto di aiuti per l’Ucraina e dimostrasse l’impegno degli Stati Uniti a sostenere i propri partner anche in un contesto di crisi multiple, essa comporta tuttavia rischi politici significativi. Innanzitutto, sebbene Israele e Ucraina condividano il principio dell’autodifesa, i due Stati si trovano in situazioni opposte di asimmetria militare. L’Ucraina sta combattendo contro uno Stato con il secondo esercito più grande del mondo e armi nucleari, che sta violando la sua sovranità e bombardando i suoi civili. Israele, invece, è uno Stato con un potente esercito e armi nucleari, che risponde a un atto terroristico bombardando una popolazione priva di sovranità.
Sostenendo questa risposta, gli Stati Uniti e più in generale l’Occidente confermano le accuse di doppio standard che si sono affannati a contestare fin dall’inizio della guerra contro l’Ucraina, per raccogliere consensi tra i Paesi del «Sud globale». Inoltre, collegare le due cose crea un precedente che potrebbe essere usato come argomento per tagliare gli aiuti all’Ucraina, che sono necessari a lungo termine, non appena gli aiuti a Israele non appaiono più necessari, cosa che dovrebbe accadere prima, per ragioni sia tattiche che politiche.
Pivot nella buona e nella cattiva sorte
Nonostante il crescente numero di ostacoli, la determinazione dell’America a perseguire il pivot non può essere messa in discussione e la sua capacità di attuarlo è stata ostacolata ma non minata. Anche se le guerre in corso impegnano le risorse americane, l’impatto di queste «distrazioni» sulla capacità degli Stati Uniti di competere con la Cina dovrebbe essere messo in prospettiva.
Innanzitutto, le risorse militari statunitensi rimangono senza paragoni, anche per la Cina, nonostante la sua crescita esponenziale. Così, mentre gli Stati Uniti sono i principali sostenitori dell’Ucraina e di Israele, sono comunque in grado di stanziare risorse colossali per l’Indo-Pacifico. Il budget per la sola Pacific Deterrence Initiative del Dipartimento della Difesa per il 2024, ad esempio, è di 9,1 miliardi di dollari.
In secondo luogo, l’argomentazione secondo cui le forniture all’Ucraina avrebbero un effetto di diversione sulle esigenze dell’Indo-Pacifico non è fondata. Uno studio di Michael Allen e Connor Pfeiffer, ad esempio, mostra che c’è una sovrapposizione molto ridotta tra le attrezzature fornite all’Ucraina e quelle necessarie a Taiwan. Gli autori sottolineano che, per far fronte a un’invasione cinese, Taiwan deve innanzitutto sviluppare le sue piattaforme sottomarine e le sue navi d’attacco veloci e ottenere bombardieri, sottomarini d’attacco, missili ipersonici e antinave dai suoi partner. Le capacità critiche per l’Ucraina, come i veicoli corazzati, i missili terra-aria e aria-terra o i proiettili di artiglieria, non sono quindi le esigenze più critiche per Taiwan.
Allo stesso modo, il sostegno militare a Israele non dovrebbe essere un pozzo senza fondo per gli americani, se riescono a evitare una conflagrazione regionale. In primo luogo, perché Israele dispone di un esercito capace e di un’industria degli armamenti ad alto rendimento, che gli conferiscono una certa autonomia d’azione di fronte a un avversario di forza inferiore. In secondo luogo, i recenti pacchetti a favore di Israele dovrebbero essere visti come segnali di rassicurazione in risposta allo shock degli attacchi del 7 ottobre. Si tratta quindi di un misto di promesse all’opinione pubblica filo-israeliana negli Stati Uniti in un contesto pre-elettorale, di emozioni sincere da parte di Joe Biden e Antony Blinken, ma anche di un mezzo per tenere sotto stretto controllo il governo Netanyahu per evitare un’escalation incontrollabile.
Infine, per gli Stati Uniti il sostegno ai partner non è separato dall’equazione Cina, e l’amministrazione americana si aspetta ricadute positive. In primo luogo, conta su una forma di reciprocità quando si chiederà ai partner di venire in aiuto degli americani contro la Cina. In secondo luogo, questo sostegno risponde alla necessità di deterrenza, in particolare di fronte all’aggressione cinese contro Taiwan, dimostrando la determinazione degli Stati Uniti e dei suoi alleati a difendere i loro partner. Questi impegni sono anche messaggi per Pechino, che scruta e analizza ogni reazione americana.
Questo approccio, fortemente guidato dalle personalità di Joe Biden e Antony Blinken, potrebbe cambiare radicalmente tra un anno, se fosse eletta una nuova amministrazione repubblicana. Come durante il primo mandato di Donald Trump, il ritorno di un’America isolazionista potrebbe almeno avere il pregio di indurre europei e mediorientali a reinvestire seriamente nella loro sicurezza e a ridurre la loro dipendenza dagli Stati Uniti.
Ma la difficoltà principale resterà quella degli strascichi che questo pivot porterà. La sensazione di non avere un poliziotto continuerà a incoraggiare la cruda espressione dei rapporti di forza, con una sensazione di impunità, come ha dimostrato recentemente l’Azerbaigian svuotando il Nagorno-Karabakh della sua popolazione armena, senza reazioni occidentali e senza conseguenze. Nuovi episodi di tensione sono possibili nei Balcani occidentali, tra i conflitti congelati dello spazio post-sovietico o i molti conflitti tiepidi in Medio Oriente. Tuttavia, trascurare queste crisi avrà sempre un costo per gli Stati Uniti, anche in termini di leadership e capacità di deterrenza di cui Washington ha bisogno per affrontare la competizione con la Cina da una posizione di forza.Per gli europei, ciò significa che l’unica certezza sulla politica estera degli Stati Uniti è che il proseguimento del pivot significherà che essi dovranno gestire una parte crescente delle questioni di sicurezza che li riguardano. L’intuizione dell’«autonomia strategica europea» promossa da Parigi e Bruxelles è quindi giusta e, in teoria, è in linea con la richiesta degli Stati Uniti di una condivisione più equilibrata degli oneri. In pratica, però, il concetto continua ad essere rifiutato dalla maggioranza degli Stati europei, che non riescono a concepire la sicurezza europea se non sotto l’ombrello americano, cosa che Washington non ha mai cercato seriamente di negare. Una delle principali sfide per le relazioni transatlantiche da qui alle elezioni presidenziali americane del novembre 2024 sarà quindi quella di lavorare per un passaggio di responsabilità coordinato e concertato per l’Europa, in modo che l’eventuale oscillazione americana sia la meno dolorosa possibile per il nostro continente.
Note
- U.S. Department of Defense, «U.S. Focuses on Deterrence as China Raises Stakes in Indo-Pacific», 24 October 2023.
- Philippe Le Corre, «Quel bilan pour le «pivot» asiatique de Barack Obama ?», IRIS, 2 novembre 2016.
- U.S. Department of Defense, «National Defense Strategy of the United States of America», 2022.
- Gallup, «Democrats’ Sympathies in Middle East Shift to Palestinians», 16 March 2023.
- Post su X del 29 ottobre 2023.