Gli «Eventi» in superficie, le «strutture» in basso. È davvero così? Cosa significa dire che alcuni cambiamenti fondamentali si svolgono a un livello più profondo della causalità storica? Le improvvise esplosioni di violenza e di guerra riflettono in qualche modo transizioni socioeconomiche a lungo termine; seguono percorsi causali separati che a volte interagiscono come nel 1973-74; sono meramente contingenti? Oppure le strutture sono solo eventi visti nello specchietto retrovisore? Una metafisica per la storiografia? I commentatori di sinistra tendono a credere nella connessione; quelli di destra la vedono come un alibi. Purtroppo, vista la nuova ondata di violenza in Medio Oriente, è un buon momento per riaprire questa indagine perenne.
I violenti attacchi di Hamas in Israele e il cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur del 1973 sfidano gli storici e gli scienziati sociali a cercare collegamenti tra sviluppi apparentemente molto diversi. Non azzarderò un’analisi della spaventosa violenza di questi giorni, ma cercherò un collegamento tra la guerra di cinquant’anni fa e la formidabile ascesa del neoliberismo. La breve guerra del 1973 iniziò con un attacco a sorpresa egiziano e siriano che sembrava presagire un disastro per Israele, ma si trasformò rapidamente in un ribaltamento militare su entrambi i fronti. Temendo un intervento sovietico a favore delle forze egiziane e siriane, forse in modo ossessivo, il Segretario di Stato americano Henry Kissinger si adoperò per imporre un cessate il fuoco, e minacciò Mosca se avesse cercato un punto d’appoggio in Medio Oriente. A suo dire, contenne una minaccia regionale che rischiava di minare il più ampio equilibrio Est-Ovest a favore della Russia. Lavorando per garantire la leadership degli Stati Uniti tra i Paesi consumatori di petrolio, affrontò anche una sfida interna all’Occidente causata dagli sforzi francesi post-gollisti per cercare un’autonomia strategica.
Kissinger e i responsabili politici americani in generale erano ossessionati dalla guerra fredda globale, cosa che non sorprende data la lunga e dolorosa guerra in Vietnam, conclusasi con la sconfitta americana tra il 1973 e il 1975. Il Segretario di Stato americano accettò, se non incoraggiò, il brutale colpo di Stato militare di Augusto Pinochet in Cile contro il governo marxista di Salvador Allende nel 1973 e temette un esito marxista della Rivoluzione portoghese dei Garofani nel 1974, che i portoghesi stessi scongiurarono. I movimenti radicali e rivoluzionari avevano però uno slancio più generale rispetto alla rivalità della Guerra Fredda: si inserivano in una competizione globale per la distribuzione della ricchezza e del potere, sia all’interno dei contesti nazionali sia tra le ex potenze coloniali e le loro colonie.
Senza pretendere di risolvere la questione metodologica generale della relazione tra eventi e strutture, possiamo affermare che gli eventi degli anni ’70 facevano parte di una profonda trasformazione storica globale, che deve essere posta sullo stesso piano delle guerre mondiali o della crisi economica mondiale degli anni ’30. Naturalmente, la storia è cumulativa: ogni sviluppo, che si tratti della Rivoluzione francese, della Prima guerra mondiale, della crisi economica globale o degli anni ’30 o della presa di potere nazista, emerge da condizioni precedenti. Tuttavia, alcuni cambiamenti sembrano più fondamentali di altri. Introducono nuovi attori, precludono le opzioni precedenti, sembrano accelerare il ritmo della storia. Il 1973 è stato un momento di questo tipo – più precisamente gli eventi dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70 hanno rappresentato un momento di questo tipo. Hanno messo in discussione le premesse neokeynesiane dell’economia politica all’interno dei singoli Stati nazionali – e l’ordine geopolitico guidato dagli Stati Uniti, basato sul capitalismo supportato dallo Stato, il sistema che si era evoluto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.
Ma ritorniamo agli eventi: le nazioni arabe imposero un embargo petrolifero quando l’azzardo militare si rivolse contro di loro, e poi, nel gennaio 1974, scambiarono l’embargo con un aumento di quasi quattro volte del prezzo del greggio. Nel 1979 imposero un altro aumento, che triplicò i prezzi. Queste azioni segnarono la fine della crescita economica senza precedenti di cui l’Europa e l’Occidente avevano goduto dalla fine degli anni Quaranta. Imposero sia un aumento inflazionistico dei prezzi che una tassa deflazionistica sull’attività economica nazionale. I governi occidentali e il Giappone si affannarono a gestire l’inflazione prodotta dall’aumento dei prezzi e poi, per alcuni, la recessione provocata dalle contromisure monetarie che seguirono. L’embargo petrolifero e l’aumento dei prezzi segnarono la fine dei cosiddetti «trente glorieuses». I tassi di crescita medi annui del PIL nelle otto principali economie capitalistiche – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Repubblica Federale Tedesca, Svezia, Giappone e Canada – si ridussero di circa la metà dagli anni ’60 agli anni 1974-1980, mentre i tassi di inflazione raddoppiarono o triplicarono a raffica dopo i due aumenti del prezzo del petrolio (OPEC I e OPEC II).
La fine dell’acquiescenza dei produttori di petrolio scosse i precedenti rapporti clientelari che regolavano i regimi del Medio Oriente e l’Occidente, minando in particolare quella una monarchia iraniana che appariva il cagnolino degli occidentali e provocando una rivoluzione basata su principi islamici rigorosi e addirittura teocratici. Ha anche contribuito a inaugurare un’ampia reazione allo sviluppo prevalente, anche se incoerente, di quello che può essere definito lo Stato sociale keynesiano – un’economia politica basata sulla gestione fiscale e della banca centrale che mirava a un’elevata, se non piena, occupazione, alla crescita economica e a diversi gradi di programmi sociali e di ridistribuzione del reddito. Possiamo definire questo mix di politiche un programma socialdemocratico, anche se le etichette nazionali e l’intervento pubblico variavano. Questo programma ha prevalso in larga misura nell’Europa occidentale e settentrionale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’60. Persino la Repubblica Federale Tedesca, così influenzata dagli economisti ordoliberali e apparentemente allergica a qualsiasi tipo di finanziamento in deficit, aveva invece scommesso su un bilancio in deficit quando, nel 1966, si paventava una recessione.
Gli accordi di Bretton Woods del 1944, che hanno conferito al dollaro americano lo status di valuta di riserva internazionale, erano stati concepiti per evitare una ricaduta nelle crisi di liquidità internazionali dei primi anni ’30. Alla fine degli anni ’60 però funzionarono piuttosto per trasmettere le pressioni inflazionistiche americane all’estero, dal momento che l’amministrazione Johnson si rifiutò di aumentare le tasse per finanziare lo sforzo bellico in Vietnam, che era notevolmente cresciuto. I tedeschi furono costretti ad aumentare la parità del marco tedesco nel 1969 e nel 1970, e nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti annunciarono che non avrebbero più mantenuto gli obblighi di cambiare dollari con l’oro che avevano accettato nel quadro di Bretton Woods. Ma il dollaro rimase comunque una valuta di riserva globale de facto e all’inizio del 1973 furono fissate nuove parità di cambio. L’aumento dei prezzi dell’OPEC un anno dopo, tuttavia, aumentò la pressione inflazionistica e a metà del decennio le valute vennero in gran parte lasciate fluttuare liberamente. A differenza degli anni ’60, quando i lievi aumenti dell’inflazione sembravano abbassare i livelli di disoccupazione – una relazione nota come curva di Phillips – la nuova inflazione non sembrava più stimolare i livelli di occupazione. Ci si stabilizzò su un modello di «stagflazione». Un secondo ciclo di aumenti dei prezzi dell’OPEC alla fine del 1978 provocò un nuovo ciclo di inflazione – e quello che potremmo definire un keynesismo demoralizzato.
Quello fu il momento della grande penitenza. Alla fine degli anni ’70, la maggior parte delle coalizioni di partiti, basate su partiti di centro-sinistra e socialdemocratici, avevano perso il potere. Il governo laburista di Callaghan avrebbe perso contro Margaret Thatcher; il Presidente Jimmy Carter sarebbe stato sostituito da Ronald Reagan, che durante il dibattito televisivo della campagna elettorale chiese drammaticamente: «State meglio ora di quattro anni fa?». I socialisti svedesi avrebbero lasciato il governo per la prima volta dal 1932. I socialisti greci (Pasok) e il nuovo Partito socialista francese di François Mitterand avrebbero invertito la tendenza nel 1981, ma queste vittorie rappresentavano una reazione contro la tenuta a lungo termine dei regimi più conservatori e Mitterand avrebbe fatto un’inversione di rotta verso una politica economica moderata nel 1983. L’onda della sinistra sarebbe cresciuta, sarebbe rifluita e si sarebbe infine frammentata.
Con gli anni ’70 arrivò il ripudio della precedente ondata di «apertura» politica – lo sforzo attraverso gli anni ’60, sia nella Chiesa cattolica di Papa Giovanni XXIII, sia nelle lotte razziali americane, sia nell’«apertura a sinistra» italiana, sia nei movimenti radicali in America Latina e in Africa, e naturalmente nella lotta del Vietnam del Nord contro gli Stati Uniti, per trasformare il mondo politicamente e ideologicamente. Le manifestazioni studentesche in tutto il mondo nel 1968; le richieste dei lavoratori di adeguamenti salariali e la loro disponibilità a ricorrere agli scioperi; l’autunno caldo in Italia, seguito dagli attacchi terroristici in Germania e in Italia. Le proteste pubbliche che scossero molte società alla fine degli anni ’60 assomigliavano alle rivoluzioni del 1848, ma ora erano la primavera degli studenti e quella dei popoli.
Una nuova generazione di studenti che seguiva l’espansione dell’istruzione superiore negli anni ’50 e ’60 si era mobilitata, entusiasta dei movimenti contadini radicali che vedevano trasformare il mondo capitalista a Cuba, poi in Cile, Angola, Vietnam e, si sperava, presto a Berkeley e Berlino. Nel 1974, il blocco delle nazioni non allineate all’ONU chiese un Nuovo ordine economico internazionale che avrebbe ridistribuito la ricchezza dei Paesi industrializzati alle economie meno sviluppate. E, per avere una scala a livello di campus universitario, ricordo che alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 molti dei miei studenti, entusiasti delle prospettive di cambiamento radicale, anche dopo che le loro stesse proteste violente si erano esaurite, vollero studiare gli anarco-sindacalisti nella Guerra Civile spagnola. Verso la metà degli anni ’70 il loro fervore si attenuò; non scelsero più di scrivere saggi su Omaggio alla Catalogna di George Orwell. Si concentravano sul governo laburista britannico del 1945.
Il movimento noto come neoliberismo avrebbe preso il sopravvento nella retorica e nella politica. La nuova visione prevalente celebrava la razionalità dei mercati come via al progresso economico. Gli economisti della public-choice dimostrarono che le burocrazie governative cercavano sempre di espandere la loro influenza e non c’era modo di imporre loro una forma di efficienza. I corpi elettorali avrebbero sempre ampliato la spesa pubblica, poiché i benefici sembravano così evidenti, mentre il finanziamento del deficit nascondeva i costi.
Le forze della stabilità recuperarono il loro equilibrio. I consigli offerti ai Paesi in via di sviluppo divennero noti come Washington consensus: includevano l’apertura agli investimenti stranieri e la privatizzazione dei monopoli minerari e delle imprese statali. La creazione della Commissione Trilaterale nel 1973, che avrebbe da quel momento parlato a nome delle istituzioni capitalistiche del nordamericane, europee e giapponesi, segnalò un nuovo sforzo centrista per recuperare il controllo delle agende domestiche dopo le rivolte studentesche del 1968-69 e lo spettacolo delle nuove iniziative di sinistra, come la prima Giornata della Terra del 1970, l’esplosione delle politiche femministe o una proto coalizione arcobaleno che sembrò prendere il controllo della convention del Partito Democratico degli Stati Uniti, che nominò come candidato alla presidenza nel 1972 il progressista George McGovern. In America Latina, il regime marxista di Salvador Allende fu rovesciato da una giunta di destra guidata da Augusto Pinochet, sotto lo sguardo dell’amministrazione americana. Seguirono repressioni gravi e violente in Cile, in Argentina e in Brasile.
Il neoliberismo non era solo una reazione del mercato ai regimi socialdemocratici; era un processo politico attivo, a volte imposto con la violenza nel Terzo Mondo, dove i militari avevano la forza, oppure attuato in Occidente da partiti ideologicamente motivati. In modo altrettanto significativo, tuttavia, i partiti della sinistra socialdemocratica si ritirarono, trasformando le aspirazioni dei loro programmi. I sociologi cambiarono le loro diagnosi dei bisogni sociali. I principali pensatori parlarono di una società post-industriale di nuove classi sociali. Tony Giddens, il teorico del New Labour di Tony Blair, prevedeva «un nuovo patto tra i benestanti e i poveri» basato su cambiamenti di stile di vita e «una nozione ampia di welfare, che allontanava il concetto dalle provvidenze economiche per gli indigenti verso la promozione dell’io autotelico». Non era chiaro se gli indigenti dovessero diventare meno indigenti o i privilegiati meno privilegiati.
Lo smarrimento della sinistra europea, sia in termini di programma che di risultati elettorali, è stato talvolta attribuito al formidabile crollo non violento del comunismo in Russia e nell’Europa centro-orientale alla fine degli anni ’80. Il comunismo di tipo sovietico sembrava in declino terminale dopo l’intervento di Mosca in Cecoslovacchia nel 1968 e il pericolo di una repressione in Polonia nel 1981. I giovani di sinistra avevano da tempo spostato le loro speranze e la loro ammirazione sulla Cina e/o sui movimenti rivoluzionari contadini, compreso il Fronte di liberazione nazionale in Vietnam. È più sensato vedere il fallimento degli esperimenti di Gorbaciov con la Perestrojka e la Glasnost come parte della più ampia decadenza del riformismo socialdemocratico tra anni ’70 e ’80.
I mercati, non lo Stato, vennero celebrati come il meccanismo di coordinamento della società agli occhi degli intellettuali e dei politici. Non sorprende che i programmi pubblici ideati per ammorbidire i risultati del mercato si arenassero. Mentre le nuove politiche avevano aiutato le società contadine a uscire dalla povertà – soprattutto le riforme di mercato cinesi introdotte da Deng Xiaoping dopo il 1978 – e ridotto i livelli di disuguaglianza tra i Paesi, le disuguaglianze di reddito aumentavano all’interno delle società. Non possiamo attribuire il risultato solo al riorientamento ideologico. Gli ultimi cinquant’anni hanno portato un’enorme ondata di innovazioni tecnologiche, paragonabili a quelle prodotte dalla rivoluzione industriale fondata del carbone e dell’acciaio. Alcuni progressi – i viaggi aerei di massa e la containerizzazione – si basavano su innovazioni nel trasporto di persone e merci. Ma la tecnologia digitale ha rivoluzionato la trasmissione e l’approfondimento delle idee attraverso i confini. La nuova economia globale, inoltre, ha raddoppiato la quota delle società finanziarie nella produzione nazionale degli Stati Uniti tra il 1945 e il 2006 – banche e società di investimento che acquistano e vendono aspettative sul futuro. La linea di demarcazione tra l’economia produttiva e l’economia sulla carta è diventata più fragile.
La nuova economia politica ha subito una battuta d’arresto a seguito della grande crisi del 2009-11. Come molti grandi movimenti storici, il neoliberismo ha provocato una reazione politica – non più, però, un movimento conservatore tradizionale, ma un populismo plebiscitario guidato da questo o quello aspirante uomo forte. Come ha spiegato Viktor Orban, il primo ministro ungherese che ha coniato il termine democrazia illiberale, la crisi del 2009-10 è stata per la sua generazione l’equivalente del 1914 di un secolo prima: la corsa non era più alla competitività economica. Si trattava di creare una comunità e uno Stato competitivi – «uno Stato illiberale, uno Stato non liberale».
Lo Stato populista illiberale è un’alternativa davanti al risentimento di una popolazione che sente di perdere terreno e di rispetto. Il fanatismo omicida del terrorismo è un’altra. Ognuno di essi si manifesterà intensamente in diversi scenari locali. Una lezione, però, è chiara: questi malcontenti, razionali in alcuni casi, deformati e inconciliabili in altri, non possono essere superati solo con i meccanismi di mercato. Le istituzioni politiche e gli Stati solidi sono fondamentali. La democrazia liberale deve superare la dottrina fatale secondo cui i risultati del mercato assicurano la solidarietà sociale.