In molte famiglie italiane resta una memoria viva dello «choc petrolifero» del 1973. I nonni ricorderanno le «domeniche a piedi» o il TG1 anticipato dalle 20:30 alle 20 per far spegnere la luce prima. Strofe come «la benzina ogni giorno costa sempre di più» cantate da Celentano o «dammi un litro di oro nero» gridata da Rino Gaetano fanno parte oramai del nostro patrimonio musicale. Cose simili valgono per tutti i Paesi industrializzati.

Il 1973 viene ricordato indifferentemente come l’anno della «crisi», dello «choc», oppure de «l’embargo» petrolifero. Sono termini che evocano una calamità abbattutasi inspiegabilmente sulle prospere società occidentali, oppure una congiura ordita dagli «sceicchi del petrolio» (definizione entrata nella vulgata proprio allora) per punire Israele e i suoi alleati. A questa narrativa ha dato un contributo anche uno dei grandi storici del ‘900, Eric Hobsbawm, che nel suo «Il secolo breve» ha descritto il 1973 come il segnale della campanella per l’età dell’oro, l’anno in cui il mondo «ha perso le sue coordinate, per sprofondare nell’instabilità e nella crisi».

Il 1973 viene ricordato indifferentemente come l’anno della «crisi», dello «choc», oppure de «l’embargo» petrolifero

Giuliano Garavini

Questa narrativa è in parte fuorviante: in molti Paesi europei le misure di «austerità», quali la riduzione degli orari di lavoro o il blocco alla circolazione domenicale delle auto, vennero accolte con sollievo da cittadini assediati dalla smog e dall’inquinamento urbano, ormai sensibilizzati alla questione ambientale. Soprattutto tende a ridimensionare la portata del 1973 come uno scossone ad assetti economici e politici mondiali oramai in crisi. Per capire la portata di quella che sarebbe meglio definire come «rivoluzione petrolifera» bisogna anzitutto sgombrare il campo da un equivoco di fondo: e cioè dall’identificazione tra l’embargo e l’esplosione dei prezzi del petrolio, due episodi che si manifestarono in parallelo, pur rispondendo a logiche completamente differenti.

Partiamo dal cosiddetto «embargo». Il 17 ottobre del 1973 dieci Paesi arabi esportatori di petrolio, riuniti in Kuwait come membri di un’organizzazione chiamata OAPEC (Organizzazione dei paesi arabi esportatori di petrolio, la «a» qui è importante), trascinati dall’Arabia Saudita e dall’Algeria, decisero di ridurre la produzione di petrolio a supporto degli eserciti di Siria ed Egitto, impegnati in un conflitto con Israele iniziato il 6 ottobre, durante la festività ebraica dello Yom Kippur o del Ramadan nel calendario islamico. Poco giorni dopo, gli stessi Paesi OAPEC misero in atto anche un «embargo», o meglio, un boicottaggio, contro i Paesi considerati ostili (in primo luogo, ma non solo, gli Stati Uniti che con un ponte aereo rifornivano di armi l’esercito israeliano). L’obiettivo era di indurli a mettere sotto pressione lo Stato ebraico, spingendolo a ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e a riconoscere i diritti del popolo palestinese. I tagli alla produzione e poi l’embargo, che fecero mancare tra il 5 e il 13% del petrolio commerciato al mondo per i 5 mesi in cui furono in vigore, imposero la questione palestinese nel dibattito pubblico internazionale, avvicinarono l’Europa occidentale così come il Giappone alla causa palestinese, e spronarono l’attivismo del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger nel mediare tra le parti in causa. L’embargo venne formalmente revocato il 18 Marzo 1974, senza che avesse conseguito successi sul piano del ritiro israeliano. Sarebbe stata l’ultima volta in cui i petrostati arabi avrebbero usato l’arma del petrolio a sostegno della causa palestinese, o per qualunque altra motivazione politica.

In molti Paesi europei le misure di «austerità», quali la riduzione degli orari di lavoro o il blocco alla circolazione domenicale delle auto, vennero accolte con sollievo da cittadini assediati dalla smog e dall’inquinamento urbano, ormai sensibilizzati alla questione ambientale

Giuliano Garavini

Torniamo invece indietro al 16 ottobre, cioè al giorno prima prima della decisione su l’«embargo» presa dagli esportatori arabi. Ci troviamo sempre a Kuwait City, dove questa volta un gruppo di ministri in rappresentanza dell’OPEC (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio nata nel 1960 che  raggruppava i maggiori Paesi esportatori di petrolio al mondo – molti dei quali non arabi, per esempio l’Iran e il Venezuela che nel ’73 rifornivano Israele) avevano deciso, per la prima volta nella storia dell’OPEC, di imporre unilateralmente alle multinazionali petrolifere un nuovo prezzo di riferimento del petrolio, che passava così da 3,65 a 5,11 dollari al barile. Il ministro del Petrolio saudita Zaki Yamani, il cui pizzetto abbinato al raffinato eloquio inglese erano oramai una presenza fissa sui media internazionali, festeggiò dichiarando: «Il 16 Ottobre è stato il punto di non ritorno. E’ stato il giorno in cui l’OPEC ha conquistato il potere. Il vero potere». Poi, il 22 Dicembre del 1973 sempre l’OPEC, riunitasi questa volta a Tehran, decise di raddoppiare nuovamente i prezzi di riferimento fino a 11,651 dollari al barile. Questa decisione, con prezzi del greggio oramai quadruplicati in meno di sei mesi, dopo oltre vent’anni di declino apparentemente inesorabile, segnò l’apice della rivoluzione petrolifera del 1973, e si configurò allora come il più massiccio e rapido trasferimento della ricchezza da una parte all’altra globo nella storia dell’umanità. Lo Shah alla fine della riunione, rigirando il coltello nella piaga, dichiarò che il petrolio andava ormai considerato un «prodotto nobile» che si «sarebbe esaurito nel giro di 30 anni» e che il nuovo prezzo avrebbe permesso anche lo sviluppo di fonti alternative.

Un evento epocale come la rivoluzione petrolifera del 1973 non può spiegarsi con le bizze dei potenti o con le, sia pur drammatiche, increspature della politica mediorientale. Esso va considerato l’esito di grandi fenomeni strutturali.

La decisione di aumentare i prezzi del greggio, dopo oltre vent’anni di declino apparentemente inesorabile, segnò l’apice della rivoluzione petrolifera del 1973, e si configurò allora come il più massiccio e rapido trasferimento della ricchezza da una parte all’altra globo nella storia dell’umanità

Giuliano Garavini

In primo luogo il petrolio, la cui domanda nei Paesi occidentali cresceva a ritmi superiori alla crescita del Pil, era diventato la prima fonte di energia primaria al mondo già all’inizio degli anni ’60, e da esso dipendeva oramai il sistema linfatico dell’industria, della società dei consumi, fino alla stessa articolazione degli spazi urbani occidentali. In altre parole, il petrolio stava alla base di quello che oggi viene definita «l’accelerazione dell’Antropocene», cioè di quell’era in cui l’uomo si è trasformato in un fattore geologico in grado di rivaleggiare con le forze della natura nel trasformare il Pianeta. Ebbene, alla fine degli anni ’60, il principale produttore mondiale di petrolio (gli Stati Uniti) e il principale esportatore mondiale (Il Venezuela) avevano apparentemente esaurito la loro capacità di spremere i giacimenti, raggiungendo il picco della produzione. Largamente maggioritari erano i timori, ben rappresentati dal successo del rapporto del Club di Roma sui «Limiti della crescita» diffuso nel 1972, riguardo l’imminente esaurimento delle risorse naturali.

Il secondo fenomeno strutturale consisteva nella volontà dei Paesi in via di sviluppo, o del Terzo Mondo (come allora si definivano), di accelerare il proprio sviluppo economico anche attraverso la nazionalizzazione e la presa in carico dei propri settori economici strategici (il primo paese OPEC a nazionalizzare l’industria petrolifera fu l’Algeria nel 1971, presto seguito con forme e modalità differenti da tutti gli altri), nonché attraverso l’aumento dei prezzi delle materie prime da loro esportate. Lo storico Geoffrey Barraclough chiosava nel 1975: «Quello che abbiamo visto è l’inizio di nuovo ordine mondiale, la ricerca di posizioni di forza in un riallineamento globale, in cui le armi […] sono prodotti agricoli e benzina».

In terzo luogo dietro la crisi energetica si celava la crisi del dollaro nel 1971. La fine del cambio fisso tra l’oro e il biglietto verde, moneta perno del sistema monetario internazionale nonché riferimento per gli scambi delle materie prime, aveva fatto traballare l’ordine di Bretton Woods. I paesi dell’OPEC, almeno una parte consistente dei suoi membri, sospinti dal prestigio acquisito con nazionalizzazioni e rialzo dei prezzi, parteciparono da protagonisti al dibattito sull’edificazione di un Nuovo ordine economico internazionale (NOEI) avviato dalle Nazioni Unite su impulso presidente algerino Houari Boumediene. La dichiarazione sul NOEI – «una delle più importanti basi per le relazioni economiche tra tutti i popoli e le nazioni», così si apriva il documento – impegnava i membri dell’Onu ad affrontare assieme, ed in modo sistemico, la questione della stabilizzazione dei prezzi delle materie prime grazie alla creazione di un Fondo comune, quella del debito, quella dei trasferimenti di tecnologie e della regolamentazione delle multinazionali. Il nuovo ordine economico sarebbe nato sotto il segno del petrolio.

Dietro la crisi energetica si celava la crisi del dollaro del 1971

Giuliano Garavini

Come ha cambiato il mercato energetico il 1973?

In primo luogo lo choc impose nel discorso e nelle politiche pubbliche la «questione energetica», mai prima di allora inquadrata con quel rilievo e in un’accezione così larga. I Paesi più industrializzati, pur con l’iniziale opposizione francese, dettero vita nel 1974 all’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) con sede a Parigi, con il compito di ridurre la dipendenza dal petrolio arabo e di «diversificare» i sistemi energetici. I governi occidentali crearono apposite amministrazioni per gestire i piani energetici: per esempio il Governo statunitense creò il dipartimento per l’Energia nel 1977. Vennero proposti obiettivi e politiche che restano qualificanti oggi: «l’efficienza energetica», per esempio richiedendo il miglioramenti degli standard dei consumi delle automobili; la «transizione energetica» nel senso di diversificare gli approvvigionamenti e investire in nuove tecnologie, fossero esse il nucleare, il petrolio di scisto, o  fonti «rinnovabili» come l’eolico e il solare. Questo attivismo ebbe l’effetto di non poco conto di ridurre significativamente l’intensità energetica nel breve periodo: tra il 1979 e il 1985 il Pil dei Paesi industrializzati dell’Ocse crebbe del 2 per cento l’anno, mentre la domanda di petrolio calò del 3 per cento l’anno. Più in generale, se i combustibili fossili rimangono oggi il perno del sistema energetico mondiale, coprendo circa l’80% dei fabbisogni di energia primaria mondiale, la parte del petrolio si è ridotta dal 48% nel 1973 al 31% oggi. L’attenzione alle «politiche energetiche», parzialmente attenuatasi ma mai del tutto sopita durante il ventennio del contro-choc dopo metà anni ’80 in cui i prezzi del petrolio furono bassi, si è notevolmente acuita negli ultimi anni col ritorno delle politiche industriali, per esempio l’Inflation Reduction Act (IRA) negli Stati Uniti o la EU Net-Zero Industry ACT, che hanno come rotta quella che porta alla «transizione energetica».

In secondo luogo il mercato petrolifero mondiale venne profondamente modificato come conseguenza della rivoluzione del 1973. La dipendenza dal petrolio arabo e OPEC indusse a stimolare con ogni mezzo, anche attraverso incentivi fiscali e legislazioni a protezione degli investimenti privati, la produzione nei territori non-OPEC. Simbolo di questa riscossa è la produzione del Mare del Nord britannico, iniziata sotto Margaret Thatcher nel 1979 che ambì farne la provincia petrolifera più libera al mondo ma, in ultima analisi, riguarda anche la rivoluzione del «fracking» negli Stati Uniti che ha permesso al Paese di tornare il primo produttore mondiale pur se, secondo Deloitte, tra il 2010 e il 2019 il settore dello shale ha avuto risultati negativi per 300 miliardi di dollari. In generale il numero dei produttori sopra le 100 mila barili al giorno è aumentato da 34 nel 1973 a più di 50 (Italia inclusa) nel 2022. Inoltre, a partire dagli anni ’80, è stato introdotto il mercato dei futures che ha contribuito a rendere il commercio di prodotti petroliferi più flessile e resistente alle velleità di controllo dei grandi esportatori, seppur molto instabile dal punto di vista dei prezzi. A riprova delle difficoltà incontrate dai Paesi OPEC sta il fatto che se l’arma del petrolio è stata utilizzata per l’ultima volta dai produttori arabi nel 1973, sarebbero poi stati i Paesi occidentali, e in primo luogo gli Stati Uniti, a rivolgerla con pervicacia contro i petrostati, dall’Iran, all’Iraq, alla Libia, al Venezuela, e buon ultimo, contro alla Russia, comminando sanzioni e boicottaggi con l’obiettivo di ridurre le entrate dei sanzionati, destabilizzandone così i regimi. Queste sanzioni non sarebbero state applicate se non vi fosse una qualche cognizione nelle classi dirigenti americane che le disponibilità di petrolio sono abbondanti, che le reti di approvvigionamento sono diversificate, e che non esistono rischi concreti di ritorsioni.

I Paesi produttori non solo agiscono in un mercato più diversificato, ma sono anche minacciati dalla transizione energetica verso le rinnovabili che potenzialmente può far implodere Paesi che restano totalmente dipendenti dalla rendita energetica, come si è visto chiaramente nel caso del Venezuela. Avendo visto ridursi la produzione petrolifera in maniera drastica a partire dal 2014 esso si è trasformato dal Paese col reddito procapite più alto dell’America Latina negli anni ’70 ad uno dei più poveri, e da un Paese di immigrazione, anche qualificata, ad uno dei Paesi col maggiore esodo di rifugiati (oltre 6 milioni); una tragedia umanitaria comparabile solo a quelle verificatasi per Paesi in guerra come la Siria e poi l’Ucraina.

Se l’arma del petrolio è stata utilizzata per l’ultima volta dai produttori arabi nel 1973, sarebbero poi stati i Paesi occidentali, e in primo luogo gli Stati Uniti, a rivolgerla con pervicacia contro i petrostati, dall’Iran, all’Iraq, alla Libia, al Venezuela, e buon ultimo, contro alla Russia, comminando sanzioni e boicottaggi con l’obiettivo di ridurre le entrate dei sanzionati, destabilizzandone così i regimi

Giuliano Garavini

Quali dunque possono essere ancora gli atout dei grandi esportatori di petrolio?

Pur se in seguito eclissato dalla rivoluzione conservatrice promossa da Margaret Thatcher in Gran Bretagna e da Ronald Reagan negli Stati Uniti, indebolito dalle divisioni tra produttori e non produttori, e poi dalla crisi del debito degli anni ’80, il NOEI segnò l’ingresso sulla scena diplomatica internazionale di quell’entità sfuggente oramai definita comunemente come Sud Globale. Tra alti e bassi, inclusa la guerra fra due membri fondatori come Iran e Iraq negli anni ’80,  i grandi esportatori di petrolio, se includiamo tra essi la Russia (che dal 2016 coopera strutturalmente con l’OPEC in una struttura chiama OPEC+) restano protagonisti del tentativo di riformare le organizzazioni di Bretton Woods, anche potenzialmente ridimensionando il peso del dollaro come valuta di riferimento del sistema monetario internazionale.  La Russia (anche se, paradossalmente, essa è stata estromessa dal G8 solo nel 2014) ha promosso la creazione dell’organizzazione che fa da contraltare al G7 denominata BRICS, alla quale sono stati recentemente invitati a partecipare anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Se i petrodollari sono stati importanti per rilanciare il ruolo internazionale del biglietto verde durante gli anni ’70, e poi a seguito del Volcker Shock del 1979, non è detto che i petrostati siano disposti oggi a svolgere lo stesso ruolo di sostegno alla finanza occidentale.

In secondo luogo il declino dei petrostati non è una destino ineluttabile. La riduzione del consumo di tutti i combustibili fossili, che secondo l’Aie dovrebbe avvenire entro questo decennio, potrebbe essere gestita dall’OPEC+ senza innescare una competizione fratricida, per esempio riducendo progressivamente la produzione assieme al declino della domanda, così da mantenere per quanto possibile invariati i prezzi del petrolio. Gli enormi surplus finanziari generati dalla rendita petrolifera potrebbero continuare ad essere accumulati in fondi sovrani – dei 10 fondi sovrani al mondo, ve ne sono solo 2 cinesi, mentre gli altri appartengono tutti a Paesi esportatori di petrolio – con cedole e ritorni agli investimenti di cui possano beneficiare anche i cittadini futuri del mondo post-fossili, e in parte potrebbero essere reinvestiti nello sviluppo di tecnologie e infrastrutture per le rinnovabili, sia che questi investimenti avvengano negli enormi deserti della penisola Araba o del Sahara, o che avvengano nei Paesi del Sud Globale con i quali esistono storiche relazioni come l’Indonesia (essa stessa un Paese a lungo membro dell’OPEC).

Sia come sia, all’indomani del 1973 si avviò il grande dibattito sul superamento del petrolio come fonte energetica primaria. Questo resta oggi come allora una grande questione politica e non solo tecnologica. Rimane vera la massima attribuita a Yamani, il grande protagonista del 1973: «L’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre».