Allo studente e al professore basta uno sguardo per capirsi. Gennaio 2022, è un banale giorno di esami all’istituto di linguistica di Mosca. Nel bel mezzo delle domande dell’orale, nell’anonimato di un’aula, viene chiesto allo studente: «definisca cos’è un eufemismo e fornisca degli esempi». Domanda anodina, non necessariamente politica, quella del professore. Quanto alla risposta, non è priva di malizia. «“L’operazione militare speciale” è un buon esempio attuale di formule attenuate che vengono utilizzate per evitare espressioni più scioccanti e sgradevoli, ma più crude e reali…», dice lo studente, con la risposta pronta. Il professore reagisce con un sorriso complice. «Tra oppositori all’invasione russa in Ucraina, a questa guerra che non è la nostra, ci siamo capiti!», confiderà poi. Con prudenza però, una precauzione necessaria nel bel mezzo di un’ondata di repressioni che in Russia soffoca ogni voce critica nei confronti del governo. È per proteggere le nostre fonti quindi che nel presente articolo resteremo vaghi in merito all’identità dei nostri numerosi interlocutori.
Dal 24 febbraio 2022, data dell’inizio dell’“operazione militare speciale” del Cremlino in Ucraina, secondo la litote ufficiale, la società civile russa si è abituata tanto alle espressioni semplicistiche quanto alle circonvoluzioni simboliche. Da una parte, la propaganda, in televisione ma anche grazie a molteplici intermediari nella società, ripete le formule di Vladimir Putin tese a giustificare una presunta operazione di “liberazione” dei territori russi. Dall’altra, chi si oppone alle litoti ufficiali, che si esprime in modo indiretto, con immaginazione e inventiva, e rischia una pena fino a quindici anni di prigione, secondo le nuove norme sul “discredito” delle forze armate. Agli antipodi, queste reazioni opposte hanno spesso causato tensioni intergenerazionali all’interno delle famiglie: i più anziani guardano la televisione e si schierano dalla parte del Cremlino, i più giovani s’informano su Internet e osano opporsi al governo.
I primi garantiscono che si tratta di un’operazione salvifica di “demilitarizzazione” e di “denazificazione” del Paese vicino, inevitabile per contrastare la minaccia occidentale. I secondi confessano la loro vergogna e il loro disgusto, raccontano il coraggio e la paura davanti alle difficoltà a cui si confronta ogni forma di contestazione pubblica. Gli uni si barricano davanti alle televisioni che trasmettono i canali pubblici — riflesso tipico dei telespettatori-elettori fedeli al Cremlino. Gli altri s’ingegnano, per esempio, per esprimere in modo simbolico il proprio dissenso: declamare una poesia contro la guerra in una cantina trasformata in modesto teatro, scrivere un semplice “pace” sulle banconote che passano di mano in mano, lasciare qualche fiore e una candela ai piedi di un memoriale improvvisato in omaggio alle vittime ucraine…Gesti solidali, più di disperazione che di ribellione.
In realtà, oggi la maggioranza dei russi non appartiene a nessuno dei due gruppi. Alla fine, si è preferito ignorare la guerra, smettendo di seguire le informazioni, tenendosi a distanza dalle fonti di propaganda come da ogni forma di opposizione, concentrandosi sulla vita privata, rimanendo cauti nelle discussioni (perfino in famiglia) e stando attenti alle possibili delazioni (al lavoro, all’università). Una specie d’“immigrazione interna” già ben nota all’epoca sovietica. Alcuni si rifugiano nell’alcol o negli antidepressivi, il cui consumo sarebbe aumentato nell’ultimo anno. Altri cercano una scappatoia altrove: a Mosca, le sale dei teatri sono piene, e tra il pubblico dei cinema in cui si proiettano cartoni animati per bambini si scorgono a volte adulti venuti a cercare un po’ di ossigeno. Sempre di più, il conflitto in Ucraina è diventato un argomento da evitare durante le cene di famiglia. Una forma di passività. Riguarda le nonne sazie di propaganda, ma anche i giovani istruiti, con un buon impiego, che non credono né a Putin né alla propaganda ma la cui sola ambizione è di restare in disparte e salvaguardare i propri interessi. La sofferenza degli ucraini ha creato un’indifferenza diffusa. Nonostante i media indipendenti siano stati chiusi e numerosi siti Internet bloccati, informarsi è ancora possibile. Ma la gran parte dei russi non lo fa, si affida al governo.
Questa fiducia passiva spiega il forte tasso di sostegno dell’“operazione speciale”, tra il 70 e l’80%, anche se i risultati dei sondaggi sono da prendere con le pinze come in ogni regime autoritario. In passato la popolarità di Vladimir Putin aveva raggiunto il suo picco al momento delle guerre (in Cecenia, in Georgia, per l’annessione della Crimea, durante l’operazione in Siria), e anche stavolta il Presidente e le sue decisioni non sono state rimesse in causa, né il conflitto in Ucraina pare aver suscitato una presa di coscienza in merito alla natura stessa del suo potere. Di fronte all’offensiva in Ucraina, come da anni di fronte alla profonda degradazione delle libertà e dello stato di diritto, la maggioranza dei russi si è rintanata in un’apatia, in un fatalismo che ha preso la forma di un’incoscienza generalizzata.
«Quella che lei chiama “apatia”, e che io chiamo “assenza, nelle situazioni, di qualsiasi istinto biologico di protezione”, è sempre esistita tra i russi: sono sovietici, è un retaggio ancora forte. È una questione di genetica, di psichiatria, di sociologia, di psicanalisi…», spiega ironica Valentina Melnikova in un’intervista a La Croix L’hebdo. A settantasette anni, questa veterana della difesa dei diritti umani è un’instancabile osservatrice delle contraddizioni della società civile del suo Paese. Presidentessa del Comitato delle madri dei soldati, nel corso degli oltre vent’anni di Vladimir Putin al Cremlino, dalle guerre in Cecenia fino all’attuale “operazione speciale”, è sempre stata al fianco delle donne, mogli e madri, combattute tra il desiderio di verità e le conseguenze dello scetticismo e del fatalismo post-sovietico.
Per Valentina Melnikova, come per molti esperti attivisti per i diritti umani in Russia, non c’è dubbio: in realtà la “società russa”, al singolare, intesa come una società civile unica, non esiste. Sotto Vladimir Putin come sotto l’Unione sovietica, è soprattutto il regno dell’ognuno fa per sé. Con la creazione del Comitato delle madri dei soldati e di altre organizzazioni come Memorial, una società civile unita aveva cominciato a vedere la luce negli anni Novanta quando, parallelamente a questo tipo di attività associative, sono apparsi alcuni partiti politici, comunisti e nazionalisti ma anche liberali e indipendenti. Tuttavia, a partire dalle elezioni legislative del 2003, solo i membri dei movimenti sotto il controllo dello Stato hanno il diritto di essere eletti nella Duma. La vita politica vera e propria è allora terminata.
«Senza partiti rappresentativi non può esistere una vera società», avverte Valentina Melnikova. A differenza di Memorial, classificato come “agente straniero” e ormai bandito, il suo Comitato delle madri dei soldati è stato mantenuto, così come altre organizzazioni che aiutano i migranti, gli orfani e i disabili. «Ma siamo solo uffici di assistenza: le persone vanno e vengono. Non si tratta di una partecipazione generale alla società», si rammarica Valentina Melnikova, sorpresa e delusa, per esempio, che l’ondata di rabbia che ha seguito la mobilitazione militare di settembre non abbia provocato sconvolgimenti politici.
Improvvisamente, però, la guerra era entrata nella vita quotidiana delle famiglie russe, colpendo direttamente le famiglie con uomini in età di leva. Il malcontento è stato espresso pubblicamente ma, per via del fatalismo o di una vera adesione, soltanto per denunciare l’organizzazione caotica e arbitraria della mobilitazione, l’equipaggiamento scarso e la mancanza di un addestramento che avrebbe dovuto precedere l’invio degli uomini al fronte. «Ci sono state certo delle reazioni: alcune famiglie ci hanno chiamato, gli uomini sono fuggiti dal Paese», constata Valentina Melnikova. «Ancora una volta, tuttavia, le risposte sono rimaste individuali. I russi hanno reagito come uccelli che, avvertendo il pericolo, volano via all’improvviso. Ognuno per sé». Quanto alla propaganda, è riuscita a diffamare “i traditori”.
Tra lutto e rabbia, altrettanto numerose in Russia sono state le reazioni dopo l’annuncio della morte di quasi 100 soldati, uccisi in un attacco ucraino durante la notte di Capodanno nella base di Makiïvka, nel mezzo del Donbass — regione considerata sotto controllo russo. Il bilancio delle vittime è probabilmente più elevato, ma le autorità si sono saggiamente mantenute al di sotto dei 100 morti per evitare di dichiarare un lutto nazionale. In dieci mesi di “operazione speciale”, è stata la prima volta che il governo ha ammesso una tale battuta d’arresto e, soprattutto, un bilancio così pesante. Sui social network, e perfino in televisione, sono apparsi alcuni segnali di protesta. Tuttavia, il Cremlino ha continuato ad orchestrare una trasparenza tutta relativa. E la propaganda, ancora una volta, ha potuto manipolare le opinioni e preparare la popolazione. Ampiamente coperta dai media, la morte dei soldati ha permesso di alimentare il desiderio di vendetta e di alimentare la narrazione ufficiale in vista di una possibile intensificazione dell’offensiva e di una nuova ondata di mobilitazioni militari. Sono, invece, passate inosservate le scomode rivelazioni sull’incompetenza dell’esercito, in particolare sul fatto che le munizioni sarebbero state immagazzinate nello stesso edificio in cui si trovavano i soldati, o che questi ultimi sarebbero stati autorizzati a telefonare con il cellulare permettendo, di fatto, la loro geolocalizzazione da parte dall’artiglieria ucraina. Qualcosa è stato rimesso in questione, nulla in causa.
Per alcuni russi abituati da tempo a stare lontani dalla politica, l’improvviso esilio per evitare la mobilitazione militare è stato un momento di rivelazione. Paradossalmente, i giovani che hanno trovato rifugio in Georgia, a volte con le loro compagne, hanno scoperto che il loro Paese, quattordici anni prima dell’invasione dell’Ucraina, aveva già preso possesso del 20 % del territorio di questa ex repubblica del Caucaso. A Tbilisi, confrontati spesso per la prima volta con le conseguenze delle politiche adottate dal loro Presidente, hanno percepito il risentimento dei loro ospiti nei confronti dei russi. E quindi anche contro di loro che, assentendo da più di vent’anni in modo più o meno tacito, sostengono indirettamente il regime di Vladimir Putin rimanendo indifferenti alla sua politica. I georgiani non sono lontani dal condividere ciò che la maggioranza degli ucraini afferma da un anno: il Cremlino di Vladimir Putin è colpevole, ma tutti i russi sono responsabili. Improvvisamente messi di fronte a questa realtà, gli esuli hanno sperimentato un brusco risveglio alla coscienza politica.
Questo cambiamento riguarda anche quelle poche centinaia di individui che, allontanatisi dall’anonimato della loro sala da pranzo e dalla solitudine delle ore passate davanti allo schermo del computer — un’“opposizione da divano”, come ironizza uno di loro — hanno osato riunirsi attorno ai memoriali improvvisati in tutta la Russia dopo il bombardamento della città ucraina di Dnipro, in memoria dei 46 morti del 14 gennaio. Fonti anonime lo confermano. È vero che un anno prima, subito dopo l’inizio dell’“operazione speciale”, alcuni si erano opposti all’offensiva pubblicando messaggi di collera sui social network. Li avevano però presto cancellati per paura di subire ripercussioni, soprattutto al lavoro, o di farne subire ai figli a scuola. Da allora, la gran parte dei russi ha preso l’abitudine di astenersi. E non è mai uscita a manifestare, nemmeno in settembre quando è stata lanciata la mobilitazione militare. A mezza voce, i russi oggi ammettono che questo comportamento non è altro che una forma di “codardia”. Ecco perché, dopo la tragedia di Dnipro, andare a deporre un semplice mazzo di garofani ai piedi di questi memoriali improvvisati è stato per loro un atto di liberazione e un gesto vitale di rispetto per sé stessi. Non è molto, ma resta un segnale discreto che ricorda come non tutti i russi sostengano il Cremlino.
Si tratta di una piccola minoranza. Ben prima del conflitto ucraino, sociologi e politici indipendenti stimavano, senza potersi basare su supporti statistici veramente affidabili, che il 15-20% dei russi in età di voto avrebbe potuto esprimere la propria opposizione al Cremlino di Vladimir Putin se il sistema politico e mediatico lo avesse permesso, se le elezioni fossero state libere. Oggi, una percentuale simile è probabilmente contraria all’offensiva in Ucraina. L’espressione di questa opposizione, con un possibile effetto valanga tra la popolazione, è tanto più difficile dal momento in cui, dopo gli oltre 22.000 arresti nelle prime settimane del conflitto, ogni forma di manifestazione è stata vietata. In più, le autorità hanno intensificato la repressione delle voci critiche a ridosso dell’anniversario dell’inizio del conflitto.
Nel 2022, la loro tattica consisteva nell’alimentare la paura e nel costringere i ribelli, soprattutto i media critici, a rispettare regole molto rigide. Ad esempio, un’organizzazione classificata come “agente straniero” – stigma che oltretutto complica il lavoro – veniva tollerata a condizione di rispettare vincoli pesanti e umilianti. Doveva per esempio tenere una contabilità dettagliata di ogni entrata e di ogni uscita e, per ogni pubblicazione, anche sui social network, aggiungere il messaggio: “diffuso da un’organizzazione riconosciuta come agente straniero”. Una strategia politica per marginalizzare ancora di più le voci ribelli.
Nel 2023, si è ormai arrivati al divieto puro e semplice e alla messa al bando, come è successo per Meduza, definita ‟organizzazione indesiderabile” il 25 gennaio. Qualsiasi partecipazione alle attività dei media dichiarati “indesiderabili” può generare pene fino a quattro anni di carcere per i giornalisti, e fino a sei anni per i suoi organizzatori. Il messaggio è chiaro, tanto più che perfino la condivisione sui social network degli articoli di Meduza da parte degli utenti può potenzialmente essere considerata come una “partecipazione” alle sue attività e perciò perseguita. Lo stesso 25 gennaio i tribunali hanno ordinato lo scioglimento della più longeva ONG per i diritti umani, vietandone le attività sul territorio russo: il Gruppo Helsinki di Mosca, diretto per decenni da Lyudmila Alexeeva. Entrambe le messe al bando sono state accolte nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica. Questo arsenale di misure repressive, così come i continui procedimenti giudiziari per “fake news” in merito a questioni militari o per “discredito” dell’esercito, hanno rafforzato la verticalità del potere, una “verticalità della paura” che da tempo preparava l’offensiva in Ucraina sulla scena politica interna, eliminando tutte le sentinelle, anche tra le élite.
Allergico al minimo cambiamento che rischi di turbare la sacrosanta “stabilità” garantita dal Cremlino, Vladimir Putin ha inoltre nobilitato i suoi attacchi antioccidentali conferendo loro una dimensione morale. Una tale operazione, militare e politica, mira a convincere il popolo russo che il Presidente, impegnato nella lotta contro quella che chiama la “quinta colonna”, ha avuto la meglio anche nella lotta antiliberale che conduce in difesa dei valori tradizionali. Fin dalla sua rielezione nel 2018, da buon ideologo mascherato, Vladimir Putin assicura che, a fronte di un Occidente in pieno declino, Mosca sta costruendo il futuro, quello del Paese e del mondo. Nella sua retorica, l’Occidente è un nemico che cerca di umiliare e distruggere la Russia. Un messaggio come questo fa eco al risentimento di molti russi che ritengono di essere stati trattati ingiustamente dopo la fine della Guerra Fredda. Alcuni si sentono finalmente liberi dopo tre decenni di restrizioni, pronti a sfidare ogni apparenza democratica e liberale per riconquistare una forma di “autenticità” russa che per essenza, ai loro occhi, è definita precisamente da questa opposizione all’Occidente. L’inizio del conflitto, un anno fa, aveva assunto le sembianze di una vendetta. I più radicali non nascondevano di voler “dare una lezione all’Occidente” e oggi, nonostante le difficoltà sul fronte militare, credono ancora fermamente all’inevitabile vittoria russa.
Nel suo discorso del 30 settembre 2022, che ufficializzava l’annessione di quattro territori ucraini, Vladimir Putin ha comparato la “propaganda occidentale”, con “il suo oceano d’illusioni e false notizie”, alle bugie di Goebbels, a capo della propaganda nella Germania nazista. Ne ha dato una lunga dimostrazione: la sua “operazione militare speciale” va ben oltre il conflitto in Ucraina. Il Presidente ha ripetuto di essere andato a difendere la Russia dall’Occidente, che accusa di tutti i mali, e ha in particolare criticato il “satanismo” che si celerebbe dietro alla presunta decadenza perfida e ipocrita degli europei. Il discorso ha finito per rassicurare e convincere alcuni, mentre ha ripugnato e preoccupato altri. Soprattutto, in verità, è stato accolto con indifferenza dalla maggioranza dell’opinione pubblica.
La vera vittoria di Vladimir Putin non è quindi solo quella di aver annientato l’opposizione e messo a tacere la società civile, ma innanzitutto quella di aver orchestrato questa apatia generale. Per tenersi le mani libere, il Cremlino ha contribuito a creare una mentalità dell’indifferenza e della passività. Altamente organizzata, la propaganda, capace di provocare effetti profondi – non solo in televisione, ma anche nelle chiese, nelle scuole, nelle università, negli ambienti culturali e sportivi … – non ha solo invaso i cervelli, li ha accecati. Spesso grossolana, ha diffuso, per esempio, l’idea di una superiorità spirituale e culturale dei russi sugli occidentali. Sistematica e permanente, con effetti sottovalutati, ha però soprattutto imposto una forma di relativismo. È riuscita a provocare scetticismo nell’osservare i fatti e fatalismo nel considerare la verità. Si spiega così il totale rifiuto delle accuse sulle atrocità commesse dai soldati russi in Ucraina. Agli occhi della maggioranza dei russi, tali atrocità sono inconcepibili per mano degli eredi dell’esercito del “Paese che ha sconfitto il fascismo” — presentati come soldati che, avendo compiti di protezione e di non-aggressione, non mirano mai obiettivi civili. Eppure, i video e le inchieste degli occidentali lo dimostrano. Altre fonti sotto il controllo di Mosca proverebbero, però, il contrario. Tra i russi, la confusione è grande: tutto viene messo sullo stesso piano e non c’è alcun senso critico. Nel paese si assiste a un permanente spettacolo di illusioni, una vera e propria messa in scena che da anni condiziona la società civile. Le televisioni, per esempio, organizzano dibattiti per mantenere una parvenza di vita democratica, ma il messaggio è chiaro. Ed è pro-Cremlino.
Anche le scuole sono servite da tramite. Le banali riunioni genitori-insegnanti all’inizio del trimestre si sono trasformate nell’ultimo anno in lezioni di storia. Il preside dà la parola a un ufficiale che, salito in cattedra, alimenta la narrazione contro i “nazisti” di ieri e di oggi, poi ripete ciò che le famiglie hanno già sentito sui canali televisivi del Cremlino. Le lezioni di alzabandiera e quelle per imparare a cantare l’inno nazionale, che sono organizzate nei cortili delle scuole ogni lunedì mattina, seguite dalle “lezioni sulle cose importanti” (tra cui il patriottismo), sono servite alla propaganda per raggiungere anche i più giovani. In realtà non è altro che la continuazione di quanto iniziato anni fa, con le tradizionali mostre sulla “Grande Guerra patriottica” del 1941-1945, nei cortili delle scuole, che sono state il punto di partenza per tutto un insieme di insegnamenti patriottici unidirezionali.
Tra passato e presente, per capire la società civile russa, la sua tendenza a sostenere senza alcun senso critico l’offensiva in Ucraina, una data s’impone: il 9 maggio. È una data chiave per i russi, una delle loro feste preferite, momento di raccoglimento e di celebrazione in memoria della “Grande Guerra patriottica” e dei soldati sovietici che sconfissero la Germania nazista. La parata militare sulla Piazza Rossa non è che l’evento più visibile di quelli organizzati per celebrare l’eroismo russo di fronte al nemico e alimentare il patriottismo per diverse settimane. All’inizio dell’offensiva in Ucraina, tra febbraio e marzo 2022, ben prima che il conflitto si complicasse, erano molti i russi che, con aria di sfida, ripetevano in televisione un argomento ben collaudato: «L’Occidente avrebbe dovuto capirlo fin dalla nostra vittoria nel 1945: è inutile fare pressione sulla Russia. Napoleone e Hitler hanno fallito. Non ci riuscirete nemmeno questa volta».
La storia è in effetti una delle basi su cui si fonda il regno di Vladimir Putin e la sua azione sulla società civile. Ben prima dell’offensiva in Ucraina —“operazione speciale” per cacciare i fascisti da Kiev secondo la spiegazione ufficiale —, per anni il Cremlino ha incentrato la sua narrazione politica sulla vittoria dell’URSS contro la Germania nazista, vera e propria cornice ideologica creata grazie alla sacralizzazione della “Grande Guerra patriottica”. La Russia di Putin non ha un’ideologia, ma ha il suo 9 maggio, base dell’intera strategia internazionale e nazionale del Presidente, e soprattutto punto di riferimento dell’identità nazionale attorno al quale unire il Paese. Vi contribuiscono anche gli scritti sull’Ucraina o sul patto Ribbentrop-Molotov di Vladimir Putin, lo storico.
Questo clima politico influenza soprattutto i giovani, un pubblico prioritario a cui la propaganda del Cremlino si rivolge per condizionare la società civile. Ogni anno, in occasione del 9 maggio, Memorial organizza un concorso di resoconti storici per i giovani tra i 14 e i 18 anni. Se si leggono gli elaborati pubblicati nel corso degli anni, ci si rende conto che l’ONG lo aveva previsto: il passato sovietico è idealizzato molto più di quanto non lo fosse vent’anni fa, con Stalin presentato prima di tutto come l’eroe che ha vinto il nazismo. Il lavoro di Memorial, ormai vietato, operava contro il discorso ufficiale. A differenza della Germania post-nazista, nella Russia post-sovietica gli sforzi per produrre una riflessione critica sul passato nazionale sono stati rari, tanto più che la caotica uscita dal comunismo ha creato nella società una profonda nostalgia per la cosiddetta “stabilità” della vita sotto l’Unione sovietica. Una “stabilità” che le conseguenze economiche causate dal conflitto in Ucraina mettono però ormai in discussione.
Anche dal punto di vista delle élite, questa “stabilità” è perturbata. Ma il mutismo del mondo degli affari e delle poche figure liberali un tempo influenti ha confermato che non ci sono crepe nel sostegno di questa parte della società al regime di Putin. Dietro le quinte, certamente molti sono critici nei confronti dell’offensiva in Ucraina. Tra frustrazione e irritazione, sono numerosi a mettere in questione il Cremlino – in questione, ma non per questo sotto accusa…Vinti dalla stessa apatia generale e ansiosi di proteggere innanzitutto i loro interessi economici, la stragrande maggioranza degli uomini d’affari non si è espressa, né ha incoraggiato un ricambio del potere politico. Tra rabbia e preoccupazione, l’élite russa si lascia di fatto andare al tempo stesso al proprio malessere e all’inazione. Molti desiderano la fine di Putin. Ma nessuno è pronto a impegnarsi per provocarla. Il dubbio, tuttavia, riguarda gli obiettivi stessi del Cremlino: alcune tra le figure più influenti del mondo degli affari che in passato gravitavano attorno al Cremlino non esitano più a definirlo un «enorme errore».
I membri della comunità imprenditoriale confessano, con giri di parole, di non capire, a un anno dall’inizio del conflitto, quale sia l’obiettivo del Cremlino contro l’Ucraina e al di là, contro l’Occidente. Ma quasi tutti continuano a fare affari — in modo diverso, certo, a causa delle sanzioni occidentali. Per il momento, cercano di salvare ciò che possono in Russia, avendo perso molto in Occidente a causa delle misure statunitensi ed europee. Per quanto riguarda l’élite politica liberale, che più di tutte potrebbe incoraggiare il cambiamento, non è mai stata tanto marginalizzata. Ad esempio, è vero che l’ex ministro delle Finanze Alexei Kudrin, oppostosi in privato all’offensiva e alle sue conseguenze ma assente dai radar pubblici, è tornato alla ribalta. Ma solo per accettare una nuova posizione in Yandex, il Google russo, che dovrà ora aiutare a destreggiarsi tra la libertà di Internet e l’acquisizione da parte dello Stato. Anche tra i liberali, i pochi grandi nomi ancora attivi hanno accettato di continuare a ricoprire ruoli chiave nel sistema di Vladimir Putin. Ad esempio, German Gref, amministratore delegato di Sberbank, la più grande banca del Paese, osa appena mettere discretamente in guardia in merito alle conseguenze negative dell’operazione militare sull’economia. Insomma, non c’è una figura che sembri poter incarnare l’autorità di un movimento di protesta.
La maggior parte dei liberali un tempo influenti e degli imprenditori fondamentalmente contrari agli attuali avvenimenti a Mosca hanno lasciato il Paese. Se ne stanno con le mani in mano e aspettano che il peggio passi. L’atmosfera è molto diversa da quella che si respirava alla fine degli anni Novanta quando, al tramonto dell’era Eltsin e all’alba dell’era Putin, il sistema era in frantumi. Le élite non vi si riconoscevano più, e gli appetiti aumentavano: dietro le quinte, tutti si davano da fare, brigavano. Oggi, al contrario, moltissimi si sono rifugiati nella loro vita privata, silenziosi e in attesa, a Dubai o sulle spiagge del Venezuela. Si muoveranno solo quando i loro interessi lo richiederanno.
Peraltro, le sanzioni occidentali contro i russi dello scorso anno, che vietavano loro di volare, effettuare trasferimenti bancari e ottenere visti, hanno avuto in gran parte un effetto controproducente, perché hanno colpito soprattutto la classe media di Mosca e delle principali città. Paradossalmente, si tratta proprio di quella parte della popolazione che si oppone maggiormente al Cremlino. La classe operaia cara a Vladimir Putin, i russi più poveri, rimarrà indigente e fedele. I più ricchi, dipendenti dal regime, rimarranno benestanti e fedeli. Tra i due, la classe media rimane bloccata. Additata dall’Ucraina, punita dall’Europa, la classe media non è incoraggiata nei suoi slanci anti-Cremlino. Al contrario: molti si trovano costretti a sostenere il regime quando potrebbero invece essere il motore del cambiamento a Mosca.
Tre decenni dopo la fine dell’Unione sovietica, che aveva suscitato speranze in un Paese senza tradizione democratica, questa ondata generalizzata di apatia nei confronti del conflitto in Ucraina contrasta con le manifestazioni anti-Cremlino del 2011-2012. Dieci anni prima dell’“operazione militare speciale”, fino a 100mila manifestanti gridavano «Ukhodi!» nelle strade di Mosca. Questo «Vattene!» era rivolto a Vladimir Putin. La dinamica classe media assetata di libertà politiche che protestava all’epoca si è poi ammorbidita, assorbita nelle preoccupazioni quotidiane. I più politicizzati hanno continuato, ma le centinaia di incarcerazioni e le crescenti minacce di procedimenti giudiziari sono riuscite a intimidirli. Tanto più che un ribelle può essere arrestato non solo il giorno stesso in cui compie la sua azione ma anche più tardi, grazie al riconoscimento facciale e alle migliaia di telecamere installate ovunque. L’estensione del campo di applicazione della lista degli “agenti stranieri” ha rafforzato questo clima di paura. Il campionato del radicalismo si sta intensificando. Una sorta di gara dell’assurdo in cui i falchi che volano attorno a Vladimir Putin sembrano voler dimostrare al leader che stanno combattendo i presunti nemici, i presunti membri di questa “quinta colonna” finanziata dall’estero.
Parallelamente, la propaganda ha finito per conquistare e convincere anche molte famiglie: alcuni degli oppositori del 2012 sono diventati nel 2022 sostenitori dell’offensiva in Ucraina. Di fronte al sistema occidentale, considerato ormai in declino, il Cremlino mette in scena la propria visione della democrazia. È un discorso che piace ad alcuni russi, anche tra gli ex contestatori. Ma in realtà la stragrande maggioranza non è né favorevole né contraria. I più anziani ricordano il caos degli anni Novanta dopo l’uscita dal comunismo, e associano la democrazia alla crisi economica, alla corruzione della politica e all’ascesa degli oligarchi. I più giovani hanno imparato a vivere la loro vita senza interessarsi alla politica. Per la Russia non si può parlare di un’opposizione – termine che si riferisce alla democrazia parlamentare. Ben prima delle conseguenze negative della mobilitazione militare dello scorso settembre, qualche malcontento aveva già scosso la società a causa del calo del potere d’acquisto, dei danni ecologici, della corruzione e del record di mortalità dovuto al Covid-19. In realtà, sono numerose le questioni sociali (scuola, giustizia, elezioni locali, ecc.) al centro delle preoccupazioni quotidiane dei russi che rinviano indirettamente al problema della libertà. Ma, al di là di certo un microcosmo, chi non è contento non protesta. E manca una visione generale che guidi il desiderio di cambiamento in un movimento più ampio.
Confrontandosi a queste contraddizioni, troppo a lungo gli osservatori occidentali hanno scambiato i propri desideri per realtà, anticipando le ondate di protesta. La Russia e le sue “società civili”, al plurale, sono spesso viste e giudicate con occhi e prismi europei: ci si limita così a Vladimir Putin, alle torri del Cremlino, alla mancanza di libertà di espressione e alla semplicistica conclusione «non hanno che da fare la loro rivoluzione come gli ucraini hanno fatto la loro Maidan». Questa interpretazione ignora la realtà della società civile russa per la quale la libertà in quanto tale è ben lungi dall’essere una priorità.