Questa profonda analisi storica, firmata Yakov Feygin, è un nuovo episodio della nostra serie est un nouvel épisode de notre série «Capitalismi politici in guerra».

La politica monetaria russa e la politica di guerra

Nel dicembre 2022 il Financial Times ha pubblicato uno straordinario articolo firmato da Max Seddon e Polina Ivanova sui tecnocrati della Banca centrale russa. Questi, nonostante le loro tendenze liberali e l’opposizione alla guerra genocida di Putin, avevano scelto non soltanto di rimanere al servizio del governo, ma anche di gestire abilmente l’impatto delle sanzioni. Seddon e Ivanova descrivono una conversazione tra Konstantin Sonin, economista russo e figura dell’opposizione che insegna all’Università di Chicago, e la sua amica Ksenia Yudayeva, vice direttrice della Banca Centrale russa responsabile della ricerca macroeconomica e delle politiche. Tramite l’app di messaggistica crittografata Signal, Sonin cerca di convincere la sua vecchia amica a lasciare il proprio incarico, paragonandola al competente e creativo banchiere centrale di Hitler, Hjalmar Schacht. Yudayeva risponde che se persone come lei lasciassero il proprio posto, verrebbero sostituite da intransigenti come Sergey Glazyev che, favorevoli a politiche economiche molto più dure, impoverirebbero le persone comuni non responsabili della guerra1.

Chi è Glazyev e perché Yudaveya è così spaventata da lui? Glazyev è un noto economista della destra nazionalista russa. Membro dell’Accademia delle Scienze russa e consulente del presidente della Federazione Russa fino al 2019, è uno dei più convinti sostenitori dell’“integrazione economica eurasiatica”. Per Glazyev, l’integrazione eurasiatica non è soltanto un concetto economico, ma anche politico. Nella sua visione, l’Unione economica eurasiatica è necessaria come contrappeso al sistema economico liberale costruito intorno agli Stati Uniti e alle altre «potenze atlantiche».

L’utilizzo di questi termini rivela una certa affinità con le idee conservatrici eurasianiste, secondo le quali la Russia sarebbe a capo delle potenze tradizionaliste della steppa asiatica con cui esistono radici comuni, in opposizione ai decadenti valori commerciali anglo-americani. L’integrazione economica eurasiatica offre accesso a una vasta base economica e di risorse da mobilitare per strutturare un’agenda nazionale di sviluppo e in questo modo ripristinare l’industria russa strutturando il blocco eurasiatico come potenza mondiale. In pratica, Glazyev promuove un vago sviluppismo nazionale associato a politiche monetarie morbide per stimolare le industrie strategiche di quest’area economica2.

Per Glazyev, l’integrazione eurasiatica non è soltanto un concetto economico, ma anche politico. Nella sua visione, l’Unione economica eurasiatica è necessaria come contrappeso al sistema economico liberale costruito intorno agli Stati Uniti e alle altre «potenze atlantiche»

YAKOV FEYGIN

Glazyev non è solo un ideologo della destra estrema russa e della sua guerra genocida in Ucraina – è uno degli istigatori della crisi attuale. L’invasione del 24 febbraio 2022 è solo l’ultima fase di un lungo conflitto iniziato nel 2013 con le proteste di Maidan contro la cancellazione dell’accordo commerciale UE-Ucraina decisa dal governo di Viktor Yanukovich. Glazyev, nato in Ucraina, ha passato quell’anno a esercitare pressioni sul governo affinché cancellasse l’accordo, da lui visto come una minaccia mortale all’Unione economica eurasiatica proposta dalla Russia. Secondo registrazioni trapelate nel 2016, l’economista era profondamente coinvolto nell’organizzazione delle manifestazioni anti-governative ucraine e pro-russe a Zaporizhia e lavorava attivamente per orchestrare l’annessione della Crimea3.

Non sorprende che Glazyev sia il candidato della fazione più intransigente per sostituire Elvira Nabiullina, la governatrice della banca centrale russa considerata relativamente liberale, economicamente ortodossa e iper-competente. Tuttavia, come ha fatto notare Konstantin Sonin alla sua collega, l’attuale politica della Banca centrale russa non è diversa da ciò che avrebbe fatto Glazyev. Nabiullina ha introdotto controlli sui capitali e limiti al prelievo di valuta estera per far fronte all’impatto delle sanzioni occidentali. Dando priorità alla difesa dei cittadini russi a scapito degli ucraini, la banca centrale si è trasformata in un attore disonesto quanto lo sarebbe stata sotto il controllo di Glazyev, e ha adottato politiche che avrebbero fatto orrore agli economisti liberali russi solo poche settimane prima.

«Per il progetto “Shoal”, ho creato delle opere basate sulle rappresentazioni del tipico paesaggio post-sovietico per installarle sulle rive del Mar d’Aral. Oggi, il paesaggio post-sovietico, che rappresenta uno spazio fantasma utopico, incarna la banalità quotidiana dei paesi dell’ex Unione Sovietica. Ai nostri giorni, i fantasmi abitano uno spazio che continua a esistere, impregnato di una nuova vita. Il progetto Shoal rappresenta un tentativo di separare lo spazio fantasma dalla contemporaneità, trasferendolo in una “zona senza tempo”, ovvero sul fondo di un mare che si è ristretto del 90%. Il Mar d’Aral, che un tempo era il quarto mare più grande del mondo, è stato vittima del regime utopico ed è scomparso insieme a esso, lasciando dietro di sé uno spazio vuoto». © Danila Tkachenko

In realtà, Sonin potrebbe avere ragione anche più di quanto pensi. L’ortodossia economica della Banca centrale russa, peraltro elogiata dai commentatori neoliberisti, va inserita nel contesto della politica di Mosca, sempre più illiberale. Le politiche fiscali e monetarie della Russia erano così rigide da far arrossire anche i più solerti funzionari del Fondo monetario internazionale degli anni Novanta. In quanto esportatore di energia, la Russia poteva contare su una bilancia dei pagamenti positiva e dunque una forte base fiscale capace di generare surplus di bilancio. Il surplus era così alto anche perché gli investimenti in infrastrutture erano inferiori persino a quelli intrapresi agli anni 90, quando l’economia russa se la passava piuttosto male, una situazione molto diversa da quella precedente all’invasione dell’Ucraina, che vedeva un’economia più ampia ed efficace. La banca centrale russa ha lavorato duramente per liberalizzare i movimenti di capitali e rendere il rublo una vera valuta fluttuante nel 2015.

Dando priorità alla difesa dei cittadini russi a scapito degli ucraini, la banca centrale si è trasformata in un attore disonesto quanto lo sarebbe stata sotto il controllo di Glazyev

YAKOV FEYGIN

Queste azioni non sono state intraprese solo per una questione di ortodossia economica e buon governo. I funzionari russi hanno preso alla lettera il concetto di “bilancio fortezza”: l’obiettivo degli enormi surplus di bilancio era quello di rendere la Russia più indipendente dai mercati internazionali, dando al Cremlino maggiore spazio di manovra geopolitica e rendendo il paese più resistente alle sanzioni e alle pressioni economiche estere. La diversificazione delle riserve della Banca centrale russa, che nel tempo si è allontanata dal dollaro per aumentare la componente di euro, oro e RMB cinese, non è stata solo un’azione creativa ed efficace, ma una strategia geopolitica per preservare le riserve valutarie da confische e sanzioni. Infine, la decisione di lasciar fluttuare il rublo non è stata esclusivamente presa per dei motivi di liberalizzazione: il trilemma di Mundell, uno dei concetti più conosciuti e accettati dell’economia internazionale, dimostra che una valuta fluttuante offre alla banca centrale maggiore spazio di manovra per gestire una politica monetaria sovrana e nazionale.

Il 24 febbraio è stato uno shock non solo per i banchieri centrali russi, ma anche per il resto del mondo che non aveva creduto agli avvertimenti, rivelatisi corretti, delle intelligence americana e britannica. Alcune voci riportano che Nabiullina abbia cercato di dimettersi in segno di protesta, ma che le sue dimissioni siano state respinte. Altrettanto sorprendente è stata la risposta unitaria dell’Occidenta e le dure sanzioni approvate in poco tempo. La pianificazione della banca centrale russa non aveva mai ipotizzato un’invasione su larga scala – chi avrebbe mai potuto crederci – e quindi non aveva previsto che europei, americani e persino alcune potenze asiatiche avrebbero formato un fronte così unito. In poche parole, la diversificazione delle riserve valutarie non è stata sufficiente: diverse controparti della banca centrale russa hanno bloccato i suoi asset, e le grandi riserve d’oro e di RMB si sono rivelate poco utili a superare il momento di difficoltà a causa dei loro elevati costi di transazione. Insomma, il travestimento liberale della politica monetaria e fiscale russa è rapidamente venuto meno: di fronte alla realtà delle ambizioni imperialiste e revisioniste geopolitiche russe, i tecnocrati liberali russi hanno implementato controlli valutari e una tassazione confiscatoria. Queste azioni, unite alla lentezza delle sanzioni contro le esportazioni energetiche, hanno salvato l’economia russa dalla crisi, almeno nel 20224.

I funzionari russi hanno preso alla lettera il concetto di “bilancio fortezza”: l’obiettivo degli enormi surplus di bilancio era quello di rendere la Russia più indipendente dai mercati internazionali, dando al Cremlino maggiore spazio di manovra geopolitica e rendendo il paese più resistente alle sanzioni e alle pressioni economiche estere

YAKOV FEYGIN

La politica della Banca centrale russa e dei suoi oppositori di estrema destra racchiudono due questioni interconnesse nello studio del paese. In primo luogo, il ruolo dei tecnocrati nella Russia contemporanea e l’evoluzione del putinismo come sistema socio-economico e politico. A questo si lega la seconda questione, che è più profonda e persistente nella storia politica russa, ed è rappresentata dal ruolo rilevante esercitato da tecnocrati ed economisti liberali in uno Stato per lo più illiberale. Nabiullina e Glazyev sono rappresentativi di due tendenze nella politica economica russa. Nabiullina rappresenta la corrente di tecnocrati con inclinazioni liberali che spera di integrare una Russia illiberale in un mondo capitalistico. Queste figure sperano che l’integrazione con il sistema economico globale possa ammorbidire il sistema autocratico in cui vivono, anche se nella pratica accade il contrario: le politiche improntate al laissez-faire permettono allo Stato illiberale di raggiungere i propri obiettivi (illiberali, appunto) attraverso mezzi liberali. Glazyev, invece, incarna un diverso rapporto con l’economia globale: le figure più reazionarie vedono l’apertura al mercato globale come una minaccia non solo ai valori tradizionali ma anche agli obiettivi geopolitici e statalistici della Russia. Questa corrente propone dunque una politica di sviluppo interno che cerchi di garantire il controllo diretto del governo su quante più risorse possibili e utilizzi la mobilitazione politica come mezzo per svilupparle.

© Danila Tkachenko

Questo problema non è una novità nella storia politica ed economica della Russia. Dalla metà del XIX secolo, la questione di come gestire l’economia è stata dominata da due approcci. Secondo il primo approccio, le idee e politiche economiche liberali sono necessarie per costruire un’economia forte. Tuttavia, questo impianto non è, per definizione, politicamente liberale: in pratica e spesso anche nell’ambizione, un tale approccio serve a creare una nuova base sociale e politica per la stabilità di un ordine politico illiberale. È l’equivalente economico del termine legale tedesco rechtsstaat, che definisce uno Stato il cui sovrano governa attraverso i procedimenti di un sistema legale liberale con tribunali e regolamentazioni da cui è tuttavia slegato. I sostenitori di questa tradizione sono di solito tecnocrati che lavorano per il governo o accademici, formati secondo le idee scientifiche, legali ed economiche considerate all’avanguardia nella loro epoca. Dal punto di vista di questa corrente di pensiero, la politica economica russa non deve temere l’economia globale, ma utilizzarla, se necessario, per costruire la propria base industriale ed economica. Ciò non significa essere fanatici del libero scambio, ma ritenere che il commercio e gli investimenti esteri non siano minacce alla costruzione dello Stato russo.

Il secondo approccio è quello della mobilitazione. Questa tradizione vede sia le istituzioni liberali che i mercati globalizzati come una minaccia per la sicurezza politica, sociale ed economica della Russia. Non è giusto definire queste persone anti-moderniste, perché il loro obiettivo è modernizzare l’economia russa e renderla una potenza economica globale. Tuttavia, essi sostengono una politica di utilizzo delle risorse interne e della manodopera russa per conservare la piena capacità di manovra di chi detiene il potere. Nella loro concezione, la Russia non è uno Stato come gli altri, ma uno spazio imperiale eurasiatico. Anche il popolo russo è considerato eccezionale e in grado di mobilitarsi più per un ideale o un per una questione spirituale che grazie a incentivi materiali. Le figure che portano avanti questo approccio non sono i burocrati, ma sono spesso legate all’élite militare, agli apparati di sicurezza russa o ai tradizionali gruppi di mercanti e aristocratici.

Mentre i liberali russi considerano l’economia globale come uno strumento per modernizzare la Russia, le figure più reazionarie vedono in essa una minaccia non solo per i valori tradizionali, ma anche per gli obiettivi geopolitici e statalisti della Russia.

YAKOV FEYGIN

Il putinismo contemporaneo è l’erede di questa tradizione. Il suo contratto sociale è stato costruito attorno a un sistema politico illiberale con una gestione economica liberale. Nella sua forma più riuscita, prevede una classe media prospera ma apolitica perché l’agenda legislativa è gestita da tecnocrati mentre la politica è dominata da una piccola élite oligarchica legata alle strutture di sicurezza5. Questo consenso piuttosto stabile, che secondo la mia opinione era il sogno di molti riformatori e leader dell’ultima fase dell’Unione Sovietica, ha cominciato a sgretolarsi intorno al 2012 e adesso sta iniziando a disfarsi. Con l’invasione dell’Ucraina e l’inaspettata trasformazione di un attacco che si voleva rapido ed efficace in una lunga e brutale guerra convenzionale, le voci per la mobilitazione si fanno sempre più forti. Nel momento in cui scrivo, Putin rimane coerente con se stesso: un politico relativamente avverso al rischio. I tecnocrati sono ancora in gran parte responsabili della politica interna, tuttavia ci troviamo in un periodo di grande incertezza e il contesto storico della politica economica della Russia e la sua profonda relazione con le questioni di Stato, sicurezza ed identità sono difficili da navigare.

Trasformare un impero in un’economia

La persistenza nella storia politica russa della tensione tra il modello illiberale-liberale e quello basato sulla mobilitazione è il risultato della posizione ambivalente dello Stato russo come Stato-nazione. Nel suo saggio sui fattori persistenti della politica estera russa – da cui il presente articolo trae ispirazione – Alfred Reiber ha sottolineato che lo Stato russo ha sempre avuto un rapporto difficile con il sistema statale europeo. Da un lato, la Russia competeva con le altre grandi nazioni nel concerto delle grandi potenze continentali, d’altra parte, era un impero terrestre con una lunga storia di politica fluida e coloniale nei confronti delle confederazioni nomadi delle steppe orientali6. A differenza di altre potenze imperiali europee, la Russia non poteva tracciare una distinzione netta tra metropoli e colonia, laddove la stessa categoria etnica di russo era ambivalente. Anche dopo la fine della servitù della gleba, nel 1861, i contadini russi rimasero una classe sociale separata dal resto della popolazione, con leggi specifiche che regolavano il diritto di proprietà e il suo trasferimento. Nel privato, l’élite imperiale era più propensa a parlare tedesco e francese che russo. Ciò che teneva insieme la Russia era la sottomissione della sua popolazione al potere autocratico, e per mantenere questo equilibrio il potere era costretto a lavorare su due piani: colonizzare le aree interne e impostare una politica estera basata sull’espansionismo territoriale.

persistenza nella storia politica russa della tensione tra il modello illiberale-liberale e quello basato sulla mobilitazione è il risultato della posizione ambivalente dello Stato russo come Stato-nazione

YAKOV FEYGIN

In ogni modo, la Russia imperiale non era un’entità insolita. Il mondo moderno era composto da imperi, che non ricercavano la creazione di una popolazione omogenea, ma piuttosto ciò che Jane Burbank e Fred Cooper hanno definito «gestione delle differenze». Gli imperi presentavano popolazioni eterogenee con élite che riflettevano questa diversità di lingue e culture, ma allo stesso tempo aderivano al progetto imperiale grazie alla lealtà personale nei confronti del sovrano. In questo senso, l’aumento del peso politico della Moscovia all’interno dell’impero non era atipico, anche perché le steppe e la grande popolazione contadina regalavano grandi vantaggi militari all’élite moscovita che in quel periodo stava entrando nel sistema imperiale europeo7.

Qualcosa cambiò a metà del XIX secolo. La rivoluzione industriale produsse tecnologie che diminuirono i tempi di trasporto, facilitando l’urbanizzazione e l’integrazione delle unità geografiche. I contadini che entravano nei centri urbani si accorgevano di avere qualcosa in comune con coloro che provenivano dal villaggio vicino. Per la prima volta, gli individui potevano comprendere se stessi in un contesto globale, che divenne il definitivo paradigma grazie al progredire della rivoluzione industriale. In questo mutato contesto, fu lo Stato-nazione – un’entità delimitata nello spazio e concentrata sull’omogeneizzazione della propria popolazione – a diventare l’unità politica più efficace per gestire la modernità industriale8.

La presa di coscienza del «ritardo economico» ha accompagnato l’ascesa dello Stato-nazione russo, o almeno di una metropoli imperiale politicamente distinta dalle sue colonie, e sostenuto il suo ingresso nella modernità industriale. La combinazione dei progressi tecnologici e della crescente consapevolezza dell’identità politica come un fatto ancorato in uno spazio nazionale in opposizione al sistema mondiale, rese più consapevole l’élite russa in ascesa di essere in ritardo rispetto agli altri sul piano economico. All’epoca imperiale, in un contesto più eterogeneo, questo concetto era più difficile da comprendere; con l’ascesa del mondo delle nazioni, la costruzione dello Stato da parte delle élite si è accompagnata alla ricerca di innovazioni tecnologiche. Era nata la politica economica, e in particolare quella dello sviluppo. Contemporaneamente alla progressione della rivoluzione industriale, le politiche di laissez-faire e del libero scambio sostenute dagli «economisti politici classici» vennero rimesse in questione in favore di esplicite politiche di sviluppo nazionale9.

La presa di coscienza del «ritardo economico» ha accompagnato l’ascesa dello Stato-nazione russo, o almeno di una metropoli imperiale politicamente distinta dalle sue colonie, e sostenuto il suo ingresso nella modernità industriale

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Per l’impero russo, la costruzione dello Stato fu un processo difficile e incompleto. La Russia era un paese di contadini non liberi e non poteva contare su una borghesia nazionale. Questo sistema sociale era una risposta alle sue sfide uniche, stretta tra le steppe e le potenze imperiali europee. Il sistema di servitù della gleba instaurato prima in Europa occidentale e solo successivamente in Russia, era stato da quest’ultima preservato molto più a lungo, perché aveva favorito l’ascesa di una élite militare e di servizio e aveva creato un sistema unico di reclutamento di massa tra i contadini che permetteva l’impiego di grandi eserciti professionali. L’esercito imperiale russo dell’inizio dei tempi moderni era unico, perché poteva percorrere distanze enormi senza subire defezioni visto che i soldati erano estirpati dalla vita sociale della comunità di nascita. I villaggi di origine dei servi della gleba consideravano i giovani uomini che lasciavano le loro terre come morti che mai sarebbero tornati. Per loro, dunque, non c’era altro che l’esercito10.

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La liberazione dei servi della gleba era solo una parte di una riforma sociale ed amministrativa più ampia avviata dai primi tecnocrati russi. Nonostante la sua reputazione di reazionario, Nicola I contribuì a creare un’élite di funzionari con una moderna istruzione al servizio della sua “politica di cittadinanza ufficiale” imperiale e autocratica. È stato il reazionario Nicola I e non il liberale Alessandro II a essere stato il primo ingegnere dello Stato russo, certo conservatore, ma sicuramente più moderno dei suoi predecessori. Sotto Alessandro, questi nuovi funzionari progressisti cercarono di trasformare l’impero russo in uno Stato di diritto – un paese governato dalla legge e dotato di una moderna amministrazione. Va chiarito che non si trattava di creare uno Stato liberale come lo conosciamo oggi, ma un sistema in cui la procedura giuridica liberale sarebbe stata utilizzata per eseguire i diktat di uno Stato illiberale e antidemocratico11.

Per l’impero russo, la costruzione dello Stato fu un processo difficile e incompleto. La Russia era un paese di contadini non liberi e non poteva contare su una borghesia nazionale. Questo sistema sociale era una risposta alle sue sfide uniche, stretta tra le steppe e le potenze imperiali europee.

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Il tentativo di questi modernizzatori di limitare i capricci dell’amministrazione imperiale fu contrastato dai sostenitori della linea dura, i quali desideravano conservare la capacità dell’autocrate di mobilitare la popolazione attraverso mezzi diretti e militaristi. È importante sottolineare che gli interpreti della linea dura non erano affatto individui arretrati e pre-moderni, ma persone convinte della necessità di costruire lo Stato moderno salvando le pratiche imperiali attraverso politiche giuridiche e amministrative di natura poliziesca e militarista. Dopo l’assassinio di Alessandro II da parte dei radicali e le rivolte polacco-ruteniane del 1861-1863, è questa corrente di pensiero a prendere il controllo degli affari sotto il regno di Alessandro III12.

Se le riforme giuridiche e amministrative e le tensioni da esse generate sono ben note, la politica economica e la sua relazione con la costruzione dello Stato russo sono meno documentate. Ciò è in parte spiegato dal fatto che la politica economica è essa stessa un prodotto della modernità. Nelle sue ultime conferenze, in particolare quelle economicamente libertarie sulla biopolitica, Michel Foucault osserva che l’idea di un’economia separata dal controllo del sovrano è un’invenzione del pensiero liberale moderno. In Russia, l’ambiguità del progetto nazionale e dei suoi confini ha reso molto difficile alla politica economica diventare disciplina autonoma13.

In Russia, l’ambiguità del progetto nazionale e dei suoi confini ha reso molto difficile alla politica economica diventare disciplina autonoma

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Il Ministro delle finanze Nikolai Bunge fu uno dei primi responsabili della politica economica russa che possiamo riconoscere come moderna. La modernità di Bunge risiedeva nella sua formazione civile e nel suo pensiero economico liberale temperato tuttavia dalla consapevolezza del ritardo economico della Russia. Di origine tedesca, Bunge iniziò la sua carriera come accademico all’Università di Kiev, circostanza che gli permise di osservare la rapida modernizzazione della Polonia e del confine ucraino della Russia grazie alle politiche più liberali adottate nella regione. Come ministro delle Finanze, attuò una politica di espansione del credito ai servi della gleba appena liberati, di protezionismo industriale moderato e, soprattutto, di equilibrio di bilancio, necessario per consentire alla Russia di passare allo standard aureo. Questo passaggio avrebbe dovuto consentire al paese di beneficiare di maggiori capitali stranieri per industrializzarsi14.

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La politica economica di Bunge suscitò l’ira dei potenti nobili conservatori che contavano sul sistema tradizionale di carta moneta della Russia per finanziare i loro debiti ed erano grandi importatori di beni stranieri e, dopo una campagna denigratoria condotta dai commercianti conservatori di Mosca e dai giornali slavofili, fu rimosso dal suo incarico nel 1886. I suoi oppositori lo accusavano di importare idee economiche e concorrenza straniera, danneggiando così gli interessi nazionali della Russia. Il suo sostituto, Ivan Vyšnegradskij, era un ingegnere con interessi nel campo dell’industria, di cui era uno dei pionieri.

Più astuto di Bunge dal punto di vista politico, cercò di proseguire la sua politica per adottare lo standard aureo e integrare la Russia nei mercati finanziari europei. Tuttavia, per placare le preoccupazioni dei conservatori, attuò una politica regressiva, riuscendo a ottenere l’equilibrio di bilancio grazie a pesanti tasse sui contadini. Per pagare le tasse, i contadini dovevano vendere i loro cereali a ogni costo e la Russia accumulò un importante surplus commerciale di questa materia prima persino durante la carestia del 1891-1892, che causò fino a 400mila morti. Alla fine però, la pressione dell’opinione pubblica e il timore di una insurrezione portarono alla sua destituzione15.

Il sostituto di Vyšnegradskij rimane uno dei più influenti decisori nella storia della Russia e, fino a quel periodo, probabilmente il più moderno. Per Sergej Witte, la politica economica non era solo una questione di industrializzazione, ma anche di costruzione di una nazione. Nato in una delle famiglie aristocratiche più elitiste, Witte era sia un uomo del sistema che una figura periferica unica. Trascorse i suoi primi anni a Tbilisi, in Georgia, dove suo nonno era consigliere privato del Caucaso appena conquistato. Continuò la sua formazione a Odessa, una delle città più cosmopolite dell’impero, e poi a Kiev sotto la guida di Bunge. In modo insolito per un aristocratico, Witte si lanciò negli affari lavorando nelle ferrovie ucraine, dove acquisì la reputazione di essere tollerante e persino vicino alle minoranze ebraiche e polacche che lavoravano nell’ingegneria e nell’amministrazione dell’infrastruttura16

ll sostituto di Vyšnegradskij rimane uno dei più influenti decisori nella storia della Russia e, fino a quel periodo, probabilmente il più moderno. Per Sergej Witte, la politica economica non era solo una questione di industrializzazione, ma anche di costruzione di una nazione

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Witte aveva idee ben definite su ciò che l’impero russo dovesse diventare. Durante il suo soggiorno a Kiev, scrisse un saggio sulle idee dell’economista e pubblicista tedesco Friedrich List. Ispirato da Alexander Hamilton e dal sistema americano, List sosteneva che la costruzione di una nazione moderna fosse parte integrante dell’industrializzazione e che questa non potesse essere realizzata attraverso politiche di laissez-faire simili a quelle dei primi paesi industrializzati come il Regno Unito. Al contrario, una nazione deve essere costruita come area economica omogenea e l’industria nazionale deve essere protetta. Per List, lo Stato non doveva limitarsi a proteggere il processo di industrializzazione, ma renderlo possibile attraverso investimenti diretti nelle infrastrutture. Ciò non significa che l’economista tedesco fosse un nazionalista reazionario: era aperto al commercio quando necessario e incoraggiava gli investimenti diretti stranieri.

In quanto uomo del settore ferroviario con un passato cosmopolita, il russo Witte fu immediatamente attratto dal pensiero del tedesco List. Da ministro delle Finanze, seguì un programma risolutamente listiano, implementò una politica fiscale più progressista rispetto all’approccio di Bunge per tenere in equilibrio il bilancio e alla fine riuscì ad allineare la Russia allo standard aureo. Ciò permise a Mosca di emettere il proprio debito sui mercati internazionali e di attirare investimenti stranieri. Witte impostò una politica protezionista, disinteressandosi dello sviluppo agricolo e puntando sul sostegno statale all’industria; a differenza dei suoi predecessori, incoraggiò gli investimenti statali nelle ferrovie per collegare l’immenso territorio russo, un progetto culminato nella ferrovia transiberiana, destinata a proiettare la potenza russa nel Pacifico. 

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La politica diede i suoi frutti e la Russia si industrializzò rapidamente. Tuttavia, come i suoi predecessori, il ministrò si inimicò rapidamente le élite conservatrici. Il suo cosmopolitismo, la sua amicizia con gli ebrei assimilati e la sua apertura ai capitali stranieri gli valsero l’accusa di essere un agente segreto alleato di cospirazioni anti-russe. Una critica più seria si concentrò sul suo abbandono della politica agraria, e sulla sua assenza di riforme nel settore. L’editore slavofilo conservatore I.S. Aksakov pubblicò diversi studi, dimostrando che durante il mandato di Witte la produzione agricola era diminuita a causa della priorità data all’industrializzazione e all’adozione dello standard aureo, che generò una contrazione del credito rurale17.

Uno degli autori di questi studi, Sergei Sharapov, descrisse i contorni della modernizzazione anti-liberale e conservatrice nel tardo impero russo. Sharapov non era contrario al protezionismo di Witte, alla politica di investimenti pubblici o all’industrializzazione. Si opponeva però alla promozione degli investimenti esteri – in particolare la proprietà straniera – e alla politica restrittiva del credito che la accompagnava. Invece, Sharapov proponeva politiche monetarie flessibili e l’uso della carta moneta, che avrebbe dovuto essere utilizzata per orientare il credito verso le campagne e pagare la manodopera necessaria alla costruzione di nuove infrastrutture industriali. Un elemento centrale del suo pensiero era che il contadino russo fosse fondamentalmente diverso dai lavoratori occidentali e poteva dunque essere motivato a lavorare per la modernizzazione economica attraverso valori spirituali, accettando dunque la carta moneta. Secondo Sharapov, il contadino russo poteva diventare il centro di una politica economica fondata sulla mobilitazione delle masse grazie alla quale Russia avrebbe potuto sviluppare un’infrastruttura economica moderna senza dipendere da un Occidente capitalista moralmente corrotto e pericoloso18.

Un elemento centrale del suo pensiero era che il contadino russo fosse fondamentalmente diverso dai lavoratori occidentali e poteva dunque essere motivato a lavorare per la modernizzazione economica attraverso valori spirituali

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Il confronto tra Witte e Sharapov non deve indurre a immaginare una distinzione eccessiva tra il liberale e il reazionario. Entrambi gli uomini erano slavofili e patrioti dell’impero russo. Witte era un modernizzatore, ma voleva modernizzare per preservare il sistema invece che per ribaltarlo, e per riuscirci era disposto a utilizzare mezzi liberali per trasformare l’autocrazia russa in qualcosa che assomigliasse a uno Stato industriale. Il suo obiettivo non era quello di costruire un sistema esplicitamente liberale. Sharapov, invece, lavorò per introdurre in Russia un’industria moderna e renderla così uno Stato tecnologicamente più avanzato. Ciò che temeva, tuttavia, era l’integrazione nel capitalismo globale e le perturbazioni sociali che essa poteva causare, soprattutto per le ricadute sulla base sociale idealizzata dell’autocrazia russa e della tradizione conservatrice: la classe contadina. Pertanto, Sharapov cercò una via verso la modernità che non si basasse tanto sui mercati capitalistici quanto su una nuova élite nazionale e spirituale e su una classe contadina da mobilitare per sfruttare le vaste risorse dell’impero e renderlo relativamente autarchico.

La politica economica sovietica e il problema della mobilitazione

Vladimir Vernadskij è una delle figure più influenti della storia intellettuale russa e forse una delle più sottovalutate nello sviluppo delle scienze mondiali. Nato in una famiglia della nobiltà ucraina, suo padre era un economista dell’Università di San Pietroburgo e sua madre un’insegnante di musica. Vernadskij, che sarebbe diventato uno dei padri della moderna geochimica e radiogeologia, fu uno dei divulgatori del termine “biosfera” – la sfera di interazione tra la vita biologica e il non vivente – e successivamente della “noosfera” – la sfera di interazione tra la ragione umana e l’ambiente biologico. Vernadskij era politicamente liberale, membro del Partito costituzionale democratico (Kd) e sostenitore moderato della cultura e dell’autonomia ucraina, come dimostra il suo ruolo nella fondazione dell’Accademia ucraina delle scienze.

Con queste premesse, stupisce che Vernadskij sia sopravvissuto allo stalinismo senza essere costretto all’esilio. Lo studioso invece morì di vecchiaia a Mosca nel 1945, due anni dopo aver ricevuto il premio Stalin per il suo contributo alla scienza russa e sovietica. La strana sopravvivenza di Vernadskij può essere attribuita, almeno in parte, al fatto che il suo pensiero sullo sviluppo fosse molto vicino, se non addirittura identico, a quella che sarebbe diventata l’ortodossia staliniana. Nel 1915, mentre la Russia era coinvolta nella guerra, Vernadskij fondò il Comitato per lo studio delle forze produttive naturali (in russo KEPS) presso l’Accademia imperiale delle scienze, al fine di mappare e catalogare le risorse potenziali dell’ampio territorio nazionale. Dopo la rivoluzione, il KEPS fu rinominato Comitato per lo studio delle forze produttive (SOPS in russo), ma mantenne la stessa missione e lo stesso personale. Il SOPS è sopravvissuto al periodo sovietico, passando infine dall’Accademia delle scienze al Gosplan. Il suo erede continua ad esistere all’interno del ministero dell’Economia.

per i bolscevichi del 1917, la rivoluzione era una scommessa che contava su una più ampia deflagrazione del capitalismo: la lotta al sistema economico dominante avrebbe utilizzato la Russia come anello debole per distruggere l’intera catena

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Il SOPS è stata la prima agenzia nella storia della Russia a impostare il problema dello sviluppo economico come una questione di pianificazione dell’uso delle risorse attraverso un metodo scientifico. Non sorprende che Vernadskij abbia goduto del sostegno dei leader sovietici: se si esamina più da vicino la questione, si scopre che il progetto del SOPS riguardava la pianificazione delle risorse interne. Questo aveva un significato molto specifico nei primi anni dell’Unione sovietica.

Quando i bolscevichi presero il potere nel 1917, si ritrovarono a capo di un piccolo governo sostenuto da operai militanti e soldati ancora più militanti in un impero politicamente mal definito e demograficamente dominato da una popolazione contadina diffidente. Come sottolinearono i menscevichi, non era affatto ciò che Marx aveva previsto. Tuttavia, per i bolscevichi del 1917, la rivoluzione era una scommessa che contava su una più ampia deflagrazione del capitalismo: la lotta al sistema economico dominante avrebbe utilizzato la Russia come anello debole per distruggere l’intera catena. Ecco perché lo sguardo dei bolscevichi era rivolto alla Germania, ai suoi lavoratori militanti e alla sua economia industriale avanzata. Il sogno di coinvolgere Berlino, però, si spense nel 1921, a causa dello scoppio della guerra polacco-sovietica.

Svanita la prospettiva di una rivoluzione mondiale, i bolscevichi si trovarono a dover governare la Russia da soli, una sfida non da poco. Il paese non era soltanto devastato dalla guerra, ma non poteva contare su un’economia capitalista di primo piano. La classe operaia era ampiamente superata dalla popolazione contadina che non si fidava della nuova autorità e la tollerava soltanto in virtù dell’avversione ancora maggiore che provava nei confronti dei Bianchi. Con la fuga delle armate bianche, i contadini cominciarono a ribellarsi contro le severe politiche di requisizione del nuovo Stato sovietico, costringendo i bolscevichi ad abbandonare il “comunismo di guerra” per adottare la nuova politica economica (NEP). La NEP prevedeva la reintroduzione del mercato per il cibo e i beni di consumo, lasciando solo i settori chiave dell’industria pesante sotto il controllo dello Stato.

Nel contesto della Nuova politica economica, il governo sovietico si trovò di fronte a un problema. In primo luogo, assistette al ritorno degli imprenditori capitalisti e dei contadini, nonché di ex “esperti borghesi” che furono integrati nell’apparato governativo. Questa situazione non piacque a numerosi rivoluzionari e ai giovani veterani dell’Armata Rossa, i quali si aspettavano di fare rapidamente carriera nel nuovo Stato operaio. In modo altrettanto preoccupante, l’economia controllata dallo Stato, che doveva concorrere e alla fine sostituire pacificamente il mercato, vedeva in realtà i suoi valori di scambio deteriorarsi. Insomma, non soltanto la rivoluzione era rimasta confinata in un paese circondato da Stati capitalisti ostili, ma l’Unione sovietica non sembrava marciare rapidamente verso un brillante futuro industriale.

© Danila Tkachenko

Questa congiuntura divise il Partito Comunista. La cosiddetta “opposizione di sinistra” guidata da Leon Trotsky sostenne la necessità di procedere a una forte industrializzazione finanziata dalle tasse sui contadini. Tuttavia, i trotzkisti partivano dal presupposto che l’Unione sovietica non potesse costruire effettivamente un’economia interamente socialista senza la rivoluzione mondiale. L’industrializzazione era importante per mantenere il paese vivo in un mondo ostile, ma non un obiettivo rivoluzionario in sé. Nikolaj Bukharin e ciò che sarebbe stata chiamata in seguito “opposizione di destra”, era convinto invece che si dovesse insistere con la Nuova politica economica, lavorando a un’industrializzazione graduale con politiche più attente allo sviluppo delle campagne.

Stalin raggiunse il potere risolvendo queste tensioni. Spesso raffigurato come un abile manovratore che sosteneva la destra contro la sinistra, per poi adattare la politica economica della sinistra ed eliminare la destra, Stalin rimase tuttavia coerente. A partire dal suo “Socialismo in un solo paese” del 1924, il segretario generale stabilì una dottrina di sintesi tra la rivoluzione limitata a un solo paese e l’industrializzazione. Il socialismo in un solo paese non significava l’abbandono del progetto rivoluzionario mondiale, al contrario: Stalin utilizzò la teoria di Lenin, secondo il quale l’imperialismo è lo stadio più elevato del capitalismo, per creare una dottrina geopolitica della rivoluzione socialista. La rivoluzione russa aveva avuto successo proprio grazie alla concorrenza economica tra gli Stati imperialisti, che aveva portato allo scoppio della prima guerra mondiale dando un’opportunità ai rivoluzionari russi. Anche se il capitalismo era riuscito a contenere la rivoluzione all’interno dei confini dell’Unione sovietica, ciò non significava che fosse un sistema stabile, anzi. Esso sarebbe nuovamente entrato in crisi a causa della sua dinamica interna o delle rivalità imperialiste, aprendo la porta all’espansione della rivoluzione. Nel frattempo, l’Unione sovietica doveva sopravvivere in un mondo ostile ed essere pronta per la prossima deflagrazione19.

L’implicazione della costruzione del socialismo in un solo paese era che l’Unione sovietica dovesse industrializzarsi e costruire una base economica per stabilire il potere socialista all’interno dei suoi confini. Ciò significava da un lato rifiutare gli argomenti dell’opposizione di sinistra sulle limitazioni dello sviluppo socialista in Russia senza una rivoluzione mondiale, e dall’altro rifiutare gli argomenti della destra sulla crescita lenta e sull’economia mista. Secondo Stalin, invece, i socialisti dovevano utilizzare la pianificazione per mobilitare le risorse interne e arrivare così all’industrializzazione. Il sistema stalinista non implicava una totale autarchia e anzi accoglieva favorevolmente l’importazione di tecnologie occidentali. Tuttavia, queste erano utili solo nella misura in cui consentivano di sviluppare l’industria statale. Stalin spiegò molto chiaramente la logica della pianificazione economica sovietica a un gruppo di economisti nel 1941:

«L’economia pianificata non è il nostro desiderio; è inevitabile, altrimenti tutto crollerà. Abbiamo distrutto barometri borghesi come il mercato e il commercio, che aiutano la borghesia a correggere le disuguaglianze. Abbiamo preso tutto su di noi. ‘’l’economia pianificata è per noi inevitabile come il consumo di pane. Non perché siamo “buoni” e capaci di fare tutto e loro [i capitalisti] no, ma perché per noi tutte le aziende hanno pari importanza…

Qual è il compito principale della pianificazione? Il compito principale della pianificazione è garantire l’indipendenza dell’economia socialista dall’accerchiamento capitalista. È assolutamente il compito più importante. È una sorta di battaglia contro il capitalismo mondiale. Il fondamento della pianificazione consiste nel raggiungere il punto in cui il metallo e le macchine saranno nelle nostre mani, e dove non saremo dipendenti dall’economia capitalista».

Nel contesto più ampio dei dibattiti sulla politica economica del tardo impero russo, Stalin ha conseguito un risultato notevole: ha accettato la necessità di un’economia di mobilitazione militare come metodo per realizzare la mobilitazione delle risorse interne. Utilizzando questo metodo contro i contadini e il settore agricolo, la costruzione dello Stato stalinista ha risolto temporaneamente, attraverso fiumi di sangue, le tensioni esistenti nell’impero russo.

Secondo Stalin, i socialisti dovevano utilizzare la pianificazione per mobilitare le risorse interne e arrivare così all’industrializzazione. Il sistema stalinista non implicava una totale autarchia e anzi accoglieva favorevolmente l’importazione di tecnologie occidentali

YAKOV FEYGIN

Il sistema di pianificazione stalinista è stato, in alcuni aspetti, notevolmente duraturo. Sotto i suoi successori, aspetti essenziali della pianificazione economica sovietica, come la durata quinquennale del piano, l’importanza del piano annuale rispetto all’obiettivo a lungo termine e, soprattutto, l’inclinazione verso l’autarchia e la priorità data ai “mezzi di produzione” – in pratica, l’industria pesante – sono rimasti i principi guida della politica economica sovietica. L’Unione Sovietica ha sviluppato un «modello di crescita basato sull’investimento» in cui il consumo pubblico veniva represso a favore dell’investimento nel capitale fisso. Questo sistema non è insolito per un’economia che deve crescere per recuperare il ritardo rispetto ai suoi concorrenti. Le cosiddette “tigri” dell’Asia orientale e la Cina hanno adottato lo stesso modello, che tuttavia genera rendimenti decrescenti: i guadagni nominali di questo tipo di crescita  finiscono per essere inghiottiti dai costi reali dell’inflazione e della sovracapacità di produzione. In Unione Sovietica, questo problema è stato aggravato dal fatto che l’economia era relativamente chiusa e non esportava beni ad alto valore aggiunto20.

La routinizzazione del lavoro e dei processi sociali rappresentò un cambiamento significativo nella politica economica sovietica. A partire da Chruščëv, la mobilitazione che caratterizzava i processi produttivi staliniani cominciò a diminuire a favore di una forma più popolare di mobilitazione. Sotto Brežnev, questo processo continuò, e la mobilitazione politica diminuì ancora di più. Il periodo tardo sovietico è caratterizzato da ciò che lo sociologo James Millar definisce «il piccolo compromesso». I cittadini sovietici potevano condurre la loro vita quotidiana in una società sempre più consumistica dove la corruzione e il lavoro nero erano tollerati. Al regime era sufficiente la relativa adesione alle norme politiche: un modello conservatore costruito per garantire la stabilità21.

Tutto ciò portava con sé una grande contraddizione. Il modello di crescita economica sovietico non fu mai progettato per creare l’abbondanza a beneficio dei consumatori, ma come un modello di mobilitazione. La disconnessione tra le funzioni delle istituzioni sovietiche e i loro obiettivi diventò nel tempo una questione sempre più esistenziale. A partire dalla metà degli anni Cinquanta, la guerra fredda, che era stata fino a quel momento una competizione militare e industriale, si trasformò in una competizione socio-economica. Per le superpotenze, il segno del successo diventò lo sviluppo economico, anche perché l’ascesa degli Stati Uniti come potenza capitalista aveva sostituito l’antico ordine imperiale europeo in cui era nato lo stalinismo con un impero più liberista. Lo sviluppo venne ridefinito come capacità di far crescere il consumo.

Il periodo tardo sovietico è caratterizzato da ciò che lo sociologo James Millar definisce «il piccolo compromesso». I cittadini sovietici potevano condurre la loro vita quotidiana in una società sempre più consumistica dove la corruzione e il lavoro nero erano tollerati. Al regime era sufficiente la relativa adesione alle norme politiche

YAKOV FEYGIN

La disconnessione tra gli obiettivi dei consumatori e i metodi staliniani permise l’ascesa di una nuova generazione di tecnocrati sovietici. Formate in istituzioni accademiche e agenzie governative, queste figure si impegnarono nelle ultime tendenze delle scienze sociali mondiali e vi contribuirono. Tuttavia, i nuovi tecnocrati non vanno tanto identificati come liberali nascosti, quanto come funzionari che non volevano, e non potevano, mettere in discussione la politica illiberale sovietica. Il loro obiettivo era semplicemente cambiare le priorità dell’economia.

Le riforme furono introdotte inizialmente da Kosygin tra il 1965 e il 1969, ma il loro ritmo si interruppe a causa dell’instabilità che poteva derivare dalla riorientazione degli investimenti statali verso la redditività e la domanda di beni di consumo. Anche le riforme di Gorbačëv, inizialmente, non si configurarono come tentativi di mettere in discussione il modello di crescita sovietico, ma per accelerarlo (uskarenija) al fine di adottare più rapidamente le tecnologie necessarie al risparmio di manodopera e alla crescita, senza redistribuire la maggiore ricchezza alle famiglie. Questo modello di crescita era troppo importante, sia per i potenti interessi che muoveva sia per l’ideologia intrinseca dell’Unione Sovietica: il sistema economico era ormai diventato sinonimo di sviluppo socialista. Accettare che questo modello non desse più risultati significava sollevare questioni scomode, in particolare quella di sapere se il sistema economico in vigore non fosse semplicemente un altro modo di sfruttare i lavoratori.

Per colmare il divario tra le priorità del modello sovietico e la cultura del consumismo, l’Unione Sovietica dipendeva dalle esportazioni di materie prime energetiche che consentivano di finanziare le importazioni ad alto valore aggiunto e i prodotti alimentari. Ciò sottrasse ulteriori risorse ai settori a maggiore valore aggiunto, risorse che invece sarebbero state necessarie per riequilibrare il modello di crescita verso una strada più sostenibile. Alla fine degli anni Settanta, le capacità industriali sovietiche erano diventate così ridondanti che i nuovi investimenti non producevano più alcun guadagno, e l’economia rallentò 22.

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Nel suo racconto del crollo del comunismo nell’Europa dell’Est, il sociologo Daniel Chirot riassume così il problema: «l’Unione Sovietica ha costruito l’economia del XIX secolo più avanzata del mondo, ma anche la più vasta e inflessibile cintura arrugginita». Il modello di mobilitazione stalinista e la crescita trainata dagli investimenti avevano permesso di riprodurre il mondo in cui i padri fondatori dell’Unione Sovietica erano cresciuti e attraverso il quale definivano la modernità. Per un lungo periodo il sistema fu un modo efficace ma brutale per risolvere i problemi incontrati dalla Russia imperiale, ma creò anche strutture politiche che non potevano assumersi il compito di riformare il modello23.

La Russia post sovietica e il piccolo compromesso di Putin

L’implosione dell’Unione Sovietica fu un processo politico e sociale profondamente complesso. Tuttavia, è impossibile attribuire questo crollo ai soli fattori economici. Al contrario, il collasso economico deve essere compreso come parte integrante della lenta erosione, poi acceleratasi, delle istituzioni formali. Il periodo tra il 1988 e il 1992 è stato ben descritto da Steven Solnik come «una corsa al risparmio» causata dalla riforma di Gorbačëv, che aveva aperto opportunità di accaparramento di risorse reali da parte dei manager e delle élite costringendo gli altri a garantire rapidamente la loro partecipazione24.

La corsa agli sportelli costituisce una base inestimabile per comprendere l’economia politica degli anni Novanta in Russia. Molti resoconti popolari e universitari raccontano che la «terapia d’urto» – le rapide riforme dei prezzi e le privatizzazioni – fu imposta da istituzioni neoliberiste straniere come il fondo monetario internazionale e da economisti liberali russi fanatici di Hayek. La verità, tuttavia, è che le riforme di Yegor Gaidar erano un ulteriore tentativo di utilizzare mezzi tecnocratici liberali a fini illiberali. Questo capitolo dell’economia politica russa è difficile da scrivere perché Gaidar e altri riformatori russi erano e sono ancora ideologicamente liberali. Tuttavia, per costruire un’economia liberale, i riformatori di quel periodo capirono rapidamente che dovevano accettare un compromesso, e far funzionare una politica illiberale.

Il collasso economico dell’Unione Sovieticadeve essere compreso come parte integrante della lenta erosione, poi acceleratasi, delle istituzioni formali

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La prima generazione di riformatori post-sovietici proveniva dallo stesso ambiente di chi aveva provato a riformare l’Unione sovietica, ma poteva contare su un vantaggio non da poco: aveva assistito ai numerosi tentativi falliti di riforma del sistema, e aveva sviluppato una teoria molto politica sul funzionamento dell’economia sovietica. Il gruppo di teorici economici riuniti attorno a Gaidar e al suo collega di Leningrado, Anatoly Chubais, aveva identificato l’Unione Sovietica come «economia di mercato amministrata», descrivendola non come un sistema a economia pianificata dove i prezzi non esistono, ma come un mercato oligarchico in cui le imprese di Stato si comportano da monopoliste e lavorano attivamente per distorcere il mercato. L’unico modo per uscire da questa situazione non è dunque costruire il mercato da zero, ma spezzare la capacità del monopolio di falsare ciò che già costituisce un’economia di mercato. Da questo punto di vista, la terapia d’urto non consisteva nel «ripristinare i prezzi», ma nella riforma della struttura sociale del mercato25.

Per la classe politica russa dei primi anni Novanta, i programmi neoliberisti promossi dai tecnocrati non dovevano portare a una “transizione” verso un capitalismo liberale di stampo occidentale, ma dovevano costituire il mezzo per ricostruire un nuovo Stato russo e il patto sociale che lo sosteneva. Una popolare interpretazione della crisi costituzionale russa del 1993 legge questa fase come un conflitto sulla terapia d’urto. Secondo questa lettura, il Congresso dei deputati del popolo, il parlamento russo dell’epoca creato alla fine dell’Unione Sovietica, si oppose alla continuazione del “programma Gaida” di liberalizzazione rapida per proporre invece una transizione più graduale. Eltsin e i suoi alleati vengono presentati come avversari del Parlamento democraticamente eletto, tanto da aver creato una costituzione super-presidenzialista proprio per bloccare l’opposizione.

Una più attenta analisi del processo rivela una storia più sottile. Il conflitto tra Eltsin e il Congresso dei deputati del popolo, e la nuova costituzione che ne è seguita, vanno letti come un processo parallelo alla terapia d’urto, entrambi concepiti per creare una nuova élite e una nuova politica. Questo nuovo corpo dominante viene costruito attorno alla presidenza, istituzione che rappresenta l’unità della nazione e grazie alla sua dimensione quasi-monarchica è in grado di mantenere la coesione del paese. Nel contesto dei primi anni Novanta, quando l’unità geografica della nascente Federazione russa è messa in discussione, la creazione di una nuova élite attraverso riforme liberali è considerata un modo per costruire un regime coerente e sostenibile. La politica della terapia d’urto, della privatizzazione e della creazione di una presidenza altamente centralizzata e onnipotente si basa, ancora una volta, sulla costruzione dello Stato russo con idee liberali sulle riforme economiche e costituzionali ma illiberali sul terreno della tradizione politica.

La politica della terapia d’urto, della privatizzazione e della creazione di una presidenza altamente centralizzata e onnipotente si basa, ancora una volta, sulla costruzione dello Stato russo con idee liberali sulle riforme economiche e costituzionali ma illiberali sul terreno della tradizione politica

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La crisi costituzionale del 1993 segna anche l’inizio di un’alleanza crescente tra Eltsin e i servizi di sicurezza. Tra il 1992 e 1993, il nuovo presidente adotta gradualmente una postura più aggressiva nei confronti del sistema di alleanza occidentale per guadagnare il sostegno dei militari contro il Congresso dei deputati del popolo. Alla fine, riesce nel suo intento e l’impasse politica è risolta dall’intervento dei militari a suo favore. Questa alleanza si rafforza durante le elezioni presidenziali del 1996, quando l’impopolare Eltsin deve affrontare un Partito comunista rivitalizzato ma sempre più nazionalista. Quella tornata elettorale permette di realizzare il matrimonio tra gli oligarchi, che concedono prestiti per la campagna elettorale in cambio di azioni di imprese statali, e l’apparato di sicurezza dello Stato, ricostituito e diffidente26.

Per molti versi, Vladimir Putin è il pieno successore del sistema messo in piedi da Eltsin. Durante i suoi primi due mandati, il presidente ha portato a termine il progetto di stabilizzazione dell’economia politica russa. La crisi finanziaria del 1998 ha permesso al rublo di svalutarsi mentre i prezzi del petrolio e del gas raggiungevano contemporaneamente i massimi storici. La combinazione di una valuta più economica e di entrate da importazioni più elevate ha permesso di fortificare sia il bilancio pubblico che l’economia. Il principale obiettivo raggiunto da Putin è stato l’istituzione di un sistema di tasse sulle importazioni di energia che ha consentito allo Stato di ottenere maggiori entrate.

Anche se in modo meno formale, gli anni di Putin sono stati caratterizzati da un nuovo patto con l’élite russa. Finché le imprese pubbliche e le connessioni personali di Putin hanno controllato una parte sempre maggiore dell’economia, e gli oligarchi si sono disinteressati della politica, questi ultimi erano autorizzati a fare ciò che volevano. Così, la corruzione è diventata lo strumento di funzionamento del regime, e persino della costruzione dello Stato: l’architettura messa in piedi da Putin ha permesso la stabilizzazione dei conflitti interni alle élite permettendo al Cremlino di diventare l’arbitro finale delle contese. La classe media russa si è sviluppata, e ha stretto con il sistema di potere putinista un tacito accordo simile a quello degli oligarchi: i suoi membri hanno potuto godere di una maggiore sicurezza economica e personale, rinunciando in cambio a occuparsi di politica27.

Il «periodo sushi», così chiamato per l’onnipresenza dei ristoranti di sushi destinati alla classe media urbana, corre approssimativamente dal 2001 al 2012. Per certi aspetti, il putinismo è la realizzazione di ciò che i dirigenti tardosovietici e persino i riformatori economici avevano sperato: il mercato ha permesso la distribuzione efficiente di beni di consumo a una classe media urbana in rapida espansione che in cambio ha accettato di non occuparsi di politica. Allo stesso tempo, i settori chiave dell’economia, sebbene spesso nominalmente privati, sono in mano a personalità di fiducia del Cremlino. Questo capitalismo politico ha utilizzato le caratteristiche dell’economia neoliberale, come l’imposta forfettaria, una politica monetaria rigorosa e ortodossa, grandi investimenti esteri e un bilancio ben equilibrato, per scopi poco liberali. La stabilità economica ha permesso di consolidare le élite politiche. Putin ha, per un certo periodo di tempo, realizzato pienamente il «piccolo compromesso di Breznev».

Il dilemma del putinismo 

Il 26 aprile 2022, Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza russo e consigliere de facto di Putin per la sicurezza nazionale, è intervistato dal giornale ufficiale del governo, Rossiyskaya Gazeta. In quest’intervista, Patrushev dichiara che l’Occidente ha mosso una guerra totale alla Russia al fine di sopprimere la sua cultura e i suoi interessi nazionali per impadronirsi delle sue risorse naturali. In risposta a questo attacco definito multifattoriale perché culturale, economico e militare, la Russia dovrebbe abbandonare «i soli meccanismi di mercato» e utilizzare maggiormente «le risorse interne del nostro paese» attraverso una «maggiore disciplina [imposta dal governo]» nelle industrie chiave per «la sicurezza della Russia»28

Patrushev è una delle figure più bellicose nell’orbita di Putin, e lo ha sostituito come direttore del FSB dopo la sua nomina a primo ministro nel 1999. L’attuale posizione non gli conferisce alcun potere istituzionale diretto, ma supervisiona i briefing di Putin, circostanza che gli garantisce accesso diretto al dittatore. Patrushev ha iniziato la sua carriera nel KGB come ufficiale del controspionaggio, prima di guidare le operazioni contro il contrabbando nella regione di Leningrado. Gli ufficiali del KGB coinvolti nel controspionaggio interno, e gli ufficiali di controspionaggio in generale, hanno una cultura molto particolare. Questi ambienti sono dominati dall’adesione a varie teorie del complotto utilizzate per spiegare il collasso dell’Unione sovietica attraverso varie «leggendarie coltellate alla schiena». 

Una delle più popolari è il “Piano Dulles”, un fantomatico documento del 1948 redatto da Allen Dulles (che tuttavia ha ricoperto posizioni decisionali a Washington molti anni dopo) con la strategia ufficiale degli Stati Uniti per distruggere l’Unione Sovietica avvelenando la cultura russa. Non esiste alcuna prova dell’esistenza di un tale documento e la teoria è apparsa per la prima volta in un romanzo storico di inizio anni Novanta. Patrushev è noto per credere a idee ancora più assurde. Nel 2015, ha dichiarato che l’ex segretaria di Stato americana Madeleine Albright aveva elaborato piani per distruggere la Russia e impadronirsi delle sue risorse naturali. La fonte di questa affermazione è una dichiarazione di un medium del programma psichico dell’ex KGB che sostiene di aver letto nella mente di Albright durante una riunione ufficiale alla fine degli anni Novanta29.

Gli ufficiali del KGB coinvolti nel controspionaggio interno, e gli ufficiali di controspionaggio in generale, hanno una cultura molto particolare. Questi ambienti sono dominati dall’adesione a varie teorie del complotto utilizzate per spiegare il collasso dell’Unione sovietica attraverso varie «leggendarie coltellate alla schiena»

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La posizione di Patrushev può dunque essere interpretata come molto tradizionale e favorevole a un’economia di mobilitazione, al massimo utilizzo possibile delle risorse interne, all’organizzazione del lavoro più disciplinata e alla preminenza del complesso militare-industriale. L’obiettivo è quello di proteggersi da un sistema economico globale che, anche senza la minaccia di sanzioni, viene manipolato dagli Stati Uniti e dai loro alleati per compromettere la sovranità russa.

Patrushev ha sicuramente l’ascolto su Putin, ma la portata della sua influenza è oggetto di dibattito e sarà meglio compresa in futuro, quando saremo in grado di tracciare un bilancio completo degli ultimi anni31. Alcuni elementi indicano però che lo Stato russo si sta effettivamente preparando a un’economia più militarizzata. I centri di reclutamento militare hanno aggiornato le loro banche dati per evitare il caos osservato in autunno, sono state emanate alcune leggi per sequestrare beni personali nell’interesse della sicurezza nazionale, e gli annunci sull’aumento degli effettivi dell’esercito, che sarà progettato per condurre lunghe guerre, implicano un complesso militare-industriale molto più ampio32.

Tuttavia, almeno fino al suo discorso del 21 febbraio 2023, Putin non ha fatto alcun annuncio verso una sostituzione dei tecnocrati che compongono l’attuale alta amministrazione russa con persone come Glazyev. Inoltre il presidente non ha preso decisioni concrete sulla mobilitazione o su nuove leggi economiche. Al contrario, le ultime sue dichiarazioni appaiono piuttosto standardizzate e persino, nella loro noia, brezneviane. Alla maniera della tarda Unione Sovietica, Putin ha anche elogiato il raccolto dandole un risalto simile a quello riservato alla grande guerra industriale che ha scatenato.

Il conservatorismo di Putin contraddice la sua reputazione di persona con un’alta propensione al rischio: è in verità abituato ad attendere l’ultimo momento per prendere decisioni difficili, e in generale cerca di evitarle il più possibile. Il 24 febbraio rappresenta un’eccezione basata sulla convinzione, poi rivelatasi errata, che l’invasione sarebbe durata 72 ore. Tuttavia, il conservatorismo di Putin e la sua esitazione tra l’illiberalismo liberale e la mobilitazione rappresentano un problema fondamentale.

Il conservatorismo di Putin contraddice la sua reputazione di persona con un’alta propensione al rischio: è in verità abituato ad attendere l’ultimo momento per prendere decisioni difficili, e in generale cerca di evitarle il più possibile. La sua esitazione tra l’illiberalismo liberale e la mobilitazione rappresentano un problema fondamentale

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Dalla sua rielezione nel 2012, il presidente non è riuscito a ripristinare il contratto sociale dei primi anni Duemila. Il suo terzo mandato è arrivato subito dopo quello di Dimitri Medvedev, che sconta giustamente una reputazione di poca autonomia e capacità decisionale, anche se ciò non significa che non avesse alcun potere, come mostra il suo assenso alla missione Nato in Libia, avversata invece da Putin. Medvedev aveva forse pochi poteri, ma rappresentava in ogni modo una corrente di pensiero relativamente influente, cioè l’ala liberale e tecnocratica della coalizione putinista. Nel suo periodo al potere, ha implementato politiche per rendere la Russia più aperta alle nuove imprese e, cosa ancora più importante, ha visto la società cambiare. La fine della sua presidenza è stata infatti segnata dalle “proteste di Bolotnaya” contro le elezioni ingiuste della Duma a Mosca e in altre città russe: sotto il suo mandato la classe media russa è diventata una forza politica e il contratto sociale degli “anni sushi” si è fratturato.

La situazione attuale si inserisce in un contesto economico difficile. Come il resto del mondo, la Russia è stata duramente colpita dalla crisi finanziaria del 2008. Tuttavia, è uscita in tempi relativamente rapidi dalla recessione grazie alla ripresa dei prezzi dell’energia, per quanto la sua crescita non sia tornata ai livelli precedenti. Gli investimenti in capitale fisso non si sono mai ripresi e il paese non ha mai attuato misure di stimolo su larga scala. Di conseguenza, l’energia è diventata ancora più importante, e ciò ha portato a una progressiva rinazionalizzazione dell’economia, con il settore energetico dominato da aziende statali o semistatali. In più, circostanza piuttosto rilevante per il «piccolo compromesso», il contributo alla crescita determinato dall’acquisto di beni di consumo ha raggiunto il picco post-crisi nel 2012. La verità è che molto prima ancora delle sanzioni contro la Russia annunciate in seguito all’intervento in Ucraina nel 2014, l’economia stava già andando verso la recessione.

Il putinismo del terzo mandato manifestava un viso più duro rispetto ai precedenti mandati anche prima del 2014, per quanto in questi anni il governo abbia lanciato programmi per cercare di integrare nella politica russa giovani funzionari non appartenenti alla classe media cosmopolita, formando così nuovi amministratori. La retorica dello Stato russo è diventata più militante e paranoica, mentre l’agenda economica non è cambiata granché, anche in seguito all’annessione della Crimea. Nonostante gli appelli alla «sostituzione delle importazioni», la politica economica della Russia e il contratto implicito con l’elite non sono cambiati. In realtà, Mosca è diventata un terreno di gioco ancora più grande per la classe media urbana33.

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Putin non ha scelto di passare dal sistema di economia liberale-illiberale a quello della mobilitazione. Dopotutto, perché avrebbe dovuto? Crisi dopo crisi, i tecnocrati russi sono rimasti fedeli al regime, gestendo peraltro efficacemente i momenti di difficoltà. Utilizzando metodi molto ortodossi, la Russia è riuscita a superare la tempesta del 2014, e dopo un’impennata di inflazione e panico, il rublo si è stabilizzato. La diminuzione del tasso di cambio si è rivelata vantaggiosa: il calo dei costi nominali implica che i pagamenti petroliferi denominati in valuta estera valgano di più per il bilancio russo. Nel 2022, i tecnocrati russi hanno adottato mezzi meno convenzionali ma sempre efficaci per stabilizzare l’economia di fronte alle sanzioni. In una certa misura, il contratto sociale persiste anche durante la guerra: Mosca non è più quella di una volta, ma è ancora possibile condurre una vita apolitica e materialistica. La mobilitazione ha in parte rotto questo guscio, causando la fuga di gran parte della classe media urbana, ma il suo impatto resta in limitato ai membri più poveri delle città e delle province, insistendo in particolare su coloro con un’esperienza militare precedente. Insomma, il presidente teme a giusto titolo gli effetti di una mobilitazione più ampia.

Eppure, il futuro è molto incerto. Certo, l’economia russa è sopravvissuta anche grazie alla capacità dell’establishment tecnocratico. Tuttavia, la vera ragione di questa capacità di resistenza sono le esportazioni energetiche, che sono rimaste forti e hanno garantito alle aziende di Stato di generare entrate fiscali costanti per alimentare le casse del bilancio pubblico. Questa situazione potrebbe tuttavia non durare: il 2023 potrebbe essere molto più duro del 2022 perché le sanzioni contro il settore energetico stanno iniziando a entrare in vigore e a produrre i loro effetti. In queste circostanze, gli strumenti liberali che hanno finora garantito la stabilità potrebbero non bastare. 

Dal punto di vista militare, è difficile guardare in avanti con ottimismo. Al momento della stesura di questo articolo, la nuova offensiva russa in Ucraina non ha ottenuto grandi risultati. Teoricamente, l’esercito dispone ancora di molte truppe mobilitate, ma la loro qualità è sconosciuta; le scorte di equipaggiamenti militari russi rimangono elevate, ma iniziano anche a mostrare alcuni segni di tensione. Riuscire a sostenere un esercito impegnato in una guerra prolungata, forse persino permanente, è una sfida molto grande per l’industria russa. Tenuto conto di queste circostanze, la tentazione di adottare una politica economica mobilizzatrice aumenterà.

La domanda che dobbiamo porci è se questo tipo di politica economica sia realizzabile. Anche l’industrializzazione shock dell’epoca stalinista richiedeva sia tecnologia straniera che un quadro di specialisti e ingegneri appena formati e ambiziosi. 

Indipendentemente dalla risposta, penso che dovremo convivere con la Russia per un po’ di tempo. Ciò significa che noi occidentali dobbiamo pensare a come rompere il circolo vizioso dei fattori persistenti della politica economica russa. Se vogliamo un giorno vedere una Russia che non rappresenti una minaccia per i suoi vicini e per l’ordine mondiale, questa deve essere integrata nell’economia globale in modo più profondo, evitando una situazione come quella degli ultimi decenni, in cui il paese era semplicemente un esportatore di risorse e un consumatore di beni. Ciò richiede molte cose che vanno oltre il quadro di questo articolo, tra cui un vero movimento operaio che formuli richieste politiche specifiche per avere una politica che non sia solo incentrata sulle questioni irrisolte dello Stato russo, indipendentemente da ciò che accade nel suo ex impero. La costruzione dello Stato russo deve prevedere istituzioni che funzionino bene e che promuovano una tenore di vita migliore e un’economia in crescita e diversificata, non un sistema che garantisca la sicurezza di un’élite al potere e dei confini della Russia. L’errore da evitare è pensare che se una Russia post-Putin e post-guerra seguirà una politica economica liberale, allora automaticamente questa eviterà di sostenere scopi illiberali.

Note
  1. Max Seddon and Polina Ivanova, “How Putin’s Technocrats Saved the Economy to Fight a War They Opposed,” Financial Times, December 16, 2022
  2. Sergey Y. Glazyev, “Noonomy as the Core of the Formation of New Technological Mode and Global Economic Order,” in Noonomy as the Core of the Formation of New Technological Mode and Global Economic Order, ed. S.D. Borodunov (London: Brill, 2022), 47–68; Anders Åslund, “Sergey Glazyev and the Revival of Soviet Economics,” Post-Soviet Affairs 29, no. 5 (September 1, 2013): 375–86.
  3.  Andreas Umland, The Glazyev Tapes: Getting to the Root of the Conflict in Ukraine, European Council on Foreign Relations ECFR (blog), November 1, 2016
  4. Russia Central Banker Wanted Out Over Ukraine, But Putin Said No, Bloomberg.Com, March 23, 2022
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  31. Dara Massicot, «What Russia Got Wrong», Foreign Affairs, 8 février 2023 ; Pavel Luzin, «Doomed to Failure — Russia’s Efforts to Restore Its Military Muscle», CEPA, 15 novembre 2022.
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