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Se, fino a poco tempo fa, gli storici pensavano che nella lingua greca primitiva la parola “Europa” significasse “sole che tramonta”, è ormai accettato che ciò che i greci chiamavano Europa era semplicemente “il continente”, uno spazio che non era una delle loro innumerevoli isole. Col tempo, dalle incursioni belliche alle occupazioni territoriali, questa definizione negativa si è arricchita di una connotazione positiva. Sotto l’influenza dei miti creati da Roma, il continente barbaro divenne sinonimo di civiltà, poiché era ormai fuso con un dominio civilizzato grazie all’intervento romano. La Grecia, invece, i cui eserciti avevano osato incendiare le mura di Troia, fu equiparata a un rozzo Altro, così che Enea, il principe troiano sconfitto e mitico fondatore di Roma, poté vendicarsi. Quando incontra suo padre Anchise nel regno dei morti, Enea sente il fantasma profetizzare la futura gloria imperiale di Roma.

L’interesse per la lettura dei miti può nascere dal perseguimento di almeno due obiettivi. Uno sarebbe quello di estrarre dalla storia tutti i significati che sembrerebbero giustificati da prove concrete, un obiettivo che potremmo chiamare “storico”, dove, nel caso del mito del toro ed Europa, si porterebbero alla luce i legami greci con la civiltà fenicia e la società minoica e le sue cerimonie di corrida. L’altro ci porterebbe a introdurre nel mito interpretazioni che non hanno alcuna giustificazione storica, ma che gli conferiscono un nuovo significato culturale, una tendenza che potremmo chiamare “narrativa”, nel senso del concetto scolastico di fictivus, che permette al poeta o al lettore di andare oltre l’esplorazione razionale della realtà. Un mito come Europa servirebbe come metafora per entrambi gli scopi.

Montesquieu definiva l’Europa come un unico stato composto da diverse province; unite sotto un unico nome, queste nazionalità “provinciali” scelsero collettivamente un mito che potesse definirle1. Il mito scelto autorizzava l’egemonia voluta dalle nazioni, poiché la selezione di un mito rispetto agli altri denotava una certa superiorità immaginaria, un’implicita prerogativa imperialista conferita dalla mitologia scelta, un desiderio di conservare i diritti antichi che giustificava i diritti successivi. Atena che offre l’ulivo alla città di Atene, il figlio di Venere che concepisce i piani per la futura città di Roma, Ulisse che fonda la città di Lisbona, tutti miti che implicitamente prestavano prerogative divine agli ateniesi, ai romani e ai portoghesi. Il mito di Europa presa dal toro ha contribuito a definire lo stato collettivo immaginato da Montesquieu come una società esistente sotto l’egida di una figura fondatrice, Europa, scelta inter mulieribus dal dio supremo dell’Olimpo.

Un mito è una storia che acquisisce, col tempo, un significato metaforico che trascende l’immaginazione individuale di qualsivoglia lettore. Che nasca da eventi storici, da sogni inconsci o da riflessioni coscienti, esso si riflette nell’immaginazione di una società nel presente, nel passato e nel futuro, finché non perde misteriosamente la sua forza e scompare. Alcuni miti hanno una vita più lunga dei loro pari, altri subiscono cambiamenti così profondi che diventano quasi irriconoscibili, in modo che è possibile definire il mito come il prodotto dell’immaginazione di un poeta, trasformato dall’immaginazione della società di cui è ospite in un emblema o metafora della società interessata.

I miti vengono trasformati, alterati, ripresi e trasformati in metafore secondo le necessità di un dato tempo e luogo.

alberto manguel

I miti vengono trasformati, alterati, ripresi e trasformati in metafore secondo le necessità di un dato tempo e luogo. Ma il mito, per quanto modificato, rimane nella sua essenza intrinsecamente lo stesso perché la sua formazione non è una fantasia arbitraria ma una manifestazione concreta di certe intuizioni individuali e sociali primordiali. I miti ci intrigano”, dice lo junghiano Craig Stephenson, “perché le loro narrazioni vanno più in profondità del semplice racconto di una bella storia. Sono sentiti come carichi di un significato che è allo stesso tempo elementare e condiviso. Che i miti vivano e muoiano, vadano e vengano, non è forse sorprendente poiché possono perdere la loro solidità e il loro significato in una particolare versione o contesto. Ma cosa succede esattamente quando un mito appare, scompare e poi riappare, ripetutamente, come se si opponesse ai tempi, come se protestasse il suo valore? Un mito non è solo dotato di senso, ma anche di vigore e determinazione?2

Nachleben di un mito

Anche se può mascherare il mito, l’intento fittizio non può mai eliminare la sua spina dorsale ancestrale, persino archetipica. La storia di Europa, probabilmente immaginata per la prima volta nell’età del bronzo, fu resa da Ovidio a Roma in una forma che la rese popolare3. Qualunque fosse la storia originale della ragazza e del toro, nella versione di Ovidio divenne la storia di una trasformazione, dalla vergine Europa alla partner sessuale di Zeus, dalla principessa alla regina e madre di re, dalla nativa di un paese alla migrante forzata, giustificandone così l’inclusione da parte di Ovidio nelle sue Metamorfosi, un libro che implicitamente affermava il trasferimento dell’immaginario greco a quello romano.

Il nome del mito varia a seconda della lingua in cui viene raccontato: ‘rape’ in inglese o ‘rapto‘ in spagnolo possono riferirsi alla violenza fisica, non solo al rapimento. Al contrario, il tedesco ‘Entführung‘ e il francese ‘enlèvement‘ non implicano necessariamente uno stupro. Ma quando c’è di mezzo Zeus, è così: si ritiene che il dio dell’Olimpo sia stato colpevole di almeno una mezza dozzina di stupri, la maggior parte dei quali ha avuto come risultato la successiva accettazione da parte della donna stuprata del frutto del suo crimine: i suoi figli sono diventati eroi, talvolta dotati di immortalità4. Nell’immaginario greco, lo stupro da parte di un dio era giudicato dalle sue conseguenze.

L’immaginazione poetica – Zeus ferito da Eros – evocava un atto erotico tanto violento quanto colpevole, che avrebbe portato alla denominazione di un intero continente. Le frecce di Eros possono scatenare una passione amorosa e legarla a un oggetto casuale, come dimostra il modo in cui la sua stessa madre soccombe al fascino di Adone. Nel caso in cui l’amato manchi di rispetto al suo amante, la vittima di Amore, può subire la punizione inflitta dal fratello di Eros, Anteros (come nella leggenda riportata da Cicerone nel De natura deorum)5. Le frecce dell’eros possono anche portare alla trasposizione dell’atto erotico al livello delle idee; nel caso di Europa, questa idea diventa quella di un’identità continentale.

© CTK via AP Images

Immaginazione e anima

I miti nascono nel silenzio. Ovidio, quando dichiara che le storie che sta per cantare sono nate dagli dei, spiega che in principio non c’era niente, niente se non la massa silenziosa della Natura, non plasmata né addomesticata. Fu in questa massa che il dio, “qualunque dio fosse”, soffiò e creò i venti. Il primo mito fu dunque quello della metamorfosi del mondo, del suo passaggio dal silenzio al linguaggio: non fu in principio, ma dopo il principio che nacque il Verbo: ricordiamo che fu in Fenicia, il regno natale di Europa, che nacque l’alfabeto.

Più esplicito di quello di Ovidio, il mito della creazione stabilito dalla Genesi afferma chiaramente che le parole sono venute dopo le cose che designano. Dopo aver formato Adamo dalla “polvere del suolo” e averlo posto in un giardino a est dell’Eden, Dio si mise a creare tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo e li portò ad Adamo per vedere come li avrebbe chiamati; e qualunque nome Adamo avesse dato a ogni creatura vivente, “tale era il suo nome”. Per secoli, gli studiosi si sono interrogati su questo curioso scambio. L’Eden era un luogo dove niente aveva un nome, e Adamo doveva inventare dei nomi per gli oggetti e le creature davanti a lui? O gli animali creati da Dio erano in realtà dotati di nomi che Adamo doveva in qualche modo conoscere, e che doveva dire ad alta voce, come un bambino che vede un cane o la luna per la prima volta? Il mito della Genesi da adito ad almeno due letture. Il secondo collega il linguaggio all’educazione e alla memoria; le implicazioni del primo sono ancora più ampie. 

Come nasce un mito?

Parte della difficoltà di una tale domanda è che il problema dell’immaginazione ignora il postulato scolastico che “Nihil est causa sui ipsum” (“Niente è causa di se stesso”). Il fatto di immaginare presuppone apparentemente la capacità di immaginare, una capacità che, nella nostra comprensione, si confonde con la capacità stessa di capire. Immaginare, capire, ragionare, riflettere, fare costruzioni mentali costituiscono un insieme di facoltà che riconosciamo come appartenenti al cervello umano, ma che, per essere comprese, sia individualmente che collettivamente, richiedono la determinazione, nel cervello, di un punto di vista, come un punto di partenza fisso come parte della domanda stessa. Porre una domanda presuppone molte definizioni nel vocabolario di quella domanda, creando così un circolo epistemologico vizioso; per ottenere una qualsiasi risposta, è necessario rompere questo circolo. 

Il fatto di immaginare presuppone apparentemente la capacità di immaginare, una capacità che, nella nostra comprensione, si confonde con la capacità stessa di capire.

alberto manguel

Alla fine degli anni ’60, Jorge Luis Borges pubblicò un racconto breve, “Il Manoscritto di Brodie“, in cui il narratore – un missionario scozzese – spiega i costumi di una tribù primitiva, gli Yahoo, chiamata cosí in omaggio ai Viaggi di Gulliver. Ci dice che una delle usanze della tribù è quella di individuare i poeti. “Sei o sette parole, di solito enigmatiche, vengono in mente a un uomo. Incapace di trattenersi, le declama a gran voce, in piedi al centro di un cerchio formato dagli stregoni e dagli altri membri del gruppo, stesi a terra. Se la poesia non li commuove, non succede nulla, ma se le parole del poeta li colpiscono, tutti si allontanano da lui, senza un suono, presi da un sacro timore. Percependo che lo spirito lo ha toccato, nessuno gli parlerà o lo guarderà più, nemmeno sua madre. Non è più un uomo ma un dio, e chiunque ha il diritto di ucciderlo”6.

Come i nostri lontani antenati riuniti intorno al fuoco nelle loro caverne, abbiamo sempre sentito il bisogno di mettere insieme “sei o sette parole” per comunicare le esperienze ineffabili che viviamo. E come i poeti di Yahoo, il più delle volte “non succede niente”. Le parole che pronunciamo non commuovono, non eccitano chi le ascolta, e nelle società che hanno iniziato a scrivere seimila anni fa, queste parole inerti, una volta scritte, vengono relegate nelle biblioteche dove aspettano in tranquilla speranza i loro redentori, nei quali potrebbero un giorno suscitare riconoscimento. La letteratura – l’arte – ha una pazienza infinita.

Come portatori di esperienze vicarie, le “sei o sette parole” offrono percorsi di identità che sono sia personali che specifici dei membri di un dato gruppo sociale. Può essere che, nonostante la preoccupazione per il cosmopolitismo e il desiderio di ignorare le frontiere, l’immaginazione sia per sua natura endemica. Non nel senso di una pretesa riduzionista per cui il significato esisterebbe esclusivamente al di fuori del cervello, ma piuttosto con l’ammissione che l’immaginazione è inconsciamente attratta da certi oggetti e riconosce in certi spazi un’oscura familiarità ancestrale che dà origine a ciò che il ricercatore americano Daniel Dennett descrive come “competenza senza comprensione”7. L’immaginazione non è solo una questione di gerarchie universali: coordinate spaziali e temporali, spettri cromatici, reazioni emotive o sessuali. Nella sua esperienza individuale, l’immaginazione sembra plasmata da legami più intimi – con un paesaggio, con una lingua, con una mitologia particolare – a tal punto che, privata di questi, viene a indebolirsi e ad appassire. La nostalgia, termine coniato nel 1688 dal medico alsaziano Johannes Hofer, è la classica manifestazione di queste perdite. Sotto quale costellazione di miti potremmo allora sognare?

Roberto Calasso, esplorando il significato sul lungo periodo dei miti come frutti dell’immaginazione, paragona il mito al ramo isolato di un enorme albero. Per capirlo”, dice, “bisogna avere una certa percezione di tutto l’albero e del gran numero di ramificazioni nascoste in esso. Ma l’albero non c’è più, delle asce affilate lo hanno abbattuto”.8

©PromoMadrid, Max Alexander

Il mito, una traduzione

I miti non sono solo specchi, ma gallerie di specchi. Quando vi entriamo, diventano sistemi di pensiero che si diramano nel mondo esterno, e tane di illuminazione che si radicano nell’inconscio. Li costruiamo per passare dallo stato di sogno a quello di veglia e dalla sensazione all’esperienza, e se scegliessimo di abbandonarli ci troveremmo, nel pieno significato del termine, senza conoscenza.

Le molteplici letture che sono state date di certi miti costituiscono la pietra di paragone a partire dalla quale i popoli europei si sono dati un personaggio tanto intuitivo quanto mutevole, una fonte comune così come un linguaggio condiviso. Attraverso le sue trasformazioni, traduzioni e migrazioni, ogni mito offre alle diverse società un ruolo associativo attraverso il tempo e lo spazio. Un mito con radici antiche può dispiegarsi nel presente se qualcosa nella sua essenza parla all’individuo o alla società che sceglie di entrare in dialogo con esso.

Un mito con radici antiche può dispiegarsi nel presente se qualcosa nella sua essenza parla all’individuo o alla società che sceglie di entrare in dialogo con esso.

alberto manguel

Il caso dell’identità europea è particolare. L’Europa è un concetto instabile, una configurazione geografica, demografica e politica le cui parti costitutive cambiano costantemente. L’Europa della Roma imperiale non era l’Europa di Dante; l’Europa di Erasmo e Cartesio non era l’Europa di Goethe. Secondo Voltaire, quando il nipote di Luigi XIV salì al trono di Spagna, il re, consapevole che la geografia è una costruzione immaginaria, esclamò: “Non ci sono più i Pirenei!”9. Oggi l’identità europea oscilla tra almeno due domande: la Turchia deve essere considerata uno stato europeo? E la Gran Bretagna deve poter abbandonare questa identità?

Ogni scrittore europeo è “schiavo del proprio battesimo”, diceva Julio Cortázar, parafrasando Rimbaud. “Che gli piaccia o no, la sua decisione di scrivere porta il peso di una tradizione immensa, persino spaventosa. Che la accetti o si ribelli ad essa, questa tradizione lo abita, è per lui un compagno familiare o un incubo”10. Oggi, questa tradizione si confronta con il mito di Europa in un contesto culturale che ha riconosciuto (ma certamente non eliminato) alcuni fatti, come: il debito da pagare dei colonizzatori alla luce del post-colonialismo, la conoscenza dell’uso dello stupro come arma di guerra, la vasta questione dei rifugiati e dei migranti economici. In particolare, lo status dell’Europa come identità è costantemente messo in discussione da nuove percezioni. Eppure, per certi versi, è stato in gran parte conservato. Già nel 1871, il poeta portoghese Antero de Quental metteva in guardia contro una servile sottomissione alla tradizione motivata dal desiderio di far parte di quella che chiamava “l’Europa colta”. “Rispettiamo la memoria dei nostri antenati, certo, ricordiamo piamente le loro gesta, ma non imitiamoli. Non dobbiamo essere, alla luce del diciannovesimo secolo, dei fantasmi nati da una vita presa in prestito dal sedicesimo. A questo spirito mortale, opponiamo con convinzione lo spirito di oggi”.11

© Li Dongping / Costfoto/Sipa USA

Sorge una domanda: nel contesto dell’antico mito di Europa e del toro innamorato di lei, cos’è questo “spirito di oggi”? Dove siamo ora, nel ventunesimo secolo, nella nostra lettura del mito e nel nostro uso come metafora? Umberto Eco ha notoriamente sostenuto che la lingua dell’Europa è la traduzione. Ma la traduzione da cosa, e in quale lingua? Goethe, per illustrare la disperazione di Faust di fronte all’inutilità della conoscenza accademica, rappresenta lo studioso impegnato nel tentativo di tradurre in tedesco il primo verso del Vangelo di Giovanni. Il punto cruciale della scena è il momento in cui Faust lotta per afferrare il significato della parola Wort, la traduzione di Lutero dell’antico Logos greco, un termine tradizionalmente tradotto in italiano come Verbo.

Dice Faust:

“È scritto: In principio era il Verbo”. Qui mi fermo già! Chi mi aiuterà a continuare? È impossibile per me valorizzare abbastanza questa parola, il Verbo! Devo tradurla diversamente, se lo Spirito si degna di illuminarmi. “È scritto: In principio era lo Spirito“! Riflettiamo bene su questa prima riga, e che la penna non sia troppo frettolosa! È davvero lo Spirito che crea e conserva tutto? Si dovrebbe leggere: “In principio era la forza!” Tuttavia, mentre lo scrivo, qualcosa mi dice che non devo fermarmi a questo significato. Lo spirito mi sta finalmente illuminando! L’ispirazione scende su di me, e scrivo, confortato: “In principio era l’azione!12

Questi tre significati sono inclusi nella parola Verbo e in qualsiasi operazione di traduzione. Sinn, lo spirito in tedesco, anima Zeus, così come anima Europa, in un caso portando Zeus a immaginare come rapire la ragazza, e nell’altro aiutandola a rendersi conto (troppo tardi) dello stratagemma ideato dal Dio; Kraft, la forza, che permette a Zeus di eseguire la sua volontà, è concessa anche a Europa violentata, dopo il suo arrivo sulla terraferma; Tat, l’azione, è la ricapitolazione del mito, l’esecuzione di un rapimento come metafora della migrazione, dell’arrivo e della fondazione, ogni cosa che diventa un’altra per il fatto stesso del suo movimento. Rapimento, metamorfosi, metafora, traduzione: tutti termini che denotano il passaggio da una condizione di esistenza a un’altra, che Nietzsche definisce, riferendosi all’Europa, come “uno stato di divenire”13. In questo senso, il mito di Europa è di per sé la metafora perfetta della storia che pretende di raccontare, un mito che ha come soggetto e oggetto la traduzione.

Ogni traduzione è un’affermazione. Tradurre significa trasportare da un insieme di segni semantici a un altro l’identità di un testo per confermare e ristabilire la sua identità originale in una forma diversa e tuttavia equivalente; un modesto atto di transustanziazione che converte la sostanza del testo in un gesto tanto miracoloso quanto concreto, attraverso il quale si afferma la validità del linguaggio stesso. “Mi sembra”, dice Don Chisciotte, “che tradurre da una lingua all’altra, quando non è dal greco o dal latino, le regine delle lingue, è come guardare il rovescio di un arazzo fiammingo: si possono ancora distinguere le figure, ma sono state sfocate da un mucchio di fili, così che hanno perso la nitidezza e la brillantezza che avevano sul davanti”14. Una traduzione è dunque un’affermazione appesantita dall’evidenza della trasformazione che ha subito, consapevole di aver perso la torsione dell’originale ma sapendo che, qualunque siano i fili apparenti, riconosce ancora il suo luogo d’origine. Europa rimane, dall’inizio alla fine, quello che definisce il regno fenicio abbandonato. O, per usare le parole di Dante: il luogo “nel cual si fece Europa dolce carco”15.

Ogni traduzione è un’affermazione. Tradurre significa trasportare da un insieme di segni semantici a un altro l’identità di un testo per confermare e ristabilire la sua identità originale in una forma diversa e tuttavia equivalente.

alberto manguel

La traduzione è anche un dialogo. Può tollerare, da parte del traduttore, una reazione critica al testo originale, a volte a costo della tentazione riduttiva di “sanitizzare” il testo originale, come nel caso di quei traduttori dal greco e dal latino che, nel XIX secolo, si sono hanno deciso di trasformare gli amanti dello stesso sesso in coppie eterosessuali16; a volte procedevano a “nobilitazioni” stilistiche, come Arno Schmidt che traduceva in tedesco i pomposi romanzi di Edward Bulwer-Lytton; altre volte ancora introducevano interventi propri nel testo tradotto. Sant’Agostino, in un testo sulla doppia natura dell’anima, invoca il diritto o l’obbligo di “acoltare l’altra parte”, audi partem alteram17, un principio giuridico che non è stato adottato dal Consiglio d’Europa fino al 2004, diciassette secoli dopo Agostino, in una raccomandazione ufficiale che definiva questo diritto come la possibilità per tutti di “reagire a qualsiasi informazione dei media che presenti fatti inesatti […] e incida sui loro diritti personali”18. In un libro intitolato Involuntary Dislocation, Renos K. Papadopoulos sostiene che l’altro lato “può essere espresso solo in un linguaggio capace di rendere le ambiguità, i silenzi e i dilemmi, così come l’algos (dolore) della nostalgia di un nostos [nostalgia] sconosciuto, nel quadro di uno spazio-tempo sfuggente”. Non sarebbe quindi una stravaganza chiamare questo “altro linguaggio” poetico. E Papadopoulos conclude: “L'”altro linguaggio” è quello che ci si sforza di articolare quando si è mossi nel profondo del proprio essere da gravi forme di avversità”19.

Ora mi avvicino alla fine. Lungo una strada lunga e tortuosa, ho cercato di esplorare la spinosa questione dell’identità dell’Europa. Partendo dal mito greco, mi sono chiesto come una storia diventi un mito, e come un mito recuperato possa diventare la metafora di un’identità, come questo processo abbia luogo e si svolga nella mente, e come l’immaginazione lavori per creare narrazioni, tenendo conto di certi indizi fisiologici e intuizioni poetiche. E, infine, chiedendomi se la nozione di traduzione non possa aiutare a spiegare almeno una parte del processo, ho raggiunto un punto che probabilmente non è una conclusione. Ma mi consola Flaubert, che diceva che “la conclusione, il più delle volte, mi sembra un atto di stupidità”.20

Poco dopo il suo esilio forzato nel 1302, forse portando con sé solo alcune bozze del poema che stava componendo nella sua lingua madre, Dante cercò di definire l’Europa, quel terzo del mondo tripartito di cui gli stati italiani, e la sua amata Firenze in particolare, facevano parte. A questo scopo, Dante usa una parola che, secoli dopo, James Joyce, avido lettore di Dante, sceglierà per la sua Beatriciana Molly: “Yes“.

“In tutta quella regione che si estende dalla foce del Danubio (o Palude Meotide) fino alle coste occidentali dell’Inghilterra”, scrive Dante nel De vulgari eloquentia, “che è delimitata dai confini degli italiani e dei francesi e dall’oceano, prevaleva una sola lingua, anche se poi fu spezzata in molti volgari da slavi, ungheresi, teutoni, sassoni, inglesi e molte altre nazioni. Una sola traccia della loro origine comune rimane in quasi tutte, e cioè che in quasi tutte le nazioni sopra elencate per rispondere in modo affermativo si dice 21. Il mito di Europa inizia con un rapimento, ma finisce con un’affermazione, la traduzione da parte di Europa del desiderio di stupro di Zeus nel proprio desiderio di fondazione, una traduzione del negativo in positivo, una traduzione di un No in un .

Note
  1. Montesquieu, Réflexions sur la monarchie universelle en Europe [1734] Introduction et notes par Michel Porret (Genève, Droz, 2000)
  2. Craig Stephenson, Anteros: A Forgotten Myth (London & New York, Routledge, 2012)
  3. Ovidio, le Metamorfosi, II : 846-875
  4. Tra le donne sedotte da Zeus si contano Europa, Antiope, Callisto, Alcmene, Danaë ed Egina. Anche il giovane Ganimede fu vittima degli appetiti di Zeus.
  5. Cf. Craig Stephenson, Anteros: A Forgotten Myth, 7
  6. Jorge Luis Borges, Il manoscritto di Brodie, Adelphi, 1999
  7. Daniel C. Dennett, From Bacteria to Bach and Back : The Evolution of Minds (New York, W. W. Norton & Co., 2017) 406
  8. « Un mito è una biforcazione in un ramo di un immenso albero. Per capirlo occorre avere una qualche percezione dell’intero albero e di un alto numero delle biforcazioni che vi si celano. Quell’albero non c’è più da lungo tempo, asce ben affilate l’hanno abbattuto. » Roberto Calasso, L’ardore, Milano, Adelphi, 2010, pp. 450-451
  9. Voltaire, Le siècle de Louis XIV [1753]
  10. « Todo escritor europeo es “esclavo de su bautismo”si cabe parafrasear a Rimbaud ; lo quiera o no, su decisión de escribir comporta cargar con una inmensa y casi pavorosa tradición; la acepte o luche contra ella, esa tradición lo habita, es su familiar o su íncubo. » Julio Cortázar, La vuelta al día en ochenta mundos, vol. 2 (Mexico, Siglo XXI, 1967) 54
  11.  Antero de Quental, Causas da decadência dos povos peninsulares nos trés últimos séculos: Discurso pronunciado na noite de 27 de maio na Sala do Casino Lisbonense, Préfacio de Eduardo Lourenço (Lisboa, Tinta-da-china, 2008) 93
  12. Goethe, Faust I, Atto I, scena III, VV. 1224-1237
  13.  Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Zur Genealogie der Moral, 242, edited by Giorgio Colli and Mazzino Montinari (München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 2002)
  14. Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte della Mancia, Seconda parte, cap. LXII
  15. Paradiso, XXVII:84
  16. Cf. John Boswell, Christianity, Social Tolerance, and Homsexuality : Gay People in Western Europe from the Beginning of the Christian Era to the Fourteenth Century (Chicago, University of Chicago Press, 1982)
  17. Sant’Agostino, De Duabus Animabus, XlV:II
  18.  Recommendation 16.1 of the Committee of Ministers of the Council of Europe to member states on the right of reply in the new media environment (Adopted by the Committee of Ministers on 15 December 2004 at the 909th meeting of the Ministers’ Deputies)
  19. Renos K. Papadopoulos, Involuntary Dislocation : Home, Trauma, Resilience, and Adversity-Activated Development (Abingdon & New York, Routledge, 2021) 294
  20. Gustave Flaubert, « Lettre à Louise Colet du 31 mars 1853 » in Correspondance, II (Paris, Gallimard, La Pléiade, 1980) 295
  21. De vulgari eloquentia 1.8.
Credits
Questo testo è un estratto della conferenza inaugurale di Alberto Manguel, tenuta il 30 settembre 2021, che inaugura la cattedra annuale L'invention de l'Europe par les langues et les cultures, creata in collaborazione con il Ministero della Cultura francese (Délégation générale à la langue française et aux langues de France), e pubblicata con il titolo Europe: le mythe comme métaphore (Europa: il mito come metafora), co-pubblicata dal Collège de France e Fayard, in uscita il 16 febbraio in libreria e in digitale sul portale OpenEdition Books: https://books.openedition.org/cdf/156.