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Per decenni la parola “geopolitica” non ha avuto una buona reputazione in Germania. Storicamente i motivi sono noti e profondamente comprensibili. Il rifiuto di una prospettiva geopolitica è stato a lungo alla base dell’approccio ultra-economicista di Berlino (e Francoforte) nel guardare oltre ai propri confini nazionali. Oggi, tuttavia, un paese può decidere di non occuparsi di geopolitica, ma alla fine è la geopolitica che si occuperà di esso.
Com’è noto, seppur avanzando di crisi in crisi, i 16 anni del cancellierato Merkel sono stati quelli di un contenimento ragionato degli effetti degli shock esterni sulla stabilità tedesca. Una consapevole e continua serie di decelerazioni rispetto all’accelerazione dei mutamenti globali. L’arrivo del primo governo post-merkeliano è quindi un passaggio significativo. Il Koalitionsvertrag – il contratto di coalizione Semaforo tra SPD, Verdi e FDP che ha fatto nascere il nuovo governo Scholz – è il primo elemento per analizzare alcuni aspetti dell’approccio alla politica estera del nuovo esecutivo. Quello che emerge, soprattutto dal capitolo del contratto intitolato “Responsabilità della Germania per l’Europa e il mondo” , è il tentativo di segnare un cambio di passo, ma senza abbandonare ancora la proverbiale cautela merkeliana. Rimangono aperti numerosi interrogativi, che avranno probabilmente risposte reattive e non programmatiche: una consapevole e tattica navigazione a vista.
1. Unione Europea
Il primo politico tedesco a parlare di nuovo, davvero, di “geopolitica”, è stata Ursula von der Leyen, che lo ha fatto nel 2019 nella veste di Presidente della Commissione Europea. Si può riassumere metaforicamente che per la cultura democratico-liberale tedesca occuparsi di geopolitica è infatti solo possibile proiettandosi nell’UE. Per la Germania non esiste infatti un’alternativa geopolitica al di fuori dell’UE che sia sicuramente democratica.
Nel contratto di governo SPD-Verdi-FDP viene confermato ciò che è già noto: “Gli sconvolgimenti che la Germania deve affrontare non possono essere superati solo a livello nazionale.” Seguono poi diverse dichiarazioni d’intenti che mettono insieme i diversi europeismi dei tre partiti. Dichiarazioni portatrici di un europeismo composito ma incontrovertibile, che punta addirittura a “un ulteriore sviluppo (dell’UE) per portare a uno Stato Federale Europeo”.
Nei paesi dell’Europa meridionale la scelta di un ministro delle Finanze tedesco come il leader FDP Lindner è stata accolta con preoccupazione. Va però notato che anche il rigorismo della FDP è in evoluzione: l’aperto smarcamento di Berlino dai frugali nella primavera del 2020, che ha portato alla nascita del Next Generation EU, resta un passaggio epocale per qualunque governo tedesco. Dinamica resa ancora più evidente dal fatto che un protagonista di quello smarcamento, l’allora ministro delle Finanze Olaf Scholz, sarà ora Cancelliere.
Questo, al tempo stesso, non significa certo che il prossimo esecutivo correrà verso forme di condivisione a tempo indeterminato dei destini finanziari UE. Anche qui il governo Scholz si presenta come cauta evoluzione rispetto alla linea Merkel. Sul Next Generation EU nel contratto di coalizione è scritto che “il Next Generation EU (NGEU) è uno strumento limitato nel tempo e nell’importo, e noi vogliamo che il programma di ricostruzione porti ad una ripresa rapida e lungimirante in tutta Europa dopo la crisi. Questo è anche nell’interesse fondamentale della Germania. Gli obiettivi qualitativi e le misure di riforma concordati nel quadro del NGEU devono essere rispettati. Faremo in modo che i rimborsi della NGEU non portino a tagli nei programmi e nei fondi dell’UE.” Tutto, appunto, viene lasciato tatticamente molto aperto: nessuno slancio verso un consolidamento del modello, ma nemmeno particolari chiusure rispetto a una sua evoluzione.
Altrettanto importante è notare come, nel contratto di coalizione, lo stesso NGEU venga però vincolato al rispetto dello “stato di diritto”, confermando che per Berlino conflittualità come quelle con Varsavia e Budapest continueranno a essere portate sul tavolo. Più complessivamente, le conflittualità interne all’UE vogliono però essere rese meno paralizzanti tramite la nota introduzione della maggioranza qualificata per le decisioni europee in politica estera. Passaggio ritenuto ormai obbligato per rendere l’Unione meno inefficace e permettere l’obiettivo che il contratto di coalizione riassume così: “Vogliamo aumentare la sovranità strategica dell’Unione Europea, allineando la nostra politica estera, di sicurezza, di sviluppo e commerciale sulla base dei valori e degli interessi comuni europei.” Sovranità strategica tanto cara a Parigi, ma che il prossimo esecutivo di Berlino continua tuttavia a citare in maniera tanto convintamente diffusa quanto vaga. Gli europeisti possono essere contenti delle intenzioni dichiarate dal nuovo governo tedesco, ma le incognite restano molte e la domanda principale è se il governo Scholz non finirà per muoversi in UE in perfetto stile merkeliano: soltanto reagendo di crisi in crisi.
2. Green Deal
Annalena Baerbock non sarà Kanzlerin. Oggi questo elemento è scontato, ma non lo era la scorsa primavera, quando tanti pensavano o scommettevano che l’onda verde tedesca sarebbe stata inarrestabile. Malgrado i Grünen non abbiano sfondato alle elezioni, hanno però vinto sul piano tattico: il contratto di governo è ambizioso sul dossier green, che non è più nemmeno un dossier, ma semplicemente l’intera grammatica della programmazione politica del futuro.
L’ambientalismo militante non è in realtà soddisfatto del contratto del governo Scholz: l’uscita dal carbone nel 2030 rimane da attuare “idealmente”, mentre soprattutto sul tema automotive e trasporti i Verdi hanno concesso molto. Basta tuttavia guardare alla nascita del super-ministero di Economia e Clima, che sarà guidato dal verde Robert Habeck e avrà voce in capitolo su molteplici aspetti, per comprendere una certa soddisfazione dei Grünen per l’esito dell’accordo di coalizione.
Annalena Baerbock, invece, sarà ministra degli Esteri, concretizzando il primo passo di una politica estera che il contratto di governo presenta come “femminista”. La svolta ecologica e l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi l’aumento della temperatura del pianeta rispetto al periodo pre-industriale, del resto, sono sempre più apertamente una faccenda geopolitica. Nella sua prima intervista da ministra in pectore, Baerbock ha dichiarato: “È chiaro che il percorso verso gli 1,5 gradi può essere raggiunto solo se i partner europei e internazionali si uniscono. Ecco perché abbiamo bisogno di un elemento attivo di politica estera per affrontare il cambiamento climatico. Le tecnologie che sviluppiamo in Germania nei prossimi anni devono essere esportate nel mondo.” Baerbock avrà quindi la responsabilità del successo o del fallimento di una politica estera che vuole per la prima volta essere completamente innervata dall’agenda ecologica. Il noto atlantismo dei Verdi spingerà certamente verso un asse geopolitico-verde con Washington, mentre specifici attriti con altri player globali potranno portare il segno di un’insistenza tedesca su nuovi standard produttivi per i beni d’importazione. La domanda è fino a che punto questa insistenza potrà essere armonizzata con le dinamiche di import-export che restano irrinunciabili per il benessere (e la pace sociale interna) della Germania.
Mentre in politica interna gli investimenti green saranno potenzialmente tenuti fuori dal ritorno nel 2023 della Schuldenbremse (il celebre freno al debito), in UE ci si chiede ovviamente come e quanto qualcosa di simile potrà essere replicato in merito al Patto di stabilità. L’esecutivo Scholz sembra possibilista su una nuova flessibilità del Patto per quanto riguarda proprio investimenti green e digitali. La domanda diventa: i funzionari tedeschi passeranno dal chiedere il rigore dei conti dei partner europei a chiedere severi controlli su quanto siano davvero ecologicamente sostenibili i progetti d’investimento dei paesi più indebitati? Vale a dire: c’è la possibilità di un passaggio tedesco dall’egemonia del rigore finanziario a quella del rigore ecologico? L’interrogativo resta aperto.
Una cosa è invece certa: il destino del Green Deal europeo è innanzitutto legato al successo della sua implementazione nella stessa Germania. Se la grande trasformazione produttiva-energetica prevista in Germania funzionerà – attuando la epocale elettrificazione del settore automotive e giungendo alla produzione di energia solo da fonti rinnovabili (senza ritorno al nucleare) – il modello tedesco potrà riaffermarsi come eco-locomotiva europea. Se la grande trasformazione avrà invece troppi intoppi proprio in Germania, la compattezza del Green Deal in UE sarà molto più a rischio.
3. Cina
Il dossier Cina resta una pietra angolare del futuro geopolitico tedesco. La Cina è da 5 anni il primo partner nell’aggregato import-export della Germania. Nel 2020 lo scambio tra le due economie è stato di 212,9 miliardi di €. Più di 1/3 del volume di scambio UE-Cina appartiene alla Germania. Al tempo stesso, Washington pretende e pretenderà sempre più spesso che Berlino si posizioni di fronte agli attriti americani con Pechino.
A fine 2020 Merkel ha spinto per un’europeizzazione di uno strutturamento dei rapporti con la Cina tramite il CAI – Comprehensive Agreement on Investment. L’accordo è stato però affondato a Bruxelles nei mesi successivi: passaggio che ha segnato probabilmente la vera fine del merkelismo. Poche settimane fa proprio la (ex) Kanzlerin ha affermato: “Forse all’inizio eravamo un po’ troppo ingenui nel nostro approccio ad alcune partnership di cooperazione con la Cina. Al giorno d’oggi valutiamo giustamente con più attenzione”. Una dichiarazione che è stata anche l’ammissione da parte di Merkel che il vecchio approccio non funzionerà più e che il nuovo governo tedesco si comporterà forse diversamente. Ma diversamente come? E’ possibile, con economie ormai così compenetrate, che le relazioni tedesche-cinesi diventino atlantiste in senso più militante?
Nel nuovo contratto di coalizione del governo Semaforo si leggono passaggi che, almeno a parole, segnano un cambio di ritmo. Dopo la dichiarazione di un mantra tanto noto quanto effettivamente preciso, “Vogliamo e dobbiamo modellare le nostre relazioni con la Cina nelle dimensioni del partenariato, della concorrenza e della rivalità di sistema.”, viene subito aggiunto un riferimento ai diritti umani (intesi anche come vera e propria grammatica di competizione tra modelli): “Sulla base dei diritti umani e del diritto internazionale applicabile, cerchiamo di cooperare con la Cina ovunque sia possibile”. Parole che rispecchiano sicuramente le posizioni di Verdi e FDP, da sempre molto più critici verso il governo di Pechino rispetto alla ex Große Koalition di CDU e SPD. A questo, nel testo, si aggiunge che: “Cerchiamo uno stretto coordinamento transatlantico sulla politica sulla Cina e cerchiamo la cooperazione con paesi che la pensano come noi per ridurre le dipendenze strategiche.” Segue poi un altro passaggio cruciale: “Nel quadro della politica comune dell’UE sulla Cina, sosteniamo la partecipazione pertinente della democratica Taiwan nelle organizzazioni internazionali. Affrontiamo chiaramente le violazioni dei diritti umani della Cina, specialmente nello Xinjiang. Il principio di “un paese, due sistemi” deve essere riaffermato a Hong Kong”. Parole che sicuramente accontentano chi ha sempre considerato Angela Merkel troppo debole e permissiva con Pechino e scommettono che Annalena Baerbock rappresenti un’evoluzione atlantista molto più chiara.
Anche questa questione, come detto, resta però aperta: l’interrogativo è quanto e a che ritmo l’industria tedesca saprà adattarsi a uno scenario di maggiore attrito con la Cina. Il mondo produttivo tedesco può essere d’accordo rispetto a un cambio di paradigma strategico verso oriente, ma potrebbe frenare svolte troppo brusche ed eccessivamente penalizzanti sul piano economico.
4. Russia
Si è abbastanza diffusa l’idea che, proprio per focalizzarsi al meglio sulla Cina, gli USA siano pronti a lasciare un po’ più spazio di manovra ai governi tedeschi sul dossier Russia. Le concessioni di Biden sul Nord Stream 2 della scorsa estate avrebbero confermato questa tendenza. Ma la situazione è ben più complessa. Washington non è compatta su un passaggio del genere e, soprattutto, a Berlino si teme che avere spazio di manovra con Mosca significhi anche dover gestire sempre più in solitudine un dossier troppo pericoloso. Eventualità per cui la Germania, attualmente, non è ancora assolutamente pronta. Da un lato Berlino vuole mantenere il rapporto energetico-commerciale con Mosca, dall’altro deve organizzare proprio la difficile mutazione di questa relazione. Nello svilupparsi della Energiewende (svolta energetica) tedesca, il rifornimento russo di gas e petrolio verso la Germania sarà prima brevemente destinato ad aumentare e poi, teoricamente, a scomparire velocemente. Una dinamica che potrà portare particolari instabilità.
Nel contratto di coalizione del nuovo governo Scholz viene citata la usuale e geopoliticamente irrinunciabile necessità tedesca di avere una dialettica prevedibile con la Russia: “Conosciamo l’importanza di relazioni sostanziali e stabili e continuiamo ad aspirare a esse. Siamo pronti per un dialogo costruttivo. Affrontiamo gli interessi di entrambe le parti sulla base dei principi del diritto internazionale, dei diritti umani e dell’ordine di pace europeo, per il quale anche la Russia si è impegnata.” A questo passaggio segue però il ricordo degli “interessi dei nostri partner nell’Europa centrale e orientale”.
Sul dossier Russia, così come su quello cinese, nel contratto di coalizione si può notare l’impronta di Verdi e FDP, da sempre più ostili al Cremlino, ma anche il consolidamento del nuovo corso della SPD, che resta comunque aperta a Mosca ma non è certo più quella dei tempi di Gerhard Schröder. Nel contratto di coalizione viene fatta diretta menzione dell’Ucraina: “Chiediamo la fine immediata dei tentativi di destabilizzare l’Ucraina, della violenza nell’Ucraina orientale e dell’annessione della Crimea in violazione del diritto internazionale. Il percorso verso una risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina orientale e la revoca delle relative sanzioni dipende dalla piena attuazione degli accordi di Minsk.” Il testo critica poi anche “la restrizione globale delle libertà civili e democratiche” in Russia e passa poi a dichiarare solidarietà con l’opposizione a Lukashenko in Bielorussia: “Siamo al fianco del popolo bielorusso e sosteniamo il suo desiderio di nuove elezioni, democrazia, libertà e stato di diritto e chiediamo il rilascio incondizionato di tutti i prigionieri politici. L’interferenza russa a favore di Lukashenko è inaccettabile.”
Proprio gli eventi di queste settimane e di queste ore dimostrano quanto, sul piano pratico, Berlino (e Bruxelles) non siano in verità sicure di come muoversi in caso di nuove crisi in Europa centro-orientale. La domanda è se questa incertezza verrà ereditata immediatamente e automaticamente anche dal governo Scholz. Le possibilità che ciò avvenga sono molte.
L’uso e abuso dei corpi e delle speranze di persone migranti da parte di Lukashenko sul confine con la Polonia è stato abilmente e attivamente incuneato nelle contraddizioni dell’Unione Europea e delle relazioni tra paesi come Germania e Polonia. L’Unione Europea ha deciso di non dare di fatto asilo alle persone che lo hanno richiesto sul confine polacco. L’obiettivo di Bruxelles è stato per ora quello di non approfondire il conflitto già in corso con il governo di Varsavia e, soprattutto, non riconoscere ufficialmente Lukashenko come presidente o legittimo interlocutore. Il risultato è un’emergenza in cui la sovrapposizione tra UE e NATO si è palesata in nuovi livelli di complessità.
5. Dossier militare
Le sovrapposizioni fra politica estera UE e potenziale azione NATO è prevista dalle relazioni tra le due realtà sovranazionali. Proprio la Germania non vuole scommettere su eccessivi avventurismi in cui nuovi framework militari UE siano disallineati delle traiettorie dell’alleanza atlantica. Al tempo stesso la Germania, incluso questo nuovo governo, non sembrano nemmeno avere ancora le idee chiare su come prepararsi a una maggiore autonomia internamente alla NATO sul medio-lungo periodo. Autonomia di cui parlò proprio Merkel (“I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti, come ho sperimentato nei giorni scorsi… Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani”) durante la presidenza Trump e che ora, invece, sembra essere stata dimenticata per il semplice arrivo dell’amministrazione Biden. Calcolo perlomeno strano, considerando quanto non sia da escludere il ritorno nel 2024 di una presidenza Trump o di un simile candidato del GOP.
Nel contratto di coalizione SPD-Verdi-FDP il tanto discusso principio della spesa del 2% di PIL per l’alleanza NATO viene sciolto in un programma di spesa del 3% del PIL in “azioni internazionali”, rispettando tendenzialmente gli impegni NATO ma anche cercando di allargare il significato stesso di “impegno”.
In qualche modo ambiguo è anche l’atteggiamento iniziale del nuovo governo Scholz sulla questione del nuclear sharing, cioè la condivisione nucleare NATO per cui la Germania (così come Italia, Belgio, Paesi Bassi e Turchia) mantengono sul proprio territorio armi nucleari dell’esercito USA e, soprattutto, sono pronte a renderle utilizzabili e operative. Vettori delle armi nucleari in Germania sarebbero attualmente i caccia Tornado, che però tutti considerano obsoleti e già la ministra della Difesa Kramp-Karrenbauer ha programmato di sostituire con nuovi F-18 di fabbricazione statunitense. Su questo punto nel nuovo contratto di coalizione del governo Semaforo è ora scritto: “All’inizio della ventesima legislatura procureremo un sistema successore per l’aereo da combattimento Tornado. Accompagneremo il processo di approvvigionamento e di certificazione in modo obiettivo e coscienzioso in merito alla condivisione nucleare della Germania.” Il governo Scholz si impegna quindi a continuare il ruolo tedesco nel nuclear sharing.
A pagina 145 del contratto di coalizione, tuttavia, è anche scritto: “Abbiamo bisogno di un’offensiva politica di disarmo e vogliamo assumere un ruolo di primo piano nel rafforzamento delle iniziative internazionali di disarmo e dei regimi di non proliferazione”. Azione il cui obiettivo è “un mondo senza armi nucleari, e quindi una Germania senza armi nucleari”. Nel contratto di coalizione si legge anche: “Alla luce dei risultati della conferenza di revisione del TNP e in stretta consultazione con i nostri alleati, accompagneremo costruttivamente come osservatore (non come membro) la conferenza dei membri del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) e sosterremo in modo costruttivo l’intenzione del trattato.”
L’osservazione esterna della Germania della conferenza dei membri del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, a cui non partecipa direttamente alcuno stato NATO, sarebbe un passaggio certamente significativo, considerando che, appunto, la Germania è anche uno dei 5 paesi NATO in cui è attivo il nuclear sharing.
Se il passaggio del contratto di coalizione sulla condivisione nucleare e sulla sostituzione dei Tornado per trasportare bombe nucleari USA non entra immediatamente in conflitto con una partecipazione da osservatori al TPNW, è chiaro che, sul medio-lungo periodo, le due cose non vanno certo nella stessa direzione (per usare un eufemismo).
Per ora il testo dell’accordo del nuovo governo tedesco sembra contenere simili contraddizioni perché è il frutto del compromesso non solo tra 3 partiti diversi ma anche tra le basi di SPD e Verdi (più di sinistra e anti-militariste) e le loro leadership più orientate alla realpolitik.
Complessivamente, il difficile dossier militare suggerisce che anche il nuovo governo Scholz dovrà gestire una Germania che vuole forse abbandonare le illusioni di potersi nascondere dietro al ruolo di Grande Svizzera, ma che non vuole ugualmente rinunciare all’impegno per relazioni internazionali multilaterali in cui le conflittualità vadano risolte con la diplomazia e la ricerca di soluzioni commerciali win-win per entrambe le parti. Desiderio più che nobile che rispecchia i principi proclamati dalla stessa Unione Europea, ma che rischia di entrare sempre più spesso in un contrasto disseminato con un mondo multipolare i cui player (grandi e medi, alleati o meno) non sembrano assolutamente orientati verso forme di idealismo.