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Lo scontento sociale si diffonde nei paesi in via di sviluppo, ma non solo. La crisi del COVID-19 si sta trasformando da crisi sanitaria, sociale ed economica a crisi politica. Tuttavia, lo scontento sottostante alla pandemia non è esclusivamente frutto di quest’ultima; piuttosto, dell’onda lunga generata dalla crescente instabilità politica e dalle fratture sociali messe a nudo sin dalla crisi finanziaria del 2008-09, all’origine della sequela di proteste violente del 2019. In questo articolo, sosteniamo che la risposta allo scontento dovrebbe essere priorità dei governi nazionali, ma anche delle istituzioni multilaterali, che devono urgentemente rafforzare e trasformare la cooperazione internazionale, assolutamente necessaria per affrontare le minacce globali.
Lo spettro dello scontento comprende un’ampia gamma di dissidenti, ognuno insoddisfatto a modo suo. In prima approssimazione, possiamo definire scontento come il risultato di una frustrazione collettiva nata da aspettative non soddisfatte, vulnerabilità e ingiustizie – sentimenti facili da capire ma difficili da misurare. Inoltre, i sintomi dello scontento si manifestano in modo più o meno palese: dalle proteste nelle piazze, che costituiscono la sua manifestazione più ovvia, al calo dell’affluenza alle urne, della fiducia nei governi e del sostegno alla democrazia. Sintomi che suggeriscono la necessità di un cambiamento profondo dei sistemi che governano le società. L’ampia gamma di dissidenti diventa dunque difficile da confrontare e da classificare, data la sua eterogeneità: da un lato, dei rumorosi rivoluzionari senza rivoluzione; dall’altro degli invisibili senza legami, silenziosamente assordanti.
L’aumento dello scontento non è un fenomeno fugace né marginale. Certo, si potrebbe obiettare che una certa “turbolenza” sia una caratteristica ricorrente della società, soprattutto nei periodi difficili. Tuttavia, ciò che è particolarmente problematico per quel che riguarda l’odierno scontento, è che la sua natura e magnitudo confondono e perturbano i tradizionali meccanismi utilizzati per affrontare le tensioni sociali, generando così un circolo vizioso che, intensificando le sfide, indebolisce le società. In questo articolo, esamineremo come lo scontento di oggi laceri la coesione sociale e prosciughi il consenso necessario per fronteggiare le disfunzioni che lo hanno generato. Esporremo in seguito diverse opzioni volte a ravvivare l’azione collettiva, sia al livello nazionale che internazionale; ben consapevoli che le cause, le conseguenze e la cacofonia dello scontento riecheggiano in uno dei peggiori momenti possibili1.
Dal lamento alla protesta
Eventi minori rivelano profonde frustrazioni
Il Cile è emblematico non solo per il discernimento delle complessità dello scontento, ma anche per comprenderne il potenziale. Un aumento del costo del biglietto della metropolitana nella capitale di Santiago nell’ottobre 2019 ha scatenato proteste a livello nazionale, che si sono poi diffuse a macchia d’olio in altri paesi latinoamericani. I manifestanti non hanno solo richiesto un miglioramento radicale nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione e nel sistema pensionistico, ma anche un nuovo sistema di governo per la società cilena. “Non sono 30 pesos, sono 30 anni” hanno proclamato, riferendosi alla costituzione dell’era Pinochet che, a detta loro, ha bloccato il paese in un modello economico e politico incapace di garantire ai cittadini ciò che volevano. Così, nel 2021/2022, sarà redatta una nuova costituzione: e non dai politici dell’ancien regime, ma da un’assemblea composta in gran parte da outsiders.
La discrepanza tra causa ed effetto mostra come l’interazione fra eventi attuali, rancori latenti e ingiustizie radicate stia producendo risultati che non corrispondono direttamente né sono proporzionali alla scintilla iniziale. In Cile e altrove sembra esserci una crescente convinzione che le persone elette ed i partiti che esse rappresentano, così come gli stessi sistemi economici e politici in cui operano le società, non siano più in grado di dare i risultati attesi dai cittadini.
Ostacoli alla percezione del cambiamento
Comprendere le aspettative e le vulnerabilità della gente è fondamentale per poter trattare le loro frustrazioni2. Ciononostante, i quadri concettuali e analitici prevalenti non sono riusciti a prevedere, prima dell’implosione, i disordini in grembo a diversi paesi, quali il Cile, l’Ecuador, la Tunisia, la Tailandia, l’Algeria o il Senegal. Il Cile rappresenta una delle economie più sviluppate dell’America Latina; i tradizionali indicatori economici della Tunisia pre-primavera araba non davano alcun motivo di allarme; entrambi i paesi sono stati a lungo considerati tra i più stabili nelle loro rispettive regioni. Ma se si fossero ascoltati direttamente i cittadini, se ne sarebbe potuta trarre un’analisi diversa. Nel 2018, solo il 64% dei cileni era soddisfatto della propria vita3, la seconda percentuale più bassa in America Latina; circa il 44% sentiva di non riuscire ad arrivare a fine mese e il 51% era preoccupato di perdere il lavoro nei prossimi 12 mesi. Solo l’8% degli intervistati riteneva che la distribuzione del reddito fosse equa, la percentuale più bassa in una regione molto disuguale.
Questa storia di vulnerabilità, ingiustizia e infelicità non si limita al Cile. Sempre nel 2018, in Africa sub-sahariana, la percentuale della popolazione che “viveva comodamente” o “tirava avanti” era inferiore al 40%; in America Latina e nei Caraibi, in Medio Oriente e Nord Africa, poco più della metà della popolazione riusciva ad arrivare a fine mese. In entrambi i casi, dei dati in calo rispetto al decennio precedente4. Questo prima della pandemia di COVID-19, che ha esacerbato drasticamente tale vulnerabilità. Una maggiore attenzione agli indicatori soggettivi avrebbe messo in guardia i governi sul divario esistente tra gli indicatori economici tradizionali e le percezioni dei cittadini5.
L’emergere dello scontento negli ultimi anni, in particolare nei paesi in via di sviluppo, costituisce probabilmente un enigma per i sostenitori del PIL come indicatore incontestabile: perché la gente dovrebbe essere infelice se non è mai stata così bene? Il PIL è cresciuto quasi ininterrottamente in tutto il mondo nei tre decenni pre-COVID-19. Una crescita spiccata soprattutto nei paesi in via di sviluppo, che ha contribuito a cambiamenti significativi della geografia economica mondiale. Sono quattro gli elementi chiave spesso citati per sciogliere tale paradosso. In primis, ça va sans dire, la disuguaglianza di reddito; in secondo luogo, il fatto che, in molti casi, la crescita del benessere non sia aumentata allo stesso ritmo di quella del reddito6, ampliando così le diseguaglianze infra-societarie. Il terzo elemento è la pressione sulla forza lavoro globale: la globalizzazione e i progressi tecnologici hanno indebolito le prospettive e la sicurezza del lavoro di tutti, eccetto i lavoratori più qualificati ed i rentiers. Il quarto è la crescente consapevolezza del catastrofico deterioramento ambientale, che conduce l’umanità sull’orlo della sesta estinzione di massa.
Nonostante un consenso stia emergendo rispetto al contributo di questi diversi elementi all’odierno scontento, esso lascia diverse domande in sospeso: perché, dopo decenni in cui i fenomeni materiali si sono strutturati come possenti forze “geo-logiche”, lo scontento sta diventando, solo ora, sempre più visibile ed esplosivo? E perché le crescenti schiere di insoddisfatti non utilizzano le tradizionali modalità politiche e di comunicazione per esprimere la loro voce ed il loro dissenso?
Il tempo presente?
Per quel che riguarda la tempistica, l’evoluzione dello scontento non è sembra accorarsi direttamente all’intensità delle sue cause strutturali e latenti. Segue piuttosto una dinamica apparentemente imprevedibile: talvolta frutto di fenomeni politici come i movimenti sociali, il cambiamento delle percezioni prevalenti della gente e la perdita di fiducia nella narrazione proposta dagli attori politici esistenti – in particolare i cosiddetti progressisti. Di conseguenza, lo scontento può rimanere dormiente per un lungo periodo di tempo tra tra coloro che sono rimasti indietro nel miglioramento generale degli standard di vita di un dato luogo, per poi esplodere improvvisamente; o, invece, manifestarsi in quanto exit dal sistema politico, con un calo a lungo termine dell’affluenza alle urne.
Un punto chiave rispetto allo scontento ed al suo tempismo è che non riguarda mai esclusivamente il presente. Gli “esclusi” di un’economia in crescita possono tollerare le disuguaglianze, se pensano che presto progrediranno a loro volta7; al contempo, assisteremo ad un probabile disordine sociale se un gruppo abbastanza grande di questi stessi “esclusi” si stancasse di aspettare il proprio turno, o si auto percepisse come sistematicamente svantaggiato. Allo stesso modo, lo scontento potrebbe ribollire fra coloro che, contrariamente agli “esclusi”, hanno inizialmente beneficiato dei guadagni economici di una società, il quale progresso si è poi, per quel che li riguarda, rallentato o addirittura invertito, provocando una profonda frustrazione. È il caso delle “classi medie” in molti paesi in via di sviluppo8: se le loro aspettative si sono moltiplicate nel corso di decenni di impressionante crescita economica, oggi non riescono ancora ad arrivare a fine mese, e rischiano di ricadere nella povertà estrema. In alcuni casi, queste classi medie non costituiscono lo zoccolo duro della liberal democrazia – così come ipotizzato dalle dottrine politiche liberali; ma piuttosto un terreno fertile per regimi populisti e autoritari. Nel caso in cui queste due figure sociali – gli “esclusi” e le classi medie precarie – convergano verso una causa comune, la protesta potrebbe avere una forza particolarmente potente.
Indebolimento della fiducia, guerre culturali e tendenze populiste
Per quanto riguarda le modalità di espressione dello scontento, esse sono collegate ad almeno tre fattori che contribuiscono al rapido disfacimento dei legami che uniscono le società.
In primo luogo, l’indebolimento dei corpi intermedi. Questi ultimi possono essere considerati come il fondamento della società civile: assicurano fiducia, reciprocità e solidarietà tra vicini, colleghi e comunità; forniscono il principale canale di aggregazione degli interessi delle persone, e il mezzo tramite il quale esprimono la loro voce. Sono stati riconosciuti come vitali per il funzionamento della democrazia da molti, da Tocqueville a Putnam. Lo stesso Gramsci vide nella società civile, con i suoi molteplici attori e prospettive, un terreno fertile per la trasformazione ed un nuovo pensiero sociale. Eppure i corpi intermedi si stanno riducendo drammaticamente, lasciando gli individui oggi sempre più soli, anche se sembrano più connessi. L’adesione ai sindacati è in declino e i partiti politici sono sempre più lontani dalla propria base. Nel frattempo, la fiducia interpersonale si indebolisce, raggiungendo livelli particolarmente bassi nei paesi in via di sviluppo. La proporzione di persone con amici o familiari su cui contare nei momenti di difficoltà è diminuita; dall’inizio degli anni 2000, le persone in tutto il mondo sono sempre più preoccupate, stressate e arrabbiate, riflettendo una crescente tracollo della salute mentale ed un rafforzamento dell’anomia9.
In secondo luogo, la frammentazione delle identità politiche e la tendenza dei sistemi politici a irrigidirsi nel mantenimento dello status quo invece che risolvere le disuguaglianze hanno creato una crisi di mediazione e rappresentazione. In un mondo in cui il vuoto ideologico è riempito da questioni di identità, i valori e i punti di vista non possono che divergere verso gli estremi, dando vita alle cosiddette guerre culturali, e rendendo sempre più difficile il raggiungimento di un accordo sul come affrontare un dato problema – o persino sull’esistenza stessa di un problema. Nel frattempo, una politica del tipo “winner-takes-all” (ovvero, quando le élite economiche dominano anche la vita politica) ha generato una politica percepita come funzionante solo per una piccola porzione privilegiata della popolazione – ergo, l’anatema dei sistemi democratici per eccellenza. C’e’ poco di sorprendente, dunque, nell’emergere di movimenti politici populisti ed etno-nazionalisti, che sfidano lo status quo e sfruttano la polarizzazione sociale parlando ad una grossa parte dei gruppi sistematicamente emarginati della popolazione.
In terzo luogo, uno stile populista10 pervade lo spettro dei discorsi politici, stabilendo una serie di concetti puntuali e ricorrenti (anti-migrazione, la figura del nemici, il ruolo del leader, ecc.) che svalutano il discorso politico, rendendo sempre più difficile la costruzione di una narrazione consensuale e di un’azione collettiva. Le piattaforme dei social media rafforzano la polarizzazione, creando le cosiddette echo chambers, che personalizzano le informazioni degli utenti, allineandole alle loro convinzioni pregresse11. È importante notare, però, che la frammentazione dell’informazione non implica una perdita di controllo da parte dei gruppi mediatici più potenti: una maggiore concentrazione del mercato ha permesso ad alcune di essi di diventare notevolmente più potenti negli ultimi anni, garantendo loro un’enorme influenza nel determinare ciò che costituisce una notizia e come l’attualità dovrebbe essere intesa.
Di fronte al ritorno della storia, l’opzione “business as usual” non è da considerare
I governi, che si apprestano a rispondere allo scontento e, più in generale, ad avviare una ripresa sostenibile post-pandemia, si trovano oggi di fronte ad una sfida schiacciante, data la profondità delle fratture sociali, la consistenza delle fratture sistemiche e l’ampia dimensione delle proteste. Ritornare al business as usual non otterrebbe alcun risultato. Le cause dello scontento non possono essere trattate in modo puntuale dai responsabili politici, come se ognuna di esse si limitasse ad un gruppo di persone ristretto, isolato e facilmente identificabile. Piuttosto, essi devono confrontarsi con una sorta di intractable trade-offs, declinati in modi di pensare che non sembrano permettere delle soluzioni immediate. Un esempio ben noto è l’aumento delle tasse sul carburante, inteso a contribuire alla riduzione delle emissioni di carbonio. Se da un lato tale iniziativa concorre alla necessaria costruzione di una serie di politiche ambientali, dall’altro infuria una fetta di popolazione a medio-basso reddito, che dipende dalla propria automobile sia per andare al lavoro, sia per accedere ai servizi, e che non si può permettere di affrontare tale costo aggiuntivo. Altri trade-offs includono, per esempio, la tassazione12 e le disuguaglianze di genere o di luogo.
D’altro canto, i governi non possono pensare di rispolverare semplicemente gli strumenti “tecnici” preesistenti, mirando ad obiettivi dettati dalla sola efficienza. Ovvero: sebbene la valutazione di politiche specifiche abbia un senso e richieda, fra l’altro, un maggiore sforzo da parte dei governi, rimane uno strumento insufficiente. Si attende invece un ritorno della politica con la P maiuscola, fatta di visioni e strategie. Ciò che è in gioco oggi è più di un maggior “value for money” in alcune politiche; si tratta piuttosto dell’interazione tra le politiche, della visione che traspare da una concezione onnicomprensiva delle politiche, delle strategie per ridisegnare i contratti sociali a partire da obiettivi condivisi e narrazioni convincenti. In breve, di fronte a minacce esistenziali e scelte immensamente difficili, i governi non possono cavarsela con amministrazioni efficienti che mancano però di una visione d’insieme, limitandosi ad aspettare che arrivi una mano invisibile a proporre soluzioni di più ampio respiro. Per spiegarlo con una metafora che ci è cara: appare strano contemplare i singoli alberi senza alzare gli occhi sull’insieme della foresta a cui appartengono. In questo senso, sfide della portata della crisi climatica e delle diseguaglianze odierne richiedono approcci che vadano ad affrontare e ripensare le istituzioni e i meccanismi di deliberazione che organizzano le fondamenta stesse delle nostre società e delle nostre economie.
Risposte nazionali: migliorare la vita, curare le ferite
L’importanza dell’azione collettiva
Ci sono diverse ragioni che illustrano perché l’azione collettiva sia urgente e necessaria per affrontare lo scontento. La minaccia esistenziale della crisi climatica, ad esempio. L’affronto etico delle enormi disuguaglianze tra persone e luoghi. L’imperativo politico di prevenire e contrastare la manipolazione dello scontento a favore di tendenze autoritarie – o persino fasciste – o separatiste. Gli obiettivi economici per assicurarsi che la ripresa non affronti esclusivamente i problemi generati dalla pandemia, ma anche i colli di bottiglia persistenti, le asimmetrie visibili, la segmentazione e il sottoutilizzo delle risorse rivelate dalla crisi di COVID-19, ma che erano già presenti durante le crisi precedenti.
Se il “perché” affrontare lo scontento è ben chiaro, concentriamoci sul “chi”, sul “come” e sul “cosa” dell’azione collettiva. Il compito è, da un lato, difficile, perché richiede di cambiare il consenso corrente (come sostenuto dal presidente Macron nella sua intervista con il Grand Continent); dall’altro, è complesso, perché i fattori che alimentano e direzionano lo scontento variano sia nello spazio che nel tempo. Diventa dunque impossibile proporre un singolo set di politiche capace di trattare problemi specifici in modo generalizzato. problema . Abbozziamo invece quattro considerazioni che possono aiutare i paesi ad identificare le loro proprie soluzioni specifiche.
Chi dovrebbe agire?
L’attuale scontento produce una sorta di ribellioni senza rivoluzionari e in definitiva senza rivoluzioni. Lo stato dovrà svolgere un ruolo cruciale (il principe nell’Amleto) per contribuire a riformulare le espressioni dei movimenti emersi ed evitare la possibile costituzione di basi di massa che vadano ad alimentare regimi autoritari e persino fascisti. Questo può essere fatto contrastando almeno due fenomeni che esacerbano l’isolamento dei cittadini e indeboliscono la loro autonoma partecipazione politica.
In primo luogo, prendiamo i movimenti populisti: sebbene essi siano i sintomi di un fallimento politico e riflettano spesso lo scontento di parti importanti della popolazione, non riescono però ad affrontarne le cause di fondo?13. Questi movimenti non sembrano capaci di tradurre le espressioni sociali e culturali dello scontento– in sostanza: la loro retorica – in soggettività politica che possa trasformare la realtà. Insomma, non stanno costruendo un “Principe moderno” (per parafrasare Gramsci). Indipendentemente dalle loro origini strutturali, questi movimenti, sembrano rimanere pre-politici, espressioni di forme di ribellione, privi dei mezzi necessari ad influenzare e cambiare realmente la struttura sociale e politica che tanto criticano. Mancano di quell’insieme coerente di aspirazioni e rappresentazioni necessario per affrontare le complesse cause delle sfide che ereditano. Il loro punto d’appoggio – la nazione stessa – costituisce una base scarna per un’agenda politica a lungo termine. La centralizzazione del potere e gli sforzi per indebolire o aggirare le istituzioni democratiche dilata ancora di più la distanza tra società e stato. Probabilmente la loro azione più dannosa è, comunque, la tendenza a minare la nozione di verità condivisa, rendendo ancora più difficile che le società si accordino sulla portata e la natura dei problemi.14.
In secondo luogo, prendiamo la “multilevel governance”: gli stati dovrebbero “appoggiare” i corpi intermedi, aiutandoli a accompagnare gli individui “nel torrente generale della vita sociale” (per parafrasare Durkheim), creando un dialogo regolare tra la società civile e lo stato, in quanto base primordiale della reattività, efficacia e legittimità statali. Purtroppo, in molti casi, l’azione degli stati ha contribuito attivamente non al rafforzamento, ma alla scomparsa dei corpi intermedi. Quegli stessi stati che hanno spesso mostrato una profonda incapacità di interpretare direttamente gli interessi e le percezioni della gente, ostentando un positivismo distaccato, un generico paternalismo e una profonda diffidenza verso le manifestazioni popolari cosiddette “spontanee”. La ragione risiede soprattutto nell’l’adesione a filosofie neoliberali semplicistiche, ma egemoniche, e con dall’insistenza conservatrice sul concetto di leadership e di autorità dall’alto. Di conseguenza, le popolazioni con aspettative di emancipazione – giustificate da un maggiore accesso all’istruzione e da condizioni economiche almeno in parte migliori – hanno perso spazio per esprimere la propria voce, invece di guadagnarlo. Fino a quando sono scese per strada, e hanno dato luogo spontaneamente a nuove forme di solidarietà, anche se con poche possibilità di riconoscimento ufficiale.
Come dovrebbero agire gli stati? L’organizzazione che apprende e l'”improvvisazione diretta”
I principali quesiti da porsi oggi sono: “come” possono gli stati promuovere legami di fiducia, reciprocità, inclusione, solidarietà e “voce” dei cittadini, e allo stesso tempo migliorare il benessere degli individui?15 Come possono rafforzare la loro legittimità attraverso una politica più inclusiva e flessibile, prevenendo un’ondata di scontento all’indomani del COVID-19? Come possono le burocrazie adattarsi all’odierno clima di cambiamento e di radicale incertezza, se i funzionari pubblici non sanno quale sia il risultato più atteso dall’intera collettività?
Certo, una migliore inclusione può essere inserita nelle regole di un nuovo contratto sociale attraverso un processo costituzionale. Gli esempi del Cile o della Tunisia dimostrano che l’impegno a ridisegnare le regole fondamentali e le istituzioni che governano la società può essere indispensabile. Ma non sufficiente. Il processo di riforma costituzionale, previsto come soluzione ai problemi che affliggono il Cile, e che si è poi diffuso in altri paesi negli ultimi anni, ha in molti casi rafforzato i diritti socio-economici e incoraggiato una maggiore partecipazione femminile. Eppure tale processo non è stato universalmente positivo. I processi costituzionali non garantiscono necessariamente l’effettivo rispetto dei diritti socio-economici, come l’accesso ai servizi di base e al lavoro. Alcuni regimi autoritari hanno manipolato i cambiamenti costituzionali per limitare gli impulsi democratici. Anche in contesti democratici, gruppi di potere hanno esercitato un’influenza sproporzionata sulla costruzione della costituzione. È ancora troppo presto per sapere se le recenti riforme costituzionali contribuiranno a fornire soluzioni durature ai fenomeni all’origine dello scontento, oppure no.
Una nuova generazione di piani negoziati?
Ciò che appare indispensabile, con o senza processi costituzionali, è la costruzione di una visione nazionale condivisa e di una strategia conseguente. Tale processo potrebbe articolarsi attorno alla costruzione dei cosiddetti Piani di Sviluppo. Se il numero di paesi che modificano le proprie costituzioni è cresciuto negli ultimi anni, è cresciuto anche il numero di paesi che definiscono strategie nazionali di sviluppo: da 62 nel 2006 a 134 nel 2018. Più dell’80% della popolazione mondiale vive in un paese con un piano di sviluppo nazionale, un numero destinato ad aumentare ulteriormente se si considerano gli attuali piani di ripresa post-pandemica.
Questi piani hanno il potenziale per essere molto più di una tabella di marcia verso un futuro desiderato dall’amministrazione al potere in un dato momento. Possono essere inclusivi sia nei fini che nei mezzi: se l’obiettivo finale è l’elaborazione di una visione condivisa del futuro, il modus operandi, ovvero il processo di negoziazione di tale visione, costituisce un’opportunità di espressione e di ascolto di un’ampia gamma di voci della società, con la creazione di nuovi e rinnovati meccanismi di deliberazione al fine di “democratizzare la democrazia”. I piani potrebbero anche essere un modo per lo Stato di provare a funzionare come “un’organizzazione che apprende” (a learning-organisation): promuovere “esperimenti” decentralizzati per usarela voce e le competenze dei cittadini attraverso le autorità locali, imparare monitorando quale approccio funziona meglio, e riferire regolarmente sui progressi nel raggiungere gli obiettivi pre-concordati (Sabel e Simon, 2009). Questo modo di ridefinire i piani – questa “pianificazione negoziata” – differisce sostanzialmente dalle esperienze attuate negli anni ’60, che erano di natura top down.
Quali dovrebbero essere le priorità di questi piani?
Una terza considerazione è il “cosa”. Una strategia dovrebbe essere un mix coerente di politiche e la loro sequenza. Quali potrebbero essere tali questioni politiche specifiche e in quale ordine dovrebbero dunque essere messe in avanti? Un elemento irrazionale, sebben presente, è insistere sul fatto che i paesi in via di sviluppo, per svilupparsi, dovrebbero adottare una vasta gamma di standard politici derivati dalle pratiche consolidate nei paesi sviluppati. Ora, gli standard sono spesso in realtà il risultato, più che l’origine, dello sviluppo. Inoltre, i paesi in via di sviluppo devono affrontare persistenti asimmetrie, colli di bottiglia, trappole dello sviluppo: tutti elementi specifici ai diversi contesti, e che non possono essere trattati imitando le pratiche dei paesi sviluppati. Le politiche che combinino efficienza economica, inclusività e un’ampia partecipazione dovrebbero essere prioritarie per fronteggiare gli impedimenti strutturali e sfuggire alle trappole causate da bassa produttività, istituzioni deboli e vulnerabilità sociale.
Ad esempio, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo non è in grado di sostenere la crescita delle micro, piccole e medie imprese, anche se queste rappresentano la stragrande maggioranza dell’attività economica. Lo sviluppo economico di questi paesi non opera dunque al pieno del suo potenziale. Le piccole imprese continuano a lavorare in modo isolato, senza avere alcun ruolo nell’economia formale. Al tempo stesso, nei paesi sviluppati – ma anche in alcuni paesi in via di sviluppo – vi sono reti di piccole imprese e forme avanzate di sub-fornitura che utilizzano alcuni tratti delle comunità tradizionali per favorire l’industrializzazione locale (o di servizi turistici) e fare in modo che sia sostenibile, moderna e più egualitaria. La condizione è che vi siano politiche di sostegno e servizi reali alle imprese. La fiducia, il senso di appartenenza a una comunità e il know-how si combinano allora per permettere alle imprese di espandere le loro operazioni, sfruttando bassi costi di transazione ed una migliore integrazione nelle catene di valore.16
Cooperazione internazionale e scontento
Lo scontento è un fenomeno che sfida la nozione di scala pertinente. Nel mondo interconnesso di oggi, lo scontento al di fuori dei confini di un paese può avere un profondo effetto sugli eventi all’interno dei suoi confini. La primavera araba fornisce un esempio evidente, così come il rapido propagarsi delle proteste popolari attraverso tutta l’America Latina nel 2019. Aggiungiamo anche le tensioni nel Sahel, che sono spesso interpretate secondo i canoni delle guerre tradizionali, ma la cui origine deriva da questioni di sicurezza sociale, tra cui la sicurezza alimentare, le pestilenze e la siccità. O il fallimento ventennale della comunità internazionale in Afghanistan. Questi fenomeni possono essere difficilmente interpretati tramite la tradizionale logica westfaliana della sovranità statale, plasmata da relazioni e confronti internazionali tra potenze. Eppure hanno accresciuto le tensioni politiche, plasmato l’agenda internazionale, ed esposto le fratture della governance globale. La forte dimensione internazionale di questi eventi non può essere affrontata senza la cooperazione internazionale. Ma la cooperazione internazionale è all’altezza del compito?
Muri intorno alle paure interne
La cooperazione internazionale è evidentemente minata da pressioni nazionalistiche, che promuovono il bilateralismo tra “amici”. L’instabilità politica, associata allo scontento, spesso spinge i governi a concentrarsi su preoccupazioni interne a breve termine. Se le dimostrazioni di forza di una volta restano rare, un certo numero di leader populisti ha unito a tendenze isolazioniste un comportamento poco diplomatico nei confronti dei tradizionali rivali o dei critici della comunità internazionale. Hanno persino eretto muri (non sempre figurati) tra loro e gli altri paesi, o si sono ritirati dagli accordi internazionali con la motivazione che essi rappresenterebbero un “cattivo affare” per il loro popolo.
Inerzia e frammentazione della cooperazione
Tuttavia, solo un’analisi molto incompleta della governance globale potrebbe incolpare la sola politica interna per le inefficienze del multilateralismo. La cooperazione internazionale è minata da sfide che concernono i suoi obiettivi, i suoi strumenti e suoi sistemi di governance, che influenzano la capacità di affrontare le cause e gli esiti dello scontento.
Gli obiettivi
Le ambizioni del sistema multilaterale sono state rafforzate dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), ma l’impegno è stato debole e il progresso lento, anche prima della pandemia. Definiti nel 2015, gli OSS hanno rappresentato un gradito riorientamento del sistema multilaterale intorno all’idea che la crescita economica e lo sviluppo, sebbene connessi, non sono sinonimi: la crescita deve essere inclusiva e sostenibile, in modi che affrontino molte delle cause dello scontento qui sopra discusse.
Viceversa, negli ultimi tre decenni, l’interconnessione economica è stata una caratteristica distintiva della crescita globale. Durante questi anni, le interruzioni, gli squilibri e gli ampi cambiamenti socialiassociati a tale interconnessione – insieme alle conseguenze ambientali della crescita economica, sono stati ampiamente trascurati – anche se rappresentano una delle principali cause dell’aumento dello scontento. Questi effetti avrebbero potuto essere mitigati se i sistemi multilaterali avessero offerto una maggiore protezione alle persone e all’ambiente, contro le richieste e i capricci dei mercati globali.
In effetti, l’era di Bretton Woods, che durò dal 1945 fino ai primi anni ’70, riuscì a conciliare una maggiore apertura economica con l’accettazione del fatto che i paesi dovessero proteggere i posti di lavoro e sviluppare le industrie nazionali e allo stesso tempo costruire sistemi di welfare per sostenere coloro che non riuscivano a trovare il loro posto in un’economia in cambiamento. Ma, una volta crollato il cosiddetto modello di liberalismo integrato,, i principi del laissez-faire hanno preso piede. Alle forze di mercato – lasciate libere dalla liberalizzazione dei flussi di capitale – è stato permesso di calpestare le protezioni sociali e ambientali considerate, da Karl Polanyi e altri, essenziali per la salute delle società.
Gli strumenti: il “Ἀπὸ μηχανῆς θεός/deus ex machina“?
Queste considerazioni introducono una seconda sfida, che riguarda gli attuali strumenti della cooperazione allo sviluppo. La cooperazione è più che mai indispensabile, ma le forme tradizionali di assistenza sembrano rinchiuse in strutture obsolete che possono essere inefficaci nell’affrontare lo scontento, e potrebbero addirittura finire per alimentarlo17. La distribuzione degli aiuti, per esempio, rimane basata sui livelli di PIL-GNI; questo nonostante gli OSS dovrebbero orientare la cooperazione internazionale18 verso una serie più ampia di misure di sviluppo – quelle che sono spesso al centro delle richieste dei manifestanti – e verso un insieme più ampio di paesi, compresi quelli in cui lo scontento è più visibile, molti dei quali sono paesi a medio reddito.
Un altro esempio è che il grosso della discussione si concentra spesso sugli aiuti, invece di focalizzarsi sullo sviluppo di altri possibili strumenti di cooperazione. Questo non significa negare che un grande volume di “risorse finanziarie per lo sviluppo” sia indispensabile. Al contrario: i costi per superare il COVID-19 e affrontare in modo significativo la crisi climatica richiedono un notevole aumento dei fondi di cooperazione – ben oltre la timida reazione alla pandemia da parte della cooperazione allo sviluppo ufficiale, accompagnata dalla mancanza di partecipazione di alcuni paesi. I paesi meno sviluppati sono sostenuti in maniera molto debole, mentre molti paesi a medio reddito che si trovano ad affrontare importanti trappole dello sviluppo sono esclusi del tutto dagli aiuti.
Il punto è piuttosto che, a parte le risorse finanziarie, non ci si concentra abbastanza sulla costruzione di capacità in tema di politiche pubbliche e sui partenariati per gli investimenti, laddove entrambi dovrebbero essere una parte fondamentale della risposta allo scontento riguardo ai servizi pubblici e ai posti di lavoro. Un nuovo consenso su un multilateralismo rinnovato non dovrebbe cercare di prescrivere standard e influenzare i paesi in via di sviluppo attraverso una complicata architettura finanziaria legata inoltre alla condizionalità, ma piuttosto dovrebbe mirare a promuovere un dialogo politico strutturato e la sperimentazione e l’apprendimento tra “pari”, attraverso il monitoraggio dei programmi sperimentati. Abbiamo bisogno di interazioni ripetute e strutturate affinché i paesi possano discutere e confrontare, da pari a pari, le strategie nazionali, regionali e globali. Il risultato potrebbe assomigliare a quello che l’OCSE ha messo in atto per i suoi membri dopo la seconda guerra mondiale19 e la fine del Piano Marshall, ma in modi diversi e per gruppi più ampi di paesi e regioni.
Un ulteriore esempio ha a che fare con la mancanza di coordinamento tra le pratiche tradizionali di cooperazione allo sviluppo e le significative iniziative forgiate dai paesi del Sud – indipendentemente dal loro livello di sviluppo. Nonostante l’aumento del volume e della visibilità della cooperazione del Sud, le istituzioni del Nord sembrano a disagio nel discutere le prospettive provenienti dal Sud del globo. Insistono piuttosto sul fatto che gli attori del Sud debbano adottare standard definiti in passato, senza la loro partecipazione. La ripresa economica post-COVID-19 potrebbe essere un’opportunità per riconoscere e discutere i diversi approcci, e affrontare così le pressioni delle piazze conto l’acquiescenza dei governi del Sud al modus operandi della cooperazione e delle organizzazioni multilaterali tradizionali.
Gli attori: come imparare gli uni dagli altri?
Una terza sfida riguarda la legittimità dei “tavoli” dove si decide la natura e il volume dei fondi per lo sviluppo. Per quanto strano possa sembrare, essi riuniscono solo i donatori tradizionali20, senza alcuna partecipazione strutturata dei paesi in via di sviluppo – ovvero di coloro che ricevono effettivamente tali fondi21. Negli ultimi 25 anni, questo squilibrio di potere è diventato incoerente con il crescente peso economico e politico dei paesi emergenti e con la conoscenza contestuale che i paesi in via di sviluppo hanno per affrontare le proprie specifiche problematiche e i propri obiettivi di sviluppo. Così, incapaci di ottenere un posto nei fora multilaterali stabiliti – e perseguendo modelli economici ritenuti diversi da quelli del Nord – i paesi in via di sviluppo stanno creando le proprie istituzioni affinché funzionino in parallelo con i tradizionali guardiani della cooperazione internazionale.
Le questioni di legittimità si applicano non solo all’equilibrio tra paesi del Nord e del Sud, ma anche ad altri attori come regioni, città, sindacati, imprese, ONG, istituzioni filantropiche e simili. Sfide come la crisi climatica non possono essere lasciate all’esclusiva soluzione del mercato. La gente spesso protesta per il ruolo delle imprese multinazionali, come dimostrano in modo eloquente le recenti iniziative sulle tasse. Se gli organismi multilaterali possono aprire le conversazioni globali a una gamma più ampia di parti interessate, i cittadini comuni, che vogliono migliorare il luogo in cui vivono attraverso un’azione collettiva, potrebbero sentire di avere una voce sulla scena mondiale e un interesse nella cooperazione internazionale.
La domanda da porsi oggi è se un “tavolo” globalmente rappresentativo per affrontare i beni pubblici globali e promuovere la cooperazione tra pari è oggi possibile? Abbiamo bisogno di voci diverse al “tavolo”, non solo in termini di paesi finora esclusi dai fora globali, ma anche di un insieme più ampio di stakeholder. Un approccio collaborativo alle sfide condivise tra sfera locale, nazionale e multilaterale può alimentare e potenziare uno sperimentalismo a livello internazionale su temi e regioni specifiche, analogo a quello a livello nazionale discusso in precedenza. Il recente accordo tra 136 paesi per un’aliquota minima globale dell’imposta sulle società è un esempio di ciò che potrebbe accadere. Tuttavia, questo può prendere piede solo se la logica politica del sistema internazionale non è ostaggio di un’adesione esclusiva e discriminatoria a campi opposti, anche nelle regioni in via di sviluppo.
Conclusioni
L’aumento dello scontento si è manifestato in tutto il mondo tramite episodi in cui le aspettative e le vulnerabilità delle persone si sono tramutate in frustrazione. Un uso migliore dei dati approfondirebbe ancora di più la nostra percezione del fenomeno. Affrontare lo scontento richiede di permettere il cambiamento e di coinvolgere le persone, non solo per ascoltare i loro lamenti e mediare le loro controversie, ma anche per recepire le loro idee, al fine di creare un mondo migliore di quello attuale.
Così, i responsabili politici devono affrontare insieme diversi elementi estremamente complessi: dalla (ri)costruzione delle istituzioni, al promuovere la rappresentanza e sviluppare la lealtà verso e dai propri cittadini, all’affrontare le richieste urgenti della gente nelle piazze riguardo al lavoro. Noi sosteniamo che gli stati dovrebbero adottare una sorta di pianificazione negoziata per coinvolgere i cittadini, rafforzare la società civile ed i corpi intermedi, e promuovere la sperimentazione in modo da progettare insieme una visione nazionale, costruendo strategie adattive. Tale visione dovrebbe affrontare la qualità della crescita e dare priorità ai percorsi di sviluppo che combinano l’efficienza economica con la resilienza, l’inclusività con la partecipazione. Sosteniamo anche che lo scontento non può essere affrontato senza la cooperazione internazionale. Per svolgere appieno il suo ruolo, è necessario rivedere gli obiettivi del sistema multilaterale, così come le strutture e le procedure dei suoi sistemi di governance, e rendere gli attori che siedono intorno ai “tavoli” dove si discute di cooperazione internazionale in linea con le realtà del mondo contemporaneo.
Note
- Si veda l’importante lavoro di Bertrand Badie.
- Qui si fa riferimento, ovviamente, al lavoro di Albert Hirschmann
- Secondo il sondaggio Latinobarómetro.
- Secondo rilevazioni Gallup
- Ma gli indicatori sono solo uno degli strumenti che dovremmo rivedere.
- Altre misure basate sul reddito oscurano la precarietà dello status economico delle persone, per esempio nel caso della povertà estrema o nel caso delle classi medie, dove le misure del reddito non riescono a cogliere le vulnerabilità.
- Hirschman propone la metafora di un ingorgo in cui si è inizialmente felici quando le file vicine si muovono perché si pensa che l’origine dell’ingorgo sarà progressivamente rimossa. Il punto è che ci si arrabbia seriamente se, dopo circa 10 minuti, gli altri continuano ad avanzare, ma tu rimani indietro.
- Strettamente definite in termini di reddito, ma senza alcuna somiglianza con lo status e la sicurezza di cui godono le classi medie delle economie avanzate.
- Anche se questi fattori peggiorano lo scontento, la manifestazione di questo scontento può contribuire a risultati positivi in quanto può riunire le persone, fornendo la solidarietà agognata e ravvivando il potenziale creativo dello sforzo condiviso.
- Insieme al lavoro di George Lakoff si veda “Le style populiste” del Groupe d’Etudes geopolitiques
- Diventa più raro per le persone incontrare e discutere opinioni alternative.
- La redistribuzione fiscale tramite tasse e trasferimenti in Europa riduce significativamente le disuguaglianze di reddito basate sul mercato, mentre è molto meno efficace in America Latina e nei Caraibi, in Africa o nel Sud-Est asiatico. Rafforzare la redistribuzione fiscale è indispensabile, ma il momento attuale è difficile per attuare le riforme fiscali in quanto ciò potrebbe avere effetti macroeconomici recessivi sulla domanda aggregata e in definitiva sull’occupazione. Inoltre, senza misure per affrontare l’ineguaglianza alla fonte e attraverso una redistribuzione ad hoc, i principali vincoli strutturali ad economie più eque persisteranno.
- Anche se il 2019 è stato un anno di ampia mobilitazione della società civile, lo spazio per la società civile si è ridotto in molti paesi (una tendenza che continua durante la pandemia).
- In un certo numero di casi, COVID-19 ha esposto i limiti di tali leader, ma anche se il loro potere diminuisce, la loro eredità durerà attraverso la sfiducia nei sistemi politici, nei media e in altre istituzioni che hanno generato, così come la frammentazione che hanno sfruttato ed esacerbato
- Si veda il lavoro di Yuen Yuen Ang, professore e autore dell’economia politica cinese.
- Le barriere che le imprese devono affrontare potrebbero riguardare le scelte politiche più ampie che hanno avvantaggiato alcuni gruppi a spese di altri o che hanno impostato l’economia su un percorso particolare. Queste scelte potrebbero essere state fatte molti anni fa, in particolare nel caso di ex colonie le cui economie sono state progettate per soddisfare un particolare bisogno a beneficio di una potenza coloniale. Questo è particolarmente il caso dei modelli coloniali estrattivi (Acemoglu, Johnson e Robinson, 2004[5]). Tuttavia, le scelte potrebbero anche riflettere il potere e gli interessi di particolari gruppi nazionali che influenzano oggi il processo decisionale. Queste dinamiche strutturali incatenano la disuguaglianza in un sistema economico e nella politica economica.
- L’assistenza è spesso percepita dall’opinione pubblica dei paesi in via di sviluppo come una forma di carità invece che di partenariato e alimenta il malcontento. https://youtu.be/ueA4UrGOQn4
- L’obiezione che le alternative al PIL-GNI sarebbero impraticabili trascura la crescente copertura geografica degli indicatori di benessere dell’OCSE, che sembra molto più appropriata del PIL per valutare le condizioni di vita di un paese, o l’evoluzione dell’indice degli indicatori umani delle Nazioni Unite, per non parlare della discussione delle Nazioni Unite sugli indicatori di vulnerabilità.
- Fin dall’inizio, il metodo di lavoro dell’OCSE fu originale: più che un’amministrazione, consisteva in reti di funzionari pubblici che si riunivano per discutere le diverse iniziative di ricostruzione. Formavano una ventina di comitati che si riunivano regolarmente per condividere esperienze e costruire la fiducia tra i paesi membri; tutti i membri scambiavano alla pari e prendevano decisioni all’unanimità.
- con al massimo l’aggiunta di paesi del Golfo arabo
- Mentre i singoli progetti richiedevano una collaborazione “sul campo” tra gli attori del Nord e del Sud, si credeva che la progettazione e la valutazione delle politiche – per esempio, decidere quali forme di spesa potessero essere classificate come assistenza ufficiale allo sviluppo – fosse dominio dei soli donatori (decidere se le spese condizionate all’acquisto di beni dal paese donatore fossero ammissibili, o se i crediti all’esportazione, l’assistenza militare o la beneficenza privata potessero essere considerati “aiuti”).