Abbonatevi alla nostra newsletter per rimanere aggiornati sul lancio de “Il Grand Continent” in italiano
Lei ha partecipato all’esperienza di un governo tecnico. Come giudica il governo Draghi appena insediato?
Il governo appena costituito dal Presidente del Consiglio Mario Draghi rappresenta un unicum, anche in un paese con una storia particolare come la nostra. Infatti i governi Dini 1, e Ciampi 2, due tecnici, erano governi con un forte mandato politico, l’uno di centro destra, l’altro di centro sinistra. Il governo Monti 3 era un governo tecnico sia nella testa sia nella composizione, ma eseguiva, anch’esso, un preciso mandato politico, contenuto in un Programma negoziato dal governo di centro-destra con l’Unione Europea al fine di mettere in sicurezza i conti pubblici del paese, poi fatto proprio dal centro sinistra quando apparve che solo un governo di unità nazionale e tecnico potesse garantirne l’attuazione.
Qui siamo invece in presenza di un governo senza un mandato strategico-politico da parte dei partiti. Viste le dichiarazioni molto aperte fatte in sede di presentazione dal Presidente del Consiglio, si tratta di un governo che potrà essere giudicato soltanto quando si capirà in che modo intende realizzare gli obiettivi proposti, quali l’accelerazione della campagna vaccinale, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e gli altri obiettivi annunciati 4.
Rispetto, per l’appunto, al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), come analizza il rischio, sollevato da alcuni italiani, che il recovery plan intensifichi il vincolo esterno sull’Italia, procrastinando così una crisi euroscettica di qualche anno?
Questa è un’enorme partita per l’Europa. Perché è la partita su cui l’Europa forse si avvia a (e rischia di) cambiare la propria governance. Ovvero emettere titoli di stato europei, andando nella direzione sana indicata Piketty ed altri, accompagnando al potere monetario un potere fiscale, un Ministro del Tesoro, un Parlamento che lo controlli etc… Quindi la partita ovviamente non è solo italiana. E se la partita va male, va molto male per l’Italia, ma va molto male anche per l’Europa, dato che quest’ultima si sta giocando la sua partita in Italia…
Cosa è stato fatto dal governo Conte II? Cosa cambierà con il governo Draghi?
Il governo Conte II è stato, in qualche modo, consapevole dell’importanza della partita che stava giocando: ci ha messo l’anima, nel modo in cui si lavora in quest’epoca, cioè negli uffici del governo. Dopo una partenza sbagliata – raccolta dei progetti esistenti, prima dell’identificazione di una gerarchia di obiettivi – e una prima bozza (a inizio dicembre 2020) fragile e con un’ipotesi di governance velleitaria, le critiche ricevute – anche le nostre, di Forum Diseguaglianze Diversità (ForumDD) – l’hanno indotto a modifiche, incorporate nella bozza approvata il 12 gennaio, da cui il Governo Draghi sta ora ripartendo.
Su quel testo noi del ForumDD abbiamo avanzato proposte puntuali affinché il Piano divenga una strategia-paese. Sono proposte che riflettono diagnosi e visione del ForumDD. Bisogna rendere espliciti i risultati attesi in termini di condizioni di vita e lavoro, in modo da fornire un quadro di certezze per i milioni di italiani che stanno ricostruendo il loro piano di vita: per lavoratrici e lavoratori che non hanno o presto non avranno più un lavoro; per le PMI; per i giovani presi in contropiede dalla crisi. Farà per loro differenza sapere che aumenteranno i posti negli asili nido (fonte di maggiore uguaglianza di opportunità, di domanda nel territorio, di possibilità di lavoro specie per le donne), verranno rigenerati (energeticamente ed esteticamente) palazzi e luoghi pubblici, promosse imprese nella filiera verde, migliorati i servizi di cura e della salute e la mobilità, rafforzata la collaborazione imprese-università, e offerte opzioni di rilancio (magari attraverso Workers Buyout) a imprese in difficoltà. E sapere in quale misura e quando. Lo Stato può giocare questa carta, una carta keynesiana non solo nel senso di spingere la domanda aggregata, ma anche nel senso di dare certezze in una situazione di forte incertezza. E per fare ciò bisogna che, da un lato, siano coinvolte in prima fila, con forti missioni strategiche, le nostre grandi imprese pubbliche; e dall’altro che siano individuate le filiere territoriali di attuazione e siano investite del compito di attuare gli interventi rompendo, lì dove si possono rompere, i silos settoriali, e costruendo strategie territoriali che coinvolgano gli attori e siano monitorate e sollecitate.
Non è detto che non ce la facciamo. Ma per riuscirci è necessario che il nuovo governo, come avevamo chiesto al precedente, esca dalle sue stanze chiuse. Non si illuda che basta sostituire tecnici a tecnici. Si cambino tempestivamente, come spesso è necessario, i vertici delle amministrazioni centrali responsabili dell’indirizzo e poi si costruisca un confronto serrato e informato fra queste tecno-burocrazie e i saperi diffusi rappresentati dal forte partenariato sociale ed economico del paese. Non un “grande dibattito sui massimi sistemi”, ma un confronto sui singoli obiettivi strategici: raccolta di reazioni, quesiti e proposte; valutazione e decisione; informazione alle parti e al paese circa le decisioni assunte e le loro motivazioni. E poi, subito dopo, un reclutamento di giovani e forti risorse umane in tutte le filiere amministrative di attuazione, sfruttando l’opportunità unica del rinnovamento di un’intera generazione – oltre 500.000 posti da riempire – con bandi rapidi (3-6 mesi) e moderni, e curando poi l’inserimento con la saldatura fra “vecchi/e” e “nuovi/e” attorno ai risultati attesi del Piano. Su quest’ultimo punto il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi ha dato segnali convincenti. Non ha fatto lo stesso, ancora, sull’indispensabile dialogo sociale. Qui si gioca la partita italiana.
Il patto di stabilità va bene così o potrebbe essere abolito, come propone Olivier Blanchard?
La pars destruens di Blanchard è condivisibile ed evidente. È noto da tempo che un sistema “one size fits all”, che valuti la sostenibilità del debito su regole fisse, è un sistema inadatto, dato che, come osserva giustamente Blanchard, la sostenibilità è legata a una molteplicità di fattori: dai comportamenti futuri dei governi alle vicende del contesto esterno, alla fiducia degli investitori. Che a questo limite si possa trovare una soluzione, sostituendo un meccanismo composto da regole fisse con dei criteri discrezionali che verranno interpretati di volta in volta, valutando tali molteplici e variabili fattori, mi lascia dubbioso. Sorgono due possibili opzioni. Tale valutazione potrebbe essere affidata, come suggerisce Blanchard, ad un organo tecnico – nonostante il fatto si tratti chiaramente di una valutazione politica: tale opzione sottrarrebbe dunque ulteriore credibilità democratica. Alternativamente, la valutazione potrebbe essere affidata al Consiglio Europeo: ciò potrebbe mettere il Consiglio nella condizione di effettuare un bilanciamento di condizioni politiche, meno irrigidito di quanto non sia oggi. Opzione che rappresenterebbe, probabilmente, un passo in avanti, ma sempre soggetta alla volatilità del quadro delle alleanze inter-statali.
Rimane il fatto che la vera soluzione si cela nell’evoluzione dell’Unione monetaria in un’unione politica: nella quale il neonato Stato federale europeo, valuterebbe, nel suo complesso, le scelte fiscali da prendere.
Lei coordina il Forum Disuguaglianze Diversità, una rete di associazioni e di accademici la cui visione e filosofia fa delle disuguaglianze il punto di partenza per ogni discussione, proposta ed azione politica. Oggi le disuguaglianze costituiscono una delle questioni strutturanti del dibattito sia scientifico che politico: come analizza l’evoluzione e la costruzione delle diverse posizioni riguardo alla questione?
Per usare un’espressione gramsciana, veniamo da un quarantennio segnato da una profonda modifica del senso comune, marcato dalla depoliticizzazione, personalizzazione e responsabilizzazione esclusivamente individuale degli stati di disagio e di minore accesso e opportunità di voce delle persone. Questo fino a modificare radicalmente la parola “povertà”: se nel Dopoguerra tale parola richiamava il contesto nel quale le persone erano nate, in cui si erano trovate a dover crescere e vivere, in quest’ultimo quarantennio la “povertà” viene assai spesso percepita come il frutto di una scelta individuale. Nessuno ha negato l’esistenza delle diseguaglianze, ma esse sono state reinterpretate come uno stato passeggero della vita degli individui e delle società, come frutto delle loro personali scelte.
Questa visione è poi cambiata?
Verso la fine di questo lungo periodo – nei primi anni 2000, anche prima della crisi del 2008 – la punta di diamante del pensiero neoliberale e liberale, The Economist, ha iniziato a percepire che la concezione delle diseguaglianze come stati temporanei – della vita delle persone o delle società – non reggeva. La teoria del trickle down effect, del “tanto poi si cresce e la ricchezza arriva a tutti”, era errata. Al livello europeo, questa consapevolezza era già molto forte – in grandi figure come Anthony Barnes Atkinson, e in reti di studiosi europei che portavano avanti il tema delle disuguaglianze personali e territoriali sul piano analitico ed empirico.
È una consapevolezza che ha radici nell’impianto costitutivo dell’UE. Ricordo che il Trattato UE alla parola “felicità’” presente nella Costituzione americana preferisce “harmonious development”, lo sviluppo armonioso che prevede che a ognuno sia data una chance. E che sin dai suoi albori la Comunità e poi l’Unione Europea mostrano piena consapevolezza del fatto che la libera circolazione di lavoro, merci e capitali tende di per sé ad accrescere le disuguaglianze territoriali. E dunque, che l’obiettivo della pace debba essere fondato su un’”identificazione” – la parola utilizzata da Freud nelle sue risposte a Einstein nel 1933 su cosa potesse evitare la guerra che incombeva – fra i cittadini dell’Europa, degli uni negli altri e nelle altre. Concetto fissato nell’obiettivo della “coesione”, valorizzato nei Trattati e, non a caso, da Jacques Delors quando si è imboccata la strada dell’Unione Monetaria, e di nuovo o ora nel Next Generation EU.
E invece, soprattutto dagli anni novanta, l’azione pubblica dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri muove in una direzione diversa e le disuguaglianze si aggravano. Nelle loro tre distinte forme. Al di là delle disuguaglianze “classiche”, ovvero economiche, di reddito e di ricchezza, che cessano di ridursi e spesso crescono, anche con forza, dagli anni ’80, ve ne sono due altre: quelle – assai gravi – di accesso ai servizi fondamentali, causate dall’indebolimento del welfare state, con la negazione e la corrosione dei sistemi pubblici della salute, della scuola, della mobilità, e dell’accesso e uso consapevole del digitale; e le disuguaglianze di riconoscimento, concetto fondamentale della filosofia tedesca, ovvero la negazione del riconoscimento del valore, del ruolo, dell’identità, dei valori propri a fasce della società, siano esse insegnanti, operai o residenti nelle aree marginalizzate, periferiche e rurali di tutta Europa. Come del resto avviene anche negli Stati Uniti.
E si noti che il mancato riconoscimento dei propri valori, la loro messa in discussione da parte di valori diversi, la sfida delle “diversità” all’omogeneità e unicità, rappresenta, secondo la grande politologa e studiosa di comportamenti umani, Karen Stenner, sin dal suo volume anticipatorio del 2005 (“The Authoritarian Dynamic”), il fattore scatenante di quella reazione di rabbia e risentimento da parte di chi ha una predisposizione, appunto, all’omogeneità. È l’insieme di questi fattori che, in assenza di un disegno alternativo progressista che proponga a un tempo forti valori comuni e uno scenario di vita possibile più giusto, spiega le spinte autoritarie dell’ultimo decennio.
Come si è tradotta tale consapevolezza in termini di proposte e iniziative concrete al livello europeo e internazionale?
Anche in Europa come negli Stati Uniti c’è stato chi ha previsto ciò che stava per succedere: Danuta Hübner, economista e social-democratica polacca, che aveva accompagnato e gestito l’entrata della Polonia nell’UE, avvertiva che questi fenomeni stavano aprendo faglie gravi. E che dietro pesava la negazione di ogni via collettiva di uscita: There is no alternative, it’s up to you…. Take your life in your hands; we can’t do anything about it. E così, divenuta Commissaria europea proprio alla coesione, ha tentato, nel 2008, la costruzione di una operazione europea che usi la politica di coesione come leva per aprire un’alternativa, luogo per luogo, nello spirito di Jacques Delors. Mi chiamò a costruire e coordinare la squadra e producemmo, attraverso un percorso di oltre un anno, un Rapporto di diagnosi e di proposte: “An Agenda for a Reform of Cohesion Policy”, che anticipava ciò che dieci anni dopo è diventato pensiero comune: le disuguaglianze personali e territoriali non sono sostenibili, la priorità politica sta nell’innalzare l’accesso e la qualità dei servizi fondamentali, per rendere davvero “europea” la cittadinanza. E proponeva opzioni concrete animate da un metodo, il place-based approach, nonché un modo di disegnare e attuare le politiche, né top-down né bottom-up, che unisce forti indirizzi generali di principio a livello europeo-nazionale-regionale con strategie territoriali affidate ai Comuni, con un forte dialogo sociale con la società civile, il mondo del lavoro e le imprese.
Tale tentativo è stato contrastato con forza dal pensiero neoliberista dominante incarnato dalla componente egemone della Banca Mondiale. Ma ha trovato invece nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), uno spazio di discussione (non a caso) nel Comitato sulle politiche territoriali 5 – da cui matureranno alcune delle idee che Hubner farà sue. Questo in parallelo con altre importanti operazioni OCSE iniziate negli anni 2000 e 2010, operazioni intellettuali che hanno visto Enrico Giovannini 6 – mio compagno di strada di una vita – in prima linea, e la Francia in una posizione interessante, con la Commissione Stieglitz-Fitoussi-Sen 7 lanciata da Sarkozy nel 2007. E’ un’iniziativa che promuove la discussione sui limiti delle misurazione data dal PIL (“Beyond GDP”) e sull’instaurazione di nuovi indicatori basati sul benessere, e che ha costituito la base di diverse iniziative OCSE negli anni a venire, nonché dell’iniziativa ONU del 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Il tentativo ha influenzato il disegno della politica di coesione, ma non è stato raccolto dalla politica, rimasta ancorata all’impianto del ventennio precedente. Eppure inizia a maturare un’altra visione, che vede nelle diseguaglianze un fenomeno permanente, frutto di scelte – come dirà Anthony Atkinson – e non di fenomeni inevitabili. Non frutto della globalizzazione, ma di come l’abbiamo gestita: a partire nell’accordo TRIPs 8 del 1994, che sbilancia il difficile equilibrio fra tutela della proprietà intellettuale e della conoscenza come bene comune prioritario dell’umanità – di cui paghiamo in queste ore, con i vaccini, le drammatiche conseguenze. E frutto, ancora, di un new public management che assume la conoscenza perfetta da parte di pochi centri di competenza e nasconde decisioni politiche dentro gusci tecnici. Fino a culminare in una sistematica disattenzione per i saperi diffusi. Queste sono, in estrema sintesi, nell’analisi del ForumDD, le cause dell’attuale stato di cose.
Certo, l’entrata in gioco in produzioni competitive di masse di forza lavoro in Cina, Indonesia e India tende a ridurre il potere contrattuale della classe operaia e medio-bassa dell’Europa. Ma anziché rispondere con un ruolo più forte e innovativo dei sindacati, si risponde delegittimandoli e considerandoli istituzione del passato. Così, gli sviluppi della tecnologia dell’informazione e del digitale destabilizzano i vecchi lavori. Ma di nuovo, a questa sfida non si risponde interrogandosi a livello di politiche pubbliche su come indirizzare il cambiamento affinché produca buoni e non cattivi lavori, ma lasciando fare a una supposta intelligenza del mercato e permettendo che le piattaforme digitali diventino possesso esclusivo e monopolio di poche corporation. Si abbandona così il terreno di quella che sta diventando la nuova grande leva di trasformazione mondiale. Insomma, l’attuale grave stato delle disuguaglianze è frutto di scelte, di politiche e di quel cambiamento di senso comune da cui siamo partiti.
I populismi presenti in Europa oggi sono quindi il frutto del ritardo di comprensione del ruolo strutturale delle disuguaglianze?
Certamente. Alle lacerazioni sociali i partiti di sinistra e centro-sinistra, egemonizzati dalla cultura neo-liberista, non danno risposta e cessano di esercitare “rappresentanza”. La democrazia viene mortificata perché il suo metodo di formazione delle decisioni e di attuazione della sovranità popolare viene ridotto al voto, negando e chiudendo gli spazi per il metodo del “governo attraverso il dibattito”, per la partecipazione, per il confronto acceso, aperto, informato e ragionevole: il solo strumento, come scrive Amartya Sen, che consente di prendere decisioni giuste. Da qui, la nascita di movimenti e populismi. Da un lato, la nascita di forme nuove di azione politica, anche assai diverse: partiti-movimenti, movimenti che combinano azioni pratiche locali e solidarietà internazionale ma rifuggono dal misurarsi con le istituzioni (folk politics, li definiscono Nick Srnicek e Alez Williams), organizzazioni di cittadinanza attiva che realizzano azioni collettive o influenzano le azioni pubbliche, e alleanze, come quella dello stesso ForumDD. Dall’altro, a volte in connessione con queste forme, la ricerca di forme semplificate che tornino a rendere visibile il popolo. Che si definisca il populismo con Pierre Rosanvallon 9 o con Chantal Mouffe 10, esso costituisce un tentativo di ricostruire una visibilità del popolo. Che tuttavia può evolversi in direzioni assai diverse.
Si potrebbe dunque valutare lo scontento come un elemento positivo, in quanto epifenomeno del malfunzionamento del sistema? In questo senso, è abbastanza facile pensare il populismo in termini positivi, associandolo ad esempio alle recenti manifestazioni e rivolte in America Latina – che hanno addirittura portato, in Cile, alla formazione di un’Assemblea costituente. Diventa però più difficile quando ci si riferisce all’episodio di Capitol Hill. Lei ha scatenato una polemica su Twitter riguardo a questa vicenda, indicando l’insurrezione come una conseguenza delle diseguaglianze negli Stati Uniti. Non si tratta qui giustificare l’ingiustificabile?
Non dobbiamo mai confondere la parola “giustificare” con “spiegare”. Giustificare è riconoscere la validità di un modo di comportamento; spiegare significa non accontentarsi di semplificazioni – in questo caso, classificare Trump come causa e non, primariamente, come effetto – e ricercare le ragioni ultime di ogni fenomeno. Il fatto è che sinora il populismo, che pure può aprire opportunità per il rilancio di progetti di emancipazione, è stato colto e cavalcato assai più di frequente e con ben più efficacia da progetti autoritari di destra, in Italia come altrove nell’Occidente.
Il populismo è uno stato transeunte, non è una condizione stabile. Si manifesta e scatena quando viene meno quello che Rosanvallon chiama il popolo sociale, quando rimane solo il popolo costituzionale e numerico. Quando viene negata al popolo, attraverso l’indebolimento dei corpi intermedi e della democrazia, la possibilità di contare e di combattere, o, come direbbe Albert Hirschmann, di avere una voce. Gli si dà solo la possibilità di exit. Allora la democrazia si impoverisce, e scattano questi meccanismi. Nel fenomeno populista ci sono due anime: da un lato, il tentativo di ricostruire canali di rappresentanza che non ci sono più; dall’altro, la tentazione di risolvere proprio la complessità della rappresentanza in un rapporto diretto con un leader, un grande semplificatore, un Cesare.
Nella storia, abbiamo assistito all’evoluzione in entrambe le direzioni. Il populismo americano anti-baroni della finanza a cavallo fra ‘800 e ‘900 si evolve e influenza il Partito democratico alimentando di idee e di impulsi il New Deal. Si pensi, anche in termini di virulenza del linguaggio e di radicalità della battaglia contro poteri che apparivano invincibili, ai lavori e alle conclusioni della Commissione del Senato diretta dall’italo-americano Ferdinand Pecora 11, che condurrà, fra l’altro, alla disgregazione della Banca Morgan. L’altra strada è quella del fascismo: stessa rabbia, stesso scontento, stessa incapacità di trovare una rappresentanza. Che tuttavia determina, è cavalcata e incanalata, da una proposta autoritaria. Quindi il populismo può prendere due strade: o rigenera la democrazia, o diventa autoritarismo. Ha in sé entrambe le potenzialità.
Chi dovrebbe essere l’attore politico responsabile di promuovere un processo che dia una voce al popolo, nel contesto delle strutture partitiche esistenti oggi in Italia e in Occidente?
I partiti rappresentano, in Italia anche per dettato della Costituzione, l’associazione fondamentale della democrazia. Al giorno d’oggi, i partiti si dovrebbero lasciare rigenerare dalla domanda di ricostruzione di un popolo sociale, e tornare ad esercitare questa nuova funzione all’interno del quadro democratico. Ma non nello stile degli anni del trentennio post-bellico! Non si tratta di ricostruire partiti di massa.
E questo per due ragioni fondamentali. In primo luogo, perché oggi i saperi sono diffusi: l’istruzione di massa, con tutti i suoi limiti, fa sì che milioni di essere umani in Europa, come altrove, abbiano i saperi che servono a governare: pazienti, studenti e studentesse, anziani e anziane, pendolari… tutti sentono di poter contribuire e possono contribuire al disegno dei servizi fondamentali. Non esprimono solamente bisogni; esprimono anche soluzioni. E questo richiede una democrazia diversa da quella che avevamo quarant’anni fa.
In secondo luogo: oggi torniamo a riconoscere il tema gravissimo della subalternità di classe, ovvero della necessità di un riequilibrio di poteri fra chi controlla solo il proprio lavoro e chi controlla anche il capitale, materiale o immateriale che sia. Ciò si accompagna anche con consapevolezze che nacquero, ma non furono abbastanza fertili, nel ’68: la consapevolezza di altre tre subalternità, quella di genere, di razza, e una subalternità di tutti noi a noi stessi, sarebbe a dire il riconoscimento della non sostenibilità ambientale. Io qui sono mouffiano [da Chantal Mouffe, ndr]: ricostruire la democrazia significa ricostruire arene di confronto e di raccolta di saperi, di elaborazione di decisioni e atti che diano forma e allo stesso tempo soddisfino queste quattro subalternità, senza perderne la specificità.
Che fare? Come ricostruire la democrazia?
Per farlo, c’è un solo modo possibile, indicato da uno dei maggiori pensatori viventi, Amartya Sen: un confronto acceso – ovvero che consenta a tutti di parlare, inclusi gli antagonisti; informato – dove nessuno parla due volte senza portare elementi verificabili a sostegno delle proprie tesi; aperto – dove la comunità conta, ma solo se è una comunità aperta, come descritta dal filosofo di origini ghanesi Kwame Anthony Appiah 12; e ragionevole 13 – ovvero non solo autoreferenzialmente razionale, ma anche che riesce a mettersi nelle scarpe degli altri.
Questa modalità è possibile? Sicuramente sì: è stata già sperimentata in Europa, e anche gli Stati Uniti dimostrano di averla intesa. Ad esempio, se oggi il Senato americano non è più a maggioranza repubblicana è perché in Georgia si sono sviluppati movimenti e reti progressisti che, venendo raccolte dal Partito Democratico, hanno portato al voto cittadini che in passato ne erano stati lontani, producendo un risultato inatteso fino ad un anno e mezzo fa. Le reti di democrazia organizzata al livello di cittadinanza sono la strada da seguire.
Si nota nella sua analisi una critica implicita a quella che è stata chiamata la cosiddetta “terza via”. Potrebbe esplicitare questa critica?
La terza via è un’illusione ottica. È lo schiacciamento del centro-sinistra sul pensiero neoliberista, in tutti i paesi: dei partiti socialisti e social-democratici, della parte progressista dei partiti popolari, della parte progressista dei liberali… ovvero delle tre grandi anime culturali dell’Europa e dell’Italia. E’ una giustificazione per potersi schiacciare sul pensiero neoliberista, nulla di più. Spesso in buona fede. C’è il convincimento di essersi illusi circa la possibilità di trovare nuovi equilibri fra sentimenti individualisti e di reciprocità, e circa la possibilità di evitare le trappole dirigiste dello Stato; l’illusione illuminista di possedere le conoscenze per capire cosa sia meglio per tutti, in ogni luogo, indipendentemente dai contesti; l’illusione che le imprese, stimolate da molti stakeholders, possano risolvere la complessità nell’interesse generale; una visione riduttiva della libertà come exit. L’unica genuina differenza della terza via è la gerarchia dei valori, dove si dà in genere (non sempre) più importanza al tema delle disuguaglianze. Quindi la parte compensativa delle disuguaglianze è più forte: “non li possiamo lasciar morire di fame…”. Ma il metodo rimane lo stesso. Quindi non è una vera e propria terza via.
Soprattutto pesa con forza il convincimento dell’inutilità, della vacuità, del confronto acceso e del dialogo pubblico. Il messaggio di Tony Blair, anche nella drammatica vicenda della demenziale avventura irachena, che segna un nuovo, storico peggioramento nell’intera vicenda mediorientale e nel rapporto fra mondo cristiano e islamico, è chiarissimo: tu mi voti ogni cinque anni, e anche di fronte alla più grande dimostrazione mondiale della storia io non defletto; poi, avrai il potere di votarmi contro. E così in ogni campo. Tu, cittadina e cittadino, oltre al voto, mantieni comunque il potere di exit. Non ti piace l’ospedale, la scuola: te ne vai; non ti piace la città, non ti piace la Gran Bretagna, te ne vai. C’è ovviamente libertà: la libertà di andarsene. Ma che si contrappone al restringimento dello spazio della democrazia deliberativa e al mascheramento tecnico di decisioni politiche.
E così il new public management, che pure introduce strumenti nuovi e utili (migliore misura dei risultati, indicatori, ruolo della valutazione), conduce a un riduzionismo metodologico, con l’illusione anti-hayekiana e anti-liberale, decisamente di sapore pianificatorio, per cui i grandi centri di competenza possono regolare il sistema attraverso complete contracts, che stabiliscono il da farsi in tutti gli “stati del mondo”. Si tratta dunque, fondamentalmente, di una depoliticizzazione e de-democratizzazione dei processi di decisione pubblica.
E in Italia?
In Italia è sempre stato tutto un po’ parossistico e ritardato. Ricordo ai non italiani che leggono che l’Italia presenta una sofferenza in più: il suicidio dei partiti organizzati legato, da un lato, all’accertamento da parte della magistratura dei diffusi casi di corruzione nel finanziamento dei partiti, noto come Tangentopoli; dall’altro, al modo in cui il Partito Comunista italiano ha scelto di affrontare la caduta del muro di Berlino, esprimendo un sentimento di colpa, con la conseguente rimozione contemporanea sia delle proprie ambiguità, sia delle proprie specifiche acquisizioni politiche e culturali. In nessun altro paese è avvenuto un simile suicidio di massa.
Al suicidio dei partiti si somma il fatto d’aver sempre avuto amministrazioni pubbliche arcaiche e deboli e di non averle sapute riformare, con effetti negativi in termini di efficacia dell’azione pubblica e di spazi per la corruzione. Consapevolezza che ci porta al vero e proprio quesito rispetto alla vicenda italiana: com’è possibile che, nonostante tutto ciò e quello che è successo, il paese tenga? La risposta rende evidente l’esistenza di un forte fattore di compensazione di cui non parliamo a sufficienza: il telaio territoriale, più forte che altrove, fatto di comuni, organizzazioni di cittadinanza, sindacati, reti di imprese sociali e pensionati sindacalizzati, università territoriali, reti locali di imprese, cooperative, cooperative di comunità, fondazioni. Un fattore che rivela e riproduce non solo solidarietà e mutualismo, ma anche creatività e imprenditorialità. Un fattore robusto abbastanza da impedire che il paese fallisca, ma che il paese non riesce a convertire con orgoglio in strumento di rilancio e sviluppo.
Con questi suoi tratti, l’Italia vive particolarmente male la cosiddetta terza via. Se in altri paesi la nuova ideologia è messa al servizio di tecnostrutture robuste e di una buona amministrazione pubblica, producendo perlomeno la fissazione di obiettivi effettivamente misurabili e verificabili, in Italia il nuovo approccio aggrava la burocratizzazione e la deriva procedurale nei servizi e deteriora il rapporto fra pubbliche amministrazioni e imprese sociali, concepite come strumento di erogazione di servizi di minore qualità con lavoro mal retribuito. Così come, su un altro fronte, il processo di frettolosa privatizzazione delle imprese pubbliche, la colonna vertebrale dell’industria di un paese storicamente povero di grandi imprese private, è stato accompagnato dallo smantellamento ideologico di ogni tentativo di programmazione e indirizzo delle imprese restate pubbliche (quasi 30%, oggi, del patrimonio quotato nella Borsa di Milano). Prendendo sul serio l’arresto di ogni politica industriale, in realtà proseguita da paesi come Stati Uniti, Germania o Olanda. Sta in queste specificità quella stagnazione della produttività che in Italia si aggiunge all’aumento delle disuguaglianze.
Si trovano però in Italia delle forme di innovazione politica, incarnate principalmente dal Movimento Cinque Stelle e, anteriormente, dalla figura di Berlusconi, leader televisivo e imprenditoriale, manifestazione della trasformazione del partito in partito-impresa.
Berlusconi è, in fondo, un antesignano di tanti processi. In lui si manifesta una forma estrema di depoliticizzazione della politica, non tanto attraverso la sua persona, quanto nella sua idea di governo. Seguendo la logica secondo la quale le scelte pubbliche sono solo un tema di efficienza: c’è un solo modo di fare le cose, e quindi vanno gestite dalle persone più adeguate e migliori possibili in quel campo. Non esiste più, in apparenza, una scelta politica.
Approccio che va coniugato alle sue scelte di alleanze politiche, in particolare con la vecchia Lega Nord.
Certo. Grazie alla saldatura con la Lega Nord dei territori, rappresentativa di un ceto medio produttivo e delle aree rurali e capace di esprimere il sentire specifico di comunità territoriali – un compito che in passato era stato svolto dal PCI e dalla DC – Berlusconi colma il vuoto di rappresentanza. Lo fa giocando una carta forte, quella della persona che si è fatta da sé. Un ruolo che la sinistra spocchiosa e disattenta ingigantisce prendendolo in giro perché magari da più giovane suonava sulle navi, o per la popolarità dei suoi modi o delle sue barzellette (pur non contrastando a sufficienza la degenerazione nell’uso dell’immagine della donna sulla televisione pubblica).
Siamo molto lontani dai valori di populismo nazionalista che sono diventati parte centrale della narrativa autoritaria della nuova Lega di Salvini. Quei valori che oggi sono tenuti sottotraccia dall’adesione al governo Draghi, dettata dagli interessi delle piccole e medie imprese che della Lega sono ancora l’asse vitale.
E il Movimento Cinque Stelle?
Il Movimento Cinque Stelle è un genuino tentativo, rientrante nei canoni del populismo di cui prima si è detto, di riempire il vuoto di democrazia e di partecipazione. Lo fa in due modi. Primo, con forme di partecipazione diretta alle decisioni, attraverso piattaforme informatiche, come quella che con meno del 60% dei votanti ha di recente accettato la partecipazione al governo Draghi. Secondo, e più interessante, con lo strumento dei meetup.
Cosa sono i meetup 14?
Sono arene di confronto territoriale in cui si mira a dare a tutti i partecipanti la possibilità di confrontarsi in modo acceso e informato per decidere la linea del movimento su temi locali o nazionali. L’analisi di esperienze concrete di questo strumento 15restituisce la genuinità degli intenti, ma anche l’impreparazione metodologica, che, come accade, costringe progressivamente a restringere i paletti del confronto o addirittura a troncarne gli sviluppi, con l’emersione di leadership dirigiste e strumenti sanzionatori – una sorta di giacobinismo autoritario. La straordinaria accelerazione dei risultati elettorali del Movimento toglie linfa a questa esperienza. In sostanza, la chiusura dei meetup priva il Movimento Cinque Stelle di un pezzo fondamentale della sua stessa originalità e ragione d’essere.
Su tutt’altro fronte, un’esperienza di costruire luoghi di confronto viene tentata nel Partito Democratico. Sono stato io stesso a condurla con una squadra nazionale durante i miei tre brevi anni di militanza all’interno del Partito Democratico. Con quindici unità territoriali di quel partito (o reti di unità) che avevano risposto a una call, abbiamo sperimentato per un anno, in un progetto denominato “Luoghi Ideali”, l’idea di trasformare i circoli interni al PD in luoghi ideali di confronto, tramite la condivisione di saperi diffusi. Scartata l’idea di “rimettere il dentifricio nel tubetto”, ossia di riportare nel partito, come nell’esperienza dei partiti di massa, cittadine e cittadini di diversi ceti, abbiamo voluto fare delle unità territoriali del PD luoghi di incontro e laboratori, congiunzione fra saperi diffusi, organizzazioni di cittadinanza e i quadri dirigenti del partito. I risultati sono stati interessanti ed esaminati in un Rapporto di valutazione che è stato discusso a lungo dagli organi dirigenti del PD. Dopo lungo confronto, alcune proposte in questo senso sono state approvate da una commissione nazionale del PD e indirizzate all’Assemblea (1000 membri) del PD stesso. Non saranno mai discusse.
Quindi per lei il fallimento dei meetup, come tentata applicazione dell’idea di democrazia di Amartya Sen, è paragonabile al travisamento del contratto sociale di Rousseau e alla conseguente deriva autoritaria data dal giacobinismo durante la Rivoluzione francese?
Esatto. Alla fine, ciò che veramente manca è un’organizzazione nazionale che rassicuri i livelli territoriali sulla natura sperimentale del processo, sul fatto che si possa andare avanti, che si possa discutere, che le regole sono fissate e mantenute, che garantisca trasparenza; che legittimi e sproni il meetup che ha continuato a discutere fino alle 3 del mattino senza concludere, affiancandolo nel metodo. La mancanza di tale organizzazione nazionale si è profondamente sentita nell’esperienza meetup. Il loro tentativo di ricostruzione di un intellettuale collettivo – come direbbe Gramsci – è venuto meno a causa della mancanza di un’avanguardia intellettuale, la cui funzione non è quella di imporre le modalità e i contenuti, ma di dare una sensazione di serenità, di non pensare di perdere tempo, e di avere fiducia nella correttezza di metodo entro la quale continuare l’esperimento.
E invece il successo elettorale del Movimento produce esattamente l’effetto opposto, dando la sensazione e l’illusione di avercela fatta, che adesso si tratta di comandare, di occupare il Palazzo. E quindi arrivano nel Palazzo senza gli strumenti metodologici non solo per governare ma anche per mantenere le connessioni con chi li aveva eletti.
Perché lei non ha preso la tessera del Movimento 5 Stelle invece che del PD?
Per affinità. E per convenzione. L’affinità: perché il PD, con tutti i suoi vizi di origine, ovvero di aver interrotto un confronto intellettuale e politico fra le sue tre anime, liberale, cattolica e social-comunista, continua ad avere un’organizzazione. E quindi aveva la chance di mettere tale organizzazione al servizio delle sue inusitate articolazioni territoriali.
L’attrazione erano le opportunità offerte da un partito che ha ancora 300-350.000 iscritti di cui forse ben 100.000 molto attivi, con circa 5.000 unità territoriali. Non ci sono molte organizzazioni in Europa che presentano tale articolazione territoriale. Quindi a mio parere il PD nascondeva un potenziale enorme, che pareva poter essere utilizzato per ricostruire un partito moderno. Matteo Renzi, mentre governava per un breve periodo in modo incontrastato, avrebbe forse potuto tollerare – non dico condividere – una simile sperimentazione, apparentemente affine al suo metodo iniziale. Ma nel pensare ciò ho ingenuamente sottovalutato il grado di minacciosità e la lontananza culturale della mia proposta: ciò che la fa respingere è che il partito-palestra che ho in mente – l’affidamento ai circoli di un ruolo forte nella formazione e selezione della classe dirigente – costituiva una minaccia troppo forte per la classe dirigente stessa, la classe dirigente auto-cooptata e cooptante.
Lei oggi coordina una rete di associazioni – Forum Disuguaglianze Diversità. Qual è la differenza fondamentale fra partito, associazioni e reti di associazioni? Quali sono i pro e i contro delle reti di associazioni nel contesto attuale rispetto ai partiti esistenti?
L’esperienza a cui abbiamo dato vita è la risposta a una domanda. In Italia, prima di noi, era nata l’Alleanza contro la povertà; poi, insieme a noi, è nata ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, diretta fino alla sua nomina a Ministro dal mio amico Enrico Giovannini e costruita per promuovere il cambio di paradigma disegnato dai 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile; e prima ancora la Rete dei Numeri pari, che raccoglie 400 punti di mutualismo italiano, occupanti di case, fabbriche autogestite, beni sottratti alla mafia. E altre Alleanze ancora. Sono reti molto diverse, alcune più istituzionali, alcune più radicali o antagoniste. La nostra, il Forum DD, è un’organizzazione composta da otto robuste organizzazioni di cittadinanza, di dimensione e background culturale assai diverso, e da cento accademici.
Benchè diverse nella natura, tutte mirano a colmare il vuoto di confronto culturale-politico di sistema lasciato dai partiti. In Italia, accanto ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali, operano decine di migliaia di organizzazioni di cittadinanza, animate dal 3,5% degli italiani – come volontari (2 milioni e mezzo) o come occupati (mezzo milione). Queste organizzazioni praticano il confronto acceso e lo sperimentalismo democratico, migliorando le condizioni di vita di singole persone o di comunità in migliaia di luoghi del paese. Ma non hanno effetti di sistema. E sono consapevoli che gli elementi di sistema che sono incorporati nelle proprie pratiche, nei propri metodi, non arrivano nei palazzi delle istituzioni. Non cambiano il sistema. Ecco, è alla domanda di farsi sentire dalle istituzioni, di cambiare rotta e paradigma al sistema, che queste Alleanze rispondono. Sanno di non avere a portata di mano partiti nei quali riversare le proprie idee; da qui la volontà di organizzarsi in alleanze. Per influenzare il sistema. Per fare sistema.
Quali sono le novità e peculiarità di ForumDD ?
In primis, il fatto di corrispondere alla domanda di cui le ho detto, combinandola con una forte presenza della ricerca e dell’Accademia. Le altre strutture che ho nominato hanno anche loro ricercatori; noi abbiamo una presenza e uno approccio letteralmente bipolare da questo punto di vista. Teorizziamo che ci siano dei “saperi del fare” e dei “saperi dell’Accademia e della ricerca” e il rapporto tra questi due saperi non è assolutamente pensato in modo gerarchizzato.
Ma i vostri lavori e proposte hanno un effettivo impatto?
Per dire qual è l’impatto, bisogna dire prima qual è l’obiettivo. Rispetto a tutto quello di cui abbiamo discusso finora, l’obiettivo è duplice: ricostruire una visione, partendo dai due saperi; e formulare proposte con i piedi ben piantati per terra, che possano camminare. Noi abbiamo ricostruito una visione che è fondata sul concetto di giustizia sociale di Amartya Sen, colto dal binomio “disuguaglianze” e “diversità”. Essere uguali vuol dire avere la stessa chance di vivere la vita che è nelle proprie corde vivere, di esprimere la propria diversità, non avere ostacoli al “pieno sviluppo della persona umana”, come scrive l’art. 3 della nostra Costituzione. 16
La nostra diagnosi delle disuguaglianze è quella che ho prima descritto. Se esse sono, come sono, frutto di scelte, possiamo aggredirle, cambiando tali scelte e tornando a modificare il senso comune. La visione del “futuro più giusto” – il titolo del nostro libro per il Mulino chiuso in piena pandemia 17 – che ne discende produce proposte concrete, per raggiungere questo futuro. Nei primi tre anni ci siamo concentrati su azioni a tutti i livelli di governo che possano radicalmente ridurre le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del controllo sulle decisioni. A livello internazionale: cambiare l’accordo TRIPs del 1994. A livello europeo: costruire una grande impresa pubblica europea per il digitale e la salute – lo scriviamo nel marzo 2019, prima dell’esplosione di Covid-19 e della proposta HERA della Presidente von der Leyen. Al livello nazionale: modificare le tasse di successione e introdurre un’eredità universale per tutti i giovani; orientare l’uso del digitale alla giustizia sociale; promuovere l’impatto delle università sulla giustizia sociale modificandone la valutazione. Al livello territoriale: costruire, territorio per territorio, consigli del lavoro e della cittadinanza che affianchino i consigli di amministrazione; cambiare radicalmente il metodo di costruzione e attuazione delle politiche pubbliche in modo place-based rivolto ai luoghi, partendo dalla costruzione di comunità educanti per la scuola, per la salute, per la mobilità. E altro ancora. Non ci siamo fermati alle proposte, ma lavoriamo per la loro messa a terra.
Ci proponiamo dunque di introdurre contenuti e di usarli. Ci prefiggiamo anche di cambiare progressivamente, come ha invitato a fare Anthony Atkinson, il senso comune delle parole. Perché senza cambiare il senso comune le politiche sono inutili, non passano. E’ un impegno che esercitiamo culturalmente attraverso tutti i canali e le grandi reti di rapporti, soprattutto con le associazioni giovanili – ad esempio, abbiamo realizzato 136 ore ininterrotte, ovvero 16 giorni di webinar in cui sono passate 200mila persone, e dove 13mila persone hanno speso in media un’ora. Trasmettere contenuti, cambiare il senso comune, ma anche sperimentare operazioni sui territori. Costruire le officine municipali – una risposta alla diffusione del lavoro a distanza – a Napoli, realizzare i consigli del lavoro e delle cittadinanze in Emilia Romagna, lavorare con la Chiesa Valdese in Piemonte. L’altro giorno ad esempio parlavo con una rete di 50 associazione siciliane. Lavorare con organizzazioni che possono fare, non solo influenzare.
E per quanto riguarda enti più prettamente politici – o esecutivi?
Si, certo, per ogni proposta abbiamo individuato anche gli interlocutori istituzionali, a livello del governo nazionale o di amministrazioni territoriali. Lo abbiamo fatto non solo sulle nostre proposte strutturali, ma su nuove proposte indotte dallo scoppio della pandemia. Appena esplosa, abbiamo fatto notare che le misure di emergenza escludevano circa 6,5 milioni di lavoratori, irregolari e precari; abbiamo chiesto l’introduzione di un reddito di emergenza, ottenendo uno strumento che non è efficace come quello che chiedevamo, ma che comunque aiuta attualmente all’incirca 750.000 persone, che sarebbero state escluse da ogni aiuto, e che avremmo spinto nelle mani dell’usura. Come ForumDD, siamo in un gruppo di lavoro del Ministero dell’Università e della Ricerca, insieme ai rettori delle università, e abbiamo appena ottenuto un’importante modifica nella valutazione del loro impatto sociale. Con l’approvazione di Next Generation EU, abbiamo iniziato una pressione costante sul governo, sin dal luglio 2020, perché il Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia (circa 209 miliardi di euro) sia disegnato secondo i principi, gli obiettivi, il metodo in cui crediamo.
Dato lo scenario attuale in Italia che cosa pensate di fare con Forum? Ha pensato di trasformarlo in un partito?
Ad ottobre abbiamo approvato un documento politico in cui abbiamo scritto cosa NON vogliamo diventare: non vogliamo diventare un partito, perché vogliamo produrre contenuti, visione e influenzare. Non intendiamo influenzare i partiti esistenti, perché ne abbiamo sperimentato l’insuccesso. Abbiamo invece deciso di accrescere la pressione su singoli membri degli esecutivi, più sensibili, e di rafforzare l’impegno formativo. E, ancora, di impegnarci per formare e promuovere candidati progressisti nelle prossime elezioni amministrative – probabilmente a giugno o a settembre. Stiamo portando avanti una sperimentazione con una piccola ma creativa associazione di politologi e attivisti già esistente, che si chiama “Ti candido“: l’idea è formare e promuovere candidati affini alle idee che abbiamo, dandogli strumenti di metodo e di merito con cui potersi candidare e aiutandoli nella ricerca di mezzi finanziari. Questo è il nostro massimo engagement dal punto di vista del processo elettorale.
Abbiamo infine un rapporto con tutti i parlamentari, di ogni parte, anche di destra; in particolare, con un gruppo di parlamentari progressisti, organizzati in una piccola associazione che si chiama “Movimenta”. Sono parlamentari che si sentono lontani dai partiti esistenti e trovano forza nel lavoro fra loro e con noi e altre associazioni o reti. Si tratta di sperimentazioni, operazioni pilota per aumentare la capacità di diffusione delle idee di cambiamento.
Oggi si nota, su scala continentale, una convergenza su una linea progressista nei grandi centri urbani. Tutte le grandi città privilegiano dei candidati sindaci abbastanza simili dal punto di vista del posizionamento politico, sia sulle questioni delle diseguaglianze, che le questioni ecologiche e la questione del ruolo d’azione pubblica. Questo fenomeno è altrettanto sorprendente perché è verificabile sia a Budapest, che a Varsavia, Milano, Barcellona, Parigi… Come si può pensare di strutturare un progressismo alternativo che non sia portato avanti dalle grandi città?
Da questo punto di vista, l’Italia, per le ragioni che ho detto, si trova in una posizione migliore di altri paesi. Il progressismo – non limitato a quello urbano – può avere opportunità anche nelle aree rurali e interne del paese, esprimendosi con figure assai interessanti, giovani, professioniste, donne. Non è un fenomeno di sistema, ma neppure circoscritto. Tocca la Liguria governata dalla destra, le montagne dell’Appennino tosco-emiliano, le aree interne della Sicilia, la difficilissima Calabria, le zone di confine del Friuli Venezia Giulia. Ho citato queste zone non a caso, perché l’Italia è un paese rugoso e molto diverso dalla norma europea. Assomiglia all’Austria, e a pochi altri paesi.
Da questo punto di vista dunque, esistono opportunità: non a caso ho ritenuto, nel mio ruolo da Ministro per la coesione territoriale durante il governo Monti, di lanciare la Strategia per le aree interne nel 2012, di farne uno dei capisaldi del governo. Oggi l’Italia ha 72 aree-progetto che organizzano 1.050 comuni, coprendo il 17% del territorio nazionale, due milioni di abitanti. Non abbiamo seguito la strada errata di spingere questi comuni a sciogliersi e fondersi: invece, li abbiamo spinti a costruire strategie comuni, condividendo servizi, scegliendo fra i Sindaci un leader, costruendo una visione di lungo termine attraverso il confronto con cittadine e cittadini. Ne sono spesso emerse strategie visionarie miranti alla valorizzazione, a fermare il deflusso demografico, a ridare riconoscimento e ruolo ai territori. Quindi l’Italia ha una chance sia rispetto alla crisi climatica, sia rispetto all’emergenza e agli effetti di lungo termine della crisi pandemica, che tendono a ridisegnare la gerarchia di valori, a sospingere fuori dalle città giovani coppie, gruppi di creativi, tecnici e nuovi-contadini e nuove-contadine. Non è un caso che un architetto italiano come Stefano Boeri e altre archistar parlino sempre più di aree rurali, pensino in termini rurali. E la cosa importante è che le grandi intelligenze non trovino territori pronti a essere colonizzati, ma territori vivaci che esprimono classi dirigenti. Quindi l’Italia ha una chance significativa di scalzare la deriva autoritaria dai territori rurali e farne luogo di sviluppo giusto e sostenibile.
Non dico che ciò stia già succedendo, ma è tuttavia un processo in corso, su cui non a caso si guarda all’esperienza italiana in tutta Europa e nell’OCSE. Come non è casuale che ForumDD abbia scelto di lavorare, oltre che sui consiglieri comunali delle grandi città, anche sui sindaci delle piccole. Perché l’Italia, anche sul piano dell’identità nazionale, non è rappresentata dalle grandi città – fra loro così profondamente diverse e difficilmente comunicanti – ma dalla sua rugosità, dalle specificità, comuni diversità e comuni opportunità dei suoi territori interni. Torino e Palermo faticano a dialogare, a differenza delle Madonie 18 e della Val Maira 19, perché queste ultime avvertono simili problemi e simili aspirazioni. Hanno una cultura molto più simile di quanto non l’abbiano i rispettivi capoluoghi. Questa è una carta del mio paese. Le condizioni oggettive esistono. La piattaforma istituzionale anche. Sta alla classe dirigente nazionale coglierlo.
Note
- Dal 17 gennaio 1995 al 18 maggio 1996
- Dal 29 aprile 1993 al 13 gennaio 1994
- Dal 16 novembre 2011 al 21 dicembre 2012, in cui Fabrizio Barca ha ricoperto la carica di Ministro per la coesione territoriale
- Fabrizio Barca, statistico ed economista, è oggi coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità, dopo aver ricoperto una serie di importanti ruoli istituzionali, dalla Banca d’Italia all’OCSE, dal Ministero Economia e Finanze alla carica da Ministro per la coesione territoriale nel governo Monti
- Inizialmente nato all’OCSE nel gennaio 1995 come servizio delle politiche territoriale (TDS), si è poi formato come Comitato delle politiche territoriale, offrendo a Fabrizio Barca la presidenza. Per ulteriori informazioni, si legga l’articolo di Mario Pezzini (Direttore del Centro di Sviluppo dell’OCSE e precedentemente a capo della Divisione Politiche territoriale in carica del Comitato).
- Enrico Giovannini, oggi a capo dell’associazione ASviS e da pochissimo Ministro delle Infrastrutture con il governo Draghi, è stato precedentemente Direttore del Dipartimento di Statistica dell’OCSE. Il quel periodo, lanciò diverse iniziative, fra cui una serie di forum in giro per il mondo (OECD World Forum on “Statistics, Knowledge and Policies” – il primo a Palermo, nel 2004), discussioni che promuova l’utilizzo di nuovi indicatori e la condivisione delle best practices e delle strategie di valutazione del progresso e benessere dei vari paesi. Giovannini è stato membro della Commissione Stieglitz-Sen-Fitoussi del 2007, ripresa poi nel 2013 dalla sua succeditrice al Dipartimento di Statistiche Martine Durand.
- Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. La Commissione Stieglitz-Sen-Fitoussi (da Joseph Stieglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, celebri economisti), lanciata nel 2004, è stata seguita da un Alto Gruppo di Esperti basato all’OCSE – l’High Level Expert Group on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. Le raccomandazioni della Commissione del 2004 sono poi state utilizzate ed hanno dato vita a diverse iniziative OCSE: la ripresa dell’High Level Expert Group nel 2013 con Martine Durand, l’iniziativa “Better Life Initiative” nel 2011, l’iniziativa UE “PIL e oltre” nel 2009
- The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights – Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale. Accordo promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1994 al fine di standardizzare la tutela della proprietà intellettuale.
- Cfr. P. Rosanvallon, Pensare il populismo, Roma, Castelvecchi, 2011.
- Cfr. C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Roma-Bari, Laterza, 2018.
- Ferdinand Pecora è stato avvocato e magistrato statunitense. Negli anni 1930, in quanto capo consigliere della commissione del Senato degli Stati Uniti, diresse le investigazioni sulle attività bancarie di Wall Street e sulle pratiche di brokeraggio. Interrogò personalmente uomini ricchi e potenti (Richard e George Withney, Thomas W. Lamont), mettendo alla luce una serie di pratiche irregolari inerenti ai mercati finanziari, che favorivano i ricchi a spese dei comuni investitori. A seguito, il congresso degli Stati Uniti decise di emanare il “Glass-Steagall Act” ed il “Securities exchange Act” del 1934.
- Filosofo e storico anglo-ghanese della cultura africana, negli anni si è occupato di filosofia del linguaggio, razzismo, identità e teoria morale. Tra le sue pubblicazioni: Color conscious – The political morality of race (1996), Cosmopolitanism – Ethics in a world of strangers (2006), The honor code – How moral revolutions happen (2010).
- La differenza tra ragionevolezza e razionalità e’ introdotta da John Rawls ne La teoria della giustizia e nelle opere che seguono (in particolare, in Liberalismo politico). Per Rawls, la scelta dei due principi fondanti della società giusta e equa – il principio di eguali libertà fondamentali e il principio di differenza – si basa sull’inclinazione razionale e ragionevole degli individui sotto il velo di ignoranza. La teoria della giustizia sociale di Amartya Sen, a cui lo scrivente aderisce, presentata ne L’idea di giustizia, si muove da una critica de La teoria della giustizia di Rawls; in particolare, Sen critica l’accezione rawlsiana ristretta di “razionalità’”, definita sulla base di comportamenti eccessivamente egoistici, prediligendo così il lato “ragionevole”. Questo giudicato da Sen fondamentale dal momento in cui gli individui sono portati a prendere in considerazione i punti di vista altrui; egli propone così un sistema più inclusivo e meno “freddo” di quello rawlsiano, in cui la ragionevolezza e’ definita, per l’appunto, come “la capacità di difendere [un’idea] in una discussione pubblica strutturata in modo libero e aperto”. Per un approfondimento sulla teoria della giustizia di Sen e critica di Rawls, si può vedere l’articolo dello stesso Fabrizio Barca.
- Nel 2005, Beppe Grillo propone dal suo blog d’adozione del social network Meetup, per comunicare e coordinarsi a livello locale. Nascono così i primi 40 meetup Amici di Beppe Grillo, al fine di “stare insieme e condividere idee e proposte per un mondo migliore”. A mano a mano, ci creano dei gruppo di lavori tematici su diversi argomenti (“Tecnologia e innovazione”, “Studio-moneta”, questioni ambientali…). Nel 2006, nasce il meetup 280 che, raccogliendo cittadini, organizer e altri forum, ha lo scopo di promuovere progetti concreti. Sarà quest’ultimo a proporre il progetto di liste civiche in democrazia diretta e costruire il soggetto politico attraverso una serie di raduni nazionali autogestiti (Lucca, Parma, Reggio Emilia, Salerno). La capacità di autogestione dell’iniziativa non sarà apprezzata da altri gruppi Cinque Stelle – soprattutto da Grillo e Casaleggio. Nel 2009, il gruppo 280 porterà un documento per chiedere la nascita di un movimento politico democratica: tale istanza prima accettata da Grillo sarà poi ignorata.
- Si veda Lorenzo Urbano, La condivisione è un obbligo. Prassi politica e dissenso nel MoVimento 5 Stelle in Toscana in “Meridiana” n. 90, 2017
- Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
- I messaggi principali sono riassunti, in lingua italiana e inglese, in un Documento elaborato e approvato dall’Assemblea del ForumDD.
- Zona montuosa della Sicilia settentrionale nei pressi di Palermo
- Valle alpina in provincia di Cuneo, Piemonte