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Cosa pensa dei tentativi recenti di scrivere una storia europea? Penso in particolare a Europa : notre histoire, che è uscito nel 2018 in Francia e in Germania e che ha messo insieme storici europei proponendo loro di scrivere su una moltitudine di soggetti senza una linea prestabilita, tracciando così una storia complessa dell’Europa.
Purtroppo non ho seguito questi progetti 1. E non ho partecipato a una storia dell’Europa sin dai tempi di un’impresa del genere, condivisa con Maurice Aymard e con Perry Anderson, negli anni ’90 – allora avevo abbandonato il progetto perché la casa editrice Einaudi era stata acquistata da Berlusconi.
Tuttavia penso che forse possiamo riflettere sulla possibilità di scrivere una storia dell’Europa come un tassello intermedio di fronte ai problemi che pone la storia globale. Nel caso dell’Europa, infatti, esistono delle relazioni dense tra gli attori e gli spazi, cosa che non avviene quando si tenta di scrivere una storia globale. Ma penso ci siano dei rischi che vanno evitati in entrambi i casi. Il primo, forse il più ovvio, è quello della teleologia, cioè l’idea che ci sia una sorta di fine verso cui la storia tende. Questo è un problema che si pone non solo per la storia globale o d’Europa, ma per qualunque storia.
Credo che il problema si ponga a partire dalle fonti. Ho scritto un saggio, Il filo e le tracce, sulla coppia etica-emica 2. Possiamo dire che le domande che poniamo alla storia d’Europa sono delle domande in questo momento etiche, legate al livello dell’osservatore, ma il problema è ottenere delle risposte emiche. Sono partito da questa dicotomia, proposta dall’antropologo, linguista e missionario protestante Kenneth Pike, ma l’ho riformulata perché mi pareva che nella versione di Pike vi fosse un elemento quasi di positivismo un po’ basilare: riconduce il livello scientifico al livello etico, ma non vede il processo. Secondo me invece bisogna guardare al processo.
Per questo, ho riletto Pike partendo da Marc Bloch 3 – che in realtà si era posto lo stesso problema anche se usando dei termini diversi, per esempio nel saggio che ha scritto alla fine degli anni ’30, in cui si chiedeva se si poteva utilizzare il concetto di classe nel Medio Evo.
Lo stesso problema secondo me si pone per la storia d’Europa. Noi intanto partiamo dall’idea che esista un’entità a un certo livello che chiamiamo Europa, cosa che esisteva ad altri livelli prima e ancora prima non esisteva. Non possiamo quindi parlare di Europa al tempo dell’Impero Romano. Ciò non toglie che noi partiamo da questa idea. Ovviamente esistono degli elementi che hanno reso possibile la costruzione in corso – molto fragile – dell’Europa odierna, che rinviano anche all’Impero Romano (l’unità linguistica, il latino), ma anche qui bisogna evitare la teleologia. C’è questa specie di confronto con delle domande che sono necessariamente anacronistiche per cercare di ottenere delle risposte che non lo sono, o lo sono il meno possibile.
Nel mio saggio ho messo una frase di Marc Bloch in cui dice “la chimica aveva il grande vantaggio di rivolgersi a realtà incapaci, per loro stessa natura, di darsi da sole un nome“. Al contrario, quando facciamo storia, le parole cambiano, cambia il significato, cambia il contesto, cambiano gli attori. Questo tipo di domande si pongono specialmente nel caso di una storia d’Europa.
Parlando di questi elementi, secondo lei, dal momento che si potrebbe parlare di un’Europa come elemento storico, quali sarebbero gli elementi storici, culturali e geografici che comporrebbero questa realtà attuale che è l’Europa?
Questa è una bella domanda, ma qui torniamo al problema, di qui parlavo prima, dell’anacronismo. Non c’è dubbio, a mio parere, che l’Europa si sia costruita contro il Turco, cosa che a mio parere non può essere utilizzata come argomento oggi per dire che la Turchia non possa far parte dell’Europa. È un caso, abbastanza estremo se si vuole, del rapporto complicato che esiste tra una realtà storica passata e una realtà storica in costruzione. A mio parere sarebbe illegittimo usare la storia dell’Europa come si è venuta costruendo per tracciare dei limiti oggi, perché credo che il termine identità sia un termine politico che non ha nessun valore analitico. L’identità europea non esiste, come non esiste l’identità francese, l’identità italiana, l’identità ebraica, eccetera. Sono dei termini fittizi che vengono usati come armi politiche. So bene che papa Benedetto XVI – mi pare – ha parlato di identità cristiana europea, ma queste sono costruzioni politiche, cosa dovremmo fare delle comunità non cristiane che vivevano in Europa? Questa del Turco – uso questo termine con la T maiuscola – è un’idea su cui si è costruita l’idea di Europa, ma questo è diventato un elemento della costruzione nel momento in cui è diventato consapevole.
Poi ci sono degli elementi che invece sono entrati a far parte della costruzione ma che risalivano a un passato più antico, come le lingue, come il latino come lingua da cui sono nate le lingue romanze (ma le lingue non romanze? Nessuno penserebbe a un’Europa romanza, anche se, ma dovrei controllare, ho l’impressione che Kojève abbia detto qualcosa di interessante – ma inaccettabile – a proposito di questo, qualcosa che si riferiva a una sorta di Europa romanza alla fine degli anni 50, ma dovrei controllare). Questo ci ricollega al rifiuto del teleologismo: non è che questi elementi fossero preordinati verso un fine. L’Europa si costruisce – e in questo momento è sempre più fragile, una realtà dolorosa di cui dobbiamo renderci conto, come ci mostrano le elezioni europee, che sono una minaccia per il futuro dell’Europa molto seria.
Ha parlato dei problemi che pone la storia globale. Pensa ci sia un modo di adeguare la microscala – che ha rappresentato una parte importante della sua opera – alla scala globale, magari passando per una scala continentale?
Ho scritto un saggio – uscito solo in inglese – che affronta esattamente questo tema: Micro history and world history 4. È un saggio che ha due parti, la prima parte è una rilettura di un saggio di Francesca Trivellato, che si chiede se la microstoria italiana possa dare un contributo alla storia globale, rispondendosi sí. Trivellato parte da questa domanda e dà una risposta positiva. Io parto dalla risposta di Francesca Trivellato e cerco di andare oltre, cercando cioè di costruire una sorta di genealogia storico-teorica della microstoria basata sull’idea di esperimento mentale. La genealogia implica dei rapporti diretti, ad ogni anello della catena. Comincia con Hobbes, poi c’è Vico. Il rapporto tra Hobbes e Vico non è stato preso in considerazione neanche da Croce quando ha scritto il suo libro su Vico, è stato accennato molto rapidamente da uno studioso americano che l’ha tradotto in inglese negli anni ’40, che si chiama Fish. C’è quest’idea dell’esperimento mentale: Hobbes, Vico, Marx (che nel Capitale fa una lunga nota su Vico), Labriola, Croce, Gentile, Collingwood, che con la sua idea di re-enactment secondo me è l’ultimo anello di questa catena. Per me, la microstoria è un esperimento mentale, proprio perché ha un elemento artificiale legato alla costruzione dell’oggetto. In questo processo di costruzione, mi rifaccio a Croce che dice “ogni storia è storia contemporanea” e dico “ogni storia è storia comparata” perché implica innanzitutto una comparazione tra il presente del ricercatore e il passato.
Tuttavia, la microstoria – in quanto storia e analisi di casi – pone inevitabilmente un problema di generalizzazione. Si tratta di un paradosso, perché credo profondamente che la microstoria, soprattutto per le prospettive che apre in storia comparata, offre la possibilità di fare una buona storia globale. Tempo fa, alla biblioteca Angelica di Roma, avevo incontrato un libro, uscito all’inizio del ‘700, che è un parallelo tra i riti indiani e i riti ebraici testimoniati dalla Bibbia, firmato da Lac e tre asterischi. È un libro straordinario, con illustrazioni e incisioni: c’è una delle prime rappresentazioni europee della vedova, al rogo, dopo la morte del marito. Affronta per esempio il tema della circoncisione, che troviamo in Paesi diversi. È un ottimo esempio di storia comparata, che mette insieme un approccio comparato, microstorico e, in ultima istanza, globale. Di fronte a questo triplice approccio, ho l’impressione che una scala continentale, intermedia, limiterebbe di molto le possibilità di comparazione. È per questo che non mi ha mai attratto molto.
Lei ha provato in parte della sua opera a scrivere una storia dal basso, cercando soprattutto di ridare una voce ai muti della storiografia ufficiale, un metodo che ha sconvolto la nostra concezione delle credenze popolari. Pensa che questo approccio, questa empatia che si mostra quando si considera chi non ha parola, manchi alle élite europee nei confronti dei popoli europei? E secondo lei potrebbero imparare dallo sforzo di empatia mostrato da storici come lei?
Bella domanda, a cui rispondo con un’obiezione. Penso che la parola empatia vada scartata e che si debba parlare di filologia. L’empatia non è sufficiente, dà per scontata una trasparenza che non esiste. L’idea invece di Vico, che bisogna decifrare il linguaggio, in senso lato, delle testimonianze, mi sembra molto più feconda.
Però in qualche modo ho ripercorso questa traiettoria, quello che dico adesso è il risultato della mia esperienza. Sono partito dalla volontà di raccontare la voce delle vittime, e come ho scritto c’era anche un elemento autobiografico, cioè i miei ricordi di bambino ebreo durante la guerra.
Però a un certo punto, dopo anni, mi sono reso conto che accanto a questo sforzo di contiguità emotiva con le vittime c’era una contiguità intellettuale con l’inquisitore e ho scritto un saggio, uscito nella raccolta Il Filo e le Tracce, che si chiama L’inquisitore come antropologo. In esso, ho cercato di riflettere su questa contiguità intellettuale, nel senso che mi sono accorto che tra il mio sforzo di comprendere le motivazioni delle imputate e degli imputati e quello che facevano gli inquisitori c’era una convergenza, anche se io non emetto una sentenza.
C’è un caso che io analizzo in I Benandanti in cui non c’è l’inquisitore, ma c’è qualcuno che lavora sui documenti dell’inquisitore, il vescovo di Bressanone, il grande filosofo Niccolò Cusano, che in un sermone che era verosimilmente in tedesco ma di cui esiste solo la versione latina parla e analizza un processo contro due vecchie contadine della Val di Fassa, e le analizza con una perspicacia straordinaria. Si tratta del caso più impressionante che abbia incontrato di distanza culturale, questo grande filosofo che analizza le credenze di due vecchie.
E trova estensioni contemporanee a questo sforzo filologico che ha fatto come storico?
Le rispondo con un aneddoto. Ero a Mosca, dove dovevo fare una conferenza, e mi arriva una telefonata di qualcuno che si presenta come membro di un gruppo che si occupa della storia dei gulag. Avevo già sentito parlare di loro, dei loro sforzi per raccogliere i nomi delle vittime, per quanto era possibile, e per i diritti civili in Cecenia. Volevano invitarmi a un incontro, io risposi che non capivo a che scopo. Mi risposero che avevano letto il mio testo, in inglese, L’inquisitore come antropologo, e volevano discuterne con me. Si chiedevano se fosse possibile usare questa lettura obliqua delle fonti anche nel caso dei processi dell’era staliniana, cioè processi in cui uno pensa di trovare soltanto preconcetti, il pregiudizio dei giudici. Io penso che in effetti questo sia possibile.
Quando ho iniziato a lavorare sui processi di inquisizione, (per esempio c’è un libro su quei processi, The Witch-Craze di Trevor-Roper), ci si interessava ben poco agli imputati: gli storici si giustificavano dicendo che le fonti erano prodotte dai giudici, le risposte degli imputati dovevano necessariamente essere falsificate. Al contrario, io penso che si possa sempre cogliere qualcosa che non è controllato da chi produce il testo. Questa è una cosa che io ho formulato in forma generale, cioè che qualunque documento non può mai essere controllato al 100%: c’è sempre qualcosa che sfugge.
Cioè?
Vi rispondo con un altro esempio. Ho lavorato su uno scritto di un gesuita francese, Charles Le Gobien, pubblicato nel 1701, che si chiama Histoire des isles marianne. Sfogliandolo mi sono imbattuto in un arringa che Le Gobien riferisce, in cui Urao, il capo di una tribuna indigena, parla contro gli europei che hanno invaso le isole Marianne. C’è questa accusa contro gli invasori. Sono partito dall’idea che questo testo fosse una ricostruzione e quindi ho cercato di capire quali fossero gli elementi che la consentivano. Uno è certamente l’Agricola di Tacito, dove c’è un’arringa contro l’Impero Romano da parte dei britanni colonizzati, in cui si dice che “la distruzione che fanno la chiamano pace”, e mi sono ricordato che durante la guerra in Vietnam, nella Piazza dei Cavalieri a Pisa, davanti alla scuola Normale, dove ero stato studente e poi sono tornato come professore, avevano messo dei lenzuoli con scritta questa frase di Tacito in latino riferita agli americani: “la distruzione che fanno la chiamano pace”. Pezzo per pezzo, ritrovavo gli elementi che Le Gobien aveva usato per costruire questa arringa.
Però c’è una nota a piè di pagina, al punto in Urao accusa gli europei di aver portato insetti che portano malattie, in cui si dice che l’idea è assurda. C’è improvvisamente una presa di distanza, su un particolare minimo, tra chi propone l’arringa e il contenuto dell’arringa, come un’incrostazione di quello che io ritengo un discorso che sarà stato riferito a Le Gobien. Il testo era fuggito al suo creatore.
Ricordo che questa conferenza era ancora inedita e l’ho presentata a Londra, alla School of Oriental and African Studies, davanti a un pubblico estremamente eterogeneo dal punto di vista etnico. Dopo aver citato un lungo passo di questa arringa di Urao, è venuto un giovane africano che mi ha detto “magnifica”. Il testo agiva ancora, ed è sconvolgente! Questo a proposito dell’impossibilità di controllare interamente un testo.
Nel suo I Benandanti ha esaminato un rituale praticato nel Friuli settentrionale in epoca moderna: i Benandanti sostenevano di combattere le streghe in certe notti per garantire la fertilità della terra. Nel corso del libro, lei menziona pratiche simili in Livonia. Mircea Eliade disse di aver individuato pratiche simili in Ungheria e Romania. Per lui, come per altri pensatori vicini alla Nuova Destra Europea, era un segno della persistenza di una cultura pagana che faceva parte dell’identità europea. Come risponderebbe a loro?
Per quanto riguarda i Benandanti non parlerei di pratiche, ma di pratiche descritte, e propongo un confronto tra questi racconti che i Benandanti fanno in Friuli, le lotte per la fertilità contro le streghe, e un processo molto anomalo, contro un lupo mannaro della Livonia. Questo confronto è stato criticato da più parti. Da parte mia, avevo tentato piuttosto un approccio strutturale, mettendo in relazione la morfologia dinamica di Goethe e la storia.
Io non credo tuttavia che le pratiche descritte dicano qualcosa di specificatamente europeo, al contrario. La mia prospettiva non è europea, ma euroasiatica. Ma vorrei sottolineare che questa prospettiva non ha niente di politico. Non ha in questo momento nessuna attualità.
Alla fine del libro Storia Notturna, presento quelle che chiamo congetture euroasiatiche, sulla possibile circolazione di questi temi dalle steppe dell’asia centrale all’Europa. La morfologia ci dice che ci sono delle somiglianze impressionanti. Io ho citato in una nota di quel libro un passo de l’Anthropologie structurale 5 di Lévi-Strauss che mi aveva colpito enormemente. Lévi-Strauss ha incarnato la figura dell’avvocato del diavolo, nel senso che poneva delle domande inquietanti, precisamente nel suo attacco alla storia: affermava che l’idea della rappresentazione doppia, che si trova nelle culture dell’Alalska e in Cina, è il momento in cui scopre lo strutturalismo. Per lui, anche se le costruzioni più avventurose del diffusionismo dovessero essere provate, rimarrebbe sempre il problema di capire la persistenza. Perché la diffusione e la persistenza pongono dei problemi che non possono essere verificati. Questo passo mi è sembrato straordinario e l’ho citato per intero,
La persistenza dei miti e delle pratiche pone un altro problema, ancora più profondo della loro diffusione. Infatti sono convinto che il diffusionismo è una teoria debole: la diffusione è un fatto, quando c’è, ma non dice niente della persistenza. Quello che è appassionante è capire come pratiche o credenze sono state riprese ed eventualmente rielaborate. Questo il diffusionismo non ce lo dice.
Recentemente (nel 2019, NdR) ha ritirato la sua partecipazione al Salone del libro di Torino. Come giudica la situazione politica italiana oggi?
Io ho ritirato la mia presenza, poi la situazione è cambiata e sono tornato 6. Giudico questa situazione molto preoccupante, purtroppo l’Italia non è un caso isolato. Siamo di fronte ad un caso di fascismo rielaborato. Ci sono delle differenze rispetto al fascismo storico, ma come ho detto alcuni anni fa in un’intervista, penso che il fascismo abbia un futuro: una constatazione amara, ma che purtroppo ha trovato una conferma nella storia più recente.
Le discussioni sull’antifascismo non devono rimanere delle polemiche sterili. La casa editrice vicina a Casapound si è dichiarata fascista, un fatto è esserlo e un altro è dirlo, lì si è commesso un passo falso. Poi ha affermato che l’antifascismo sia il vero problema della società italiana, quindi un’affermazione che è andata al di là di quello che doveva essere taciuto. Penso che sia un problema molto serio, ed episodi di razzismo sono ormai molto frequenti nella cronaca italiana.
Cosa aspettarsi dal futuro, dopo le elezioni europee?
L’Europa è molto fragile. Dal mio punto di vista, invecchiando si perde la capacità di capire la realtà in movimento, me ne rendo conto continuamente. Ma io mi chiedo se qualcuno sarebbe stato in grado di immaginare una sequenza come quella aperta dal Brexit: neanche un romanziere dotato di grande immaginazione avrebbe potuto congegnare una storia così.
In Francia gli intellettuali neonazionalisti attaccano la storia cosiddetta “globale”. Ha conosciuto nel passato attacchi simili lavorando sulla microstoria? E come rispondere in maniera efficace a queste letture semplicistiche?
Molto semplicemente. Se noi inseriamo la storia della storiografia in una prospettiva lunga, la storia dal punto di vista nazionale è una delle tante possibilità. Quindi sarebbe assurdo identificarla come LA Storia. Nessuna di queste etichette – di questi momenti storiografici – è un sintomo di qualità: la cattiva microstoria è cattiva storia, come la cattiva storia nazionale è cattiva storia. Una delle ricchezze della scienza storica viene dalla sua diversità e, per questo, quello che va evitato è che una di queste etichette si identifichi con la Storia.
E non pensa che la storia strutturalmente nazionale possa evitare di presentarsi come La Storia?
La storia nazionale che essenzializza le identità – francese o italiana – non può che confondersi con la storia, perché pecca due volte, di etnocentrismo e di anacronismo. Le identità non sono fisse o eterne, sono una costruzione. È questo che è interessante – e possibile – analizzare, e in questo senso è possibile fare una storia di qualità che ponga la questione delle nazioni. Non è sempre facile. Prendete il caso dell’Italia: la costruzione di uno stato italiano unitario è più tarda. Di fronte al policentrismo della realtà italiana, la costruzione di una prospettiva unitaria è stata molto più difficile, e di conseguenza è un processo molto più difficile da reinterpretare storicamente.
Naturalmente nel caso della Francia la cosa è diversa. Si identificano fin da subito certi elementi della costruzione: nos ancêtres les gaulois, “i Galli nostri antenati”, per esempio. La cattiva storia nazionale vuole fare di questa affermazione una categoria analitica. Invece, io credo che bisogni metterla a distanza per studiarla e comprendere cosa ci dice del processo di costruzione dell’identità nazionale.
Nel suo Paura, reverenza, terrore : cinque saggi di iconografia politica, prova a sviluppare una teoria delle immagini, del perché alcune immagini sono particolarmente efficaci, in particolare quando suscitano terrore o riverenza. Perché oggi secondo lei l’Europa manca di immagini o di simboli forti? Colpisce molto il fatto che l’Europa esista a livello istituzionale, culturale fino ad un certo punto, e per niente a livello iconografico.
Sarebbe divertente cercare l’equivalente di Marianna. Forse la figura di Europa? Il ratto di Europa funzionerebbe poco. Dobbiamo guardare al contesto: c’è una presenza dell’immagine nella vita quotidiana che non ha nessun paragone nel passato. C’è una crescita dell’immagine incredibile, tutti scattano fotografie, inviano immagini, ne ricevono. C’è un’inflazione delle immagini nel senso in cui si parla di inflazione della moneta, è come se andassimo come raccontano nelle storie della Germania degli anni ’20 con un carretto pieno di immagini svalutate.
Per questo io ho adattato alle immagini la battuta di Nietzsche quando era ancora filologo e non filosofo, che nella sua leçon inaugurale dice: la filologia è l’arte di leggere lentamente. Io penso si debba recuperare una lettura lenta delle immagini. Che naturalmente è quello che la realtà rende particolarmente difficile, perché siamo stimolati costantemente dalle immagini. Allora l’esercizio che ho provato a suggerire nel libro è riscoprire il senso politico delle immagini tramite un’osservazione attenta. Ritornando così alla filologia nel senso che le dava Vico, cioè uno studio sia delle immagini che dei testi.
Note
- L’intervista è stata realizzata nel settembre 2019 e pubblicata originariamente in francese sul sito di Le Grand Continent. La riproponiamo qui ora, finalmente tradotta in italiano
- In storia, l’emica si riferisce al tipo di ricerca che guarda i gruppi o i fenomeni dall’interno, e l’etica a quella che li guarda dall’esterno. Questa dicotomia, originariamente utilizzata in linguistica, si estende a diverse scienze sociali.
- In particolare nelle sue riflessioni metodologiche pubblicate con questo titolo: Apologia della storia o il Mestiere dello storico
- Pubblicato nella Cambridge World History (2015), un volume curato da Sanjay Subrahmanyam, Jerry Bentley e Merry Wiesner-Hanks
- Claude Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Paris, Plon, 1996 (1958).
- ASSANDRI Fabrizio, Salone del Libro, dopo Ginzburg e Wu Ming anche i “no” di Anpi e Zerocalcare, La Stampa 7 maggio 2019