Qualche anno fa lo scrittore Jonathan Franzen, ambientalista di lungo corso, ha scritto un libretto sulla lotta climatica che ha sollevato numerose critiche. What if We Stopped Pretending? In italiano tradotto con il titolo E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica (Einaudi 2020). Non è difficile immaginare le ragioni delle polemiche. La suggestione di Franzen va a contestare alla radice l’utilità dell’intero investimento politico, economico e culturale su cui una parte di establishment progressista, mondo intellettuale e opinione pubblica ha fondato la propria ragione di esistenza. Ossia, la formula politica che invoca e ha invocato negli anni la necessità di prendere misure radicali per abbattere le emissioni e salvare il pianeta dalla catastrofe.
Franzen afferma che tale formula aveva senso trent’anni fa, quando ancora si poteva agire ed ottenere dei risultati in tempo, mentre ormai non c’è più nulla da fare – perché è impossibile raggiungere gli ambiziosi obiettivi climatici. Una posizione che rappresenta un terremoto esistenziale per il mondo ambientalista. Non perché la parola di Franzen sia verità. Ma perché, da un lato, trattasi di un approccio strumentale a qualsivoglia posizione conservatrice («se non si può più fare niente, non facciamo nulla»); dall’altro, perché è una suggestione che sempre più persone, volenti o nolenti, riconoscono come piuttosto convincente. Non è un caso che di recente il nuovo capo dell’IPCC abbia voluto rassicurare l’opinione pubblica sulla gestibilità – seppure con maggiori rischi – di un aumento della temperatura oltre il grado e mezzo, inevitabile cambio di passo nell’approccio comunicativo dettato dall’impossibilità di raggiungere i target.
Il pessimismo climatico, di cui Franzen è in parte espressione, poggia su due architravi principali: la frammentazione globale e una certa interpretazione della natura umana.
Quando qualcuno afferma che l’Italia o l’Europa da sole non possono incidere a livello planetario, perché solo un’azione congiunta globale può avere efficacia – ma i paesi emergenti vogliono, anzitutto, energia e benessere, cose che l’occidente ha già avuto – gli ambientalisti tendono a liquidare tali discorsi come meri alibi. Il che può essere anche vero, ma non è accusando gli scettici di fare il gioco dei conservatori che il tema si risolve. Il punto è che la battaglia ambientalista si scontra con un panorama internazionale frammentato in Stati, ognuno con i propri interessi, nonché con i propri processi democratici. Vi è in merito una considerazione tanto banale quanto definitiva: il problema dei movimenti verdi è che partecipano a una competizione democratica su scala nazionale, proponendo policy inevitabilmente nazionali che nulla possono fare per un problema che è globale.
E dire «intanto iniziamo noi» non è granché convincente per canalizzare consenso; dal momento che il leitmotiv di salvare il pianeta – ammesso si possa fare pure a livello globale – non può funzionare, in quanto la vittoria del partito verde «X» in Italia o Francia non influisce minimamente su scala planetaria, è minata alla radice la stessa ragione d’essere di tali iniziative. La competizione democratica è incanalata in una dimensione nazionale, sicché ogni proposta può, tuttalpiù, sfociare in provvedimenti legislativi di carattere nazionale (un limite alle trivellazioni; una tassa sulle società petrolifere; divieti di allevamenti intensivi; rimozione dei sussidi ambientalmente dannosi etc.) Provvedimenti che anche se presi a livello europeo – unica realtà in grado di legiferare oltre gli Stati, seppure con diversi limiti – rimangono per loro natura inidonei a incidere a livello globale.
Non essendoci una democrazia e un legislatore mondiale, il destino è quello della frammentazione e, dunque, dell’impotenza. Qualcuno potrebbe obiettare che la cooperazione globale può raggiungere comunque dei risultati. In parte è vero. Ma allo stesso tempo è difficile non notare come il panorama internazionale sia sempre più congelato: i principali responsabili delle emissioni sono paesi in aperta competizione (Stati Uniti, Cina, Russia, India); la visita di Nancy Pelosi a Taiwan è bastata affinché Pechino si defilasse dalla cooperazione climatica con Washington. Ancora, suonano quasi surreali gli inviti nei singoli paesi, dall’Italia alla Francia, a prendere misure radicali hic et nunc, quando il nostro circostante è un mosaico di bombe, missili, aerei, carri armati, navi militari, dighe e gasdotti che saltano in aria, produzioni intensive di armamenti, conflitti vecchi e nuovi. Un contesto che priva di consistenza qualsivoglia appello ad una cooperazione globale per la sfida comune del cambiamento climatico. Dopodiché, non convince nemmeno il richiamo all’esempio di cooperazione virtuosa a livello internazionale del Protocollo di Montréal del 1987: in quel frangente, per fare fronte ai clorofluorocarburi (CFC), sostanze chimiche responsabili della riduzione dell’ozono, tutti i paesi delle Nazioni Unite si impegnarono a ridurre l’uso delle sostanze chimiche prima del 50, poi del 75 e infine del 100 per cento nel giro di dieci anni. Si trattava però di una dimensione decisamente più circoscritta, in cui fu facile rintracciare il numero ristretto di aziende che producevano dette sostanze (le quali avevano già brevettato valide alternative a livello tecnologico). Non si aveva di fronte un intero sistema, composto di cibo, energia, trasporti, infrastrutture, materiali, cui contribuiamo, tra responsabilità dirette e indirette e con diverse gradazioni, tutti, dal singolo individuo che usa la macchina per andare al lavoro, si riscalda a casa e prende un aereo per un viaggio, alle imprese petrolifere che forniscono alle società l’energia di cui necessitano.
La fotografia proposta è quella di un contesto frammentato, ove lo scacchiere risulta diviso in Stati-nazione, dimensione entro cui si svolge la competizione democratica, senza una partita elettorale globale che sfoci in un legislatore mondiale. I governanti devono rispondere, in primo luogo, ai propri cittadini. Un contesto non interpretabile in modo schematico e uniforme, come troppo spesso fanno gli ambientalisti – ossia: una famiglia umana unica che abita il pianeta e che deve agire per salvarlo – bensì percorso da asimmetrie globali, rapporti di forza, approcci diversi per tempistiche, responsabilità, priorità e sensibilità.
Scrive Franzen: «Ma per avere anche solo una possibilità di rispettare quell’obiettivo [i target climatici], ogni nazione del mondo dovrebbe trasformare interamente le proprie infrastrutture e la propria economia nei prossimi dieci anni. Forse la Svezia riuscirà ad azzerare le proprie emissioni entro il 2030. Ma i francesi sono insorti per una piccola tassa sulla benzina, l’America di Trump è innamorata dei suoi pick-up, per non parlare di Cina, India e Africa, dove ogni giorno entra in funzione l’ennesima gigantesca centrale elettrica a carbone. Per me, il fatto che qualcuno possa davvero immaginare che il mondo rinuncerà volentieri ai viaggi in aereo e alle tv a grande schermo è un esempio dell’umorismo nero del cambiamento climatico».
Da qui la seconda tematica: quella della natura umana e, più nello specifico, della libertà individuale come valore primario. Secondo gli insegnamenti del realismo politico, non si può infatti prescindere dal, per citare Leopardi, amor proprio dei singoli, inteso come ricerca della soddisfazione personale, cura della micro-realtà individuale, prevalenza degli interessi egoistici. Motivo per cui ad ora movimenti verdi (veri, e dunque radicali, non mere manifestazioni estetiche) non riescono a canalizzare consenso. Eppure, qualcuno potrebbe dire, i sondaggi registrano, ovunque, un interesse crescente per il tema ambientale. Ad esempio, in Italia, quando si chiede se è necessario agire per combattere il cambiamento climatico o se si è preoccupati per lo stesso, sembra che la maggioranza netta dei cittadini sia molto sensibile al tema. A parere di chi scrive, tali sondaggi vanno maneggiati con cura. Nello specifico, pesa la leggerezza delle parole in relazione a una domanda così astratta (e per certi versi «lontana»), che non è in grado di cogliere il reale coinvolgimento rispetto al tema e, soprattutto, alle sue implicazioni.
Il punto è che è molto facile dirsi preoccupati per il cambiamento climatico o concordare con il fatto che è necessario agire per tutelare il pianeta. È una risposta a costo zero. Dinnanzi poi ad un approccio mediatico piuttosto «forte» (vedasi mappe rosse e titoli catastrofisti sui giornali), è per certi versi anche naturale. Come si accennava, trattasi però, più che altro, della leggerezza delle parole rispetto a un discorso astratto e di principio. Difatti, già solo se si propone un focus sulle implicazioni più concrete, i risultati iniziano a cambiare. Ad esempio, se la domanda riguarda nello specifico le misure europee (stop ai motori a combustione dal 2035; case green), sale lo scetticismo. Il sondaggio su un tema concreto, che comincia a riguardare veramente la micro-realtà del singolo (cambiare l’auto; rifare la casa), conduce a risposte ben più ponderate rispetto alla generica sensibilità che si può facilmente mostrare verso il tema in senso astratto. Risultati ancora più marcati vi sarebbero se si iniziasse a tastare il terreno dei sacrifici che i singoli sono disposti a fare, nella circoscritta dimensione nazionale in Italia o in Francia o Germania, per combattere il climate change globale: «saresti d’accordo per una legge che limita la possibilità di mangiare carne o di viaggiare in aereo?»; «saresti d’accordo per l’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi?» (ossia, perlopiù sgravi fiscali in favore del consumatore, anche se pochi ne sono consapevoli); «saresti d’accordo per limitare la produzione e il consumo di determinati beni?».
Un’inchiesta simile è stata condotta da Jean-Yves Dormagen, in un articolo sulla nuova spaccatura ecologica. I risultati sono molto interessanti e vanno a testimoniare una certa refrattarietà ad abbandonare taluni stili di vita in nome della lotta climatica: ad esempio, il 77% dei francesi ha dichiarato di non essere «disposto» a «rinunciare a vivere in una casa indipendente»; il 59% si dichiara «non pronto a fare a meno dell’auto a combustione interna»; il 67% non è d’accordo sull’imposizione di un limite di velocità in autostrada di 110 km/h per ridurre le emissioni di gas serra; dopodiché, degno di nota è il fatto che quando una domanda sulla costruzione di parchi eolici viene posta in modo decontestualizzato, riceve il sostegno di oltre la metà della popolazione, il 59%, tuttavia, se si specifica «vicino a te», la percentuale di sostegno scende di oltre 20 punti, per toccare il 37%; infine, merita menzionare, a riprova della centralità degli interessi individuali, il cortocircuito che si verifica quando agli intervistati è chiesto se sono disposti a «limitarsi a 4 voli nella loro vita» (come da proposta di Jean-Marc Jancovici): in questo caso, è la maggioranza del ceto progressista, il più convinto dell’urgenza del cambiamento climatico, a dichiarare di «non essere pronta» a ridurre l’uso dell’aereo, mentre la maggioranza dell’area più conservatrice si dice pronta a farlo. Scrive in merito Jean-Yves Dormagen: «Come avrete sicuramente capito, si tratta principalmente di una differenza di posizione socio-economica, associata a stili di vita molto diversi e, più specificamente, a un uso molto diverso dell’aereo. I progressisti e, ancor più, i socialdemocratici sono tra i gruppi con maggior capitale economico e culturale, e quindi anche tra i più assidui frequentatori di aerei. Sebbene il loro sistema di valori li spinga ad adottare comportamenti ecologici, la maggior parte di loro è comunque riluttante a limitare l’uso dell’aereo. Al contrario, i cluster di estrazione popolare, anche tra coloro che tendono allo scetticismo climatico, sono “pronti” a questo tipo di impegno, poiché non ha alcun impatto sulle loro abitudini e pratiche reali».
Da qui la conclusione sulla generale difficoltà a «rinunciare a piaceri e stili di vita per limitare la propria impronta di carbonio, anche in gruppi con un certo livello di consapevolezza ecologica». Non si è più nella leggerezza delle parole, ma nella concretezza delle implicazioni di un vero ambientalismo – dunque radicale, che impone limiti e modifiche degli stili di vita. A parere di chi scrive, a parte una bolla di attivisti particolarmente sensibile al tema, in pochi sarebbero favorevoli a modifiche radicali di stili di vita o eccessivi sacrifici della libertà personale per una scommessa così grande, astratta e globale, che in molti, in altre parti del mondo, semplicemente si rifiutano di giocare.
Il fatto che veri partiti verdi siano inesistenti o se esistenti irrilevanti, che le azioni di disturbo degli attivisti (vernici; blocchi stradali) suscitino solo fastidio ai più e che in generale non vi sia alcuna canalizzazione di consenso collettivo su politiche radicali green (le manifestazioni del 2019 erano più estetica che altro), suggerisce come, dietro al sondaggio astratto, vi sia una realtà ben più complessa, in cui le esternazioni di principio debbono fare i conti con la concretezza delle micro-realtà individuali.
In generale, la formula politica della necessità di una radicale trasformazione dei propri stili di vita per salvare il pianeta non pare funzionare. Anche se il paragone ha i suoi limiti, si pensi ai lockdown della primavera del 2020: una vera operazione radicale, che ha ridotto il nostro impatto sul pianeta, collettiva per eccellenza (con il duplice effetto di limitare i contagi e pure le emissioni). Eppure, non è stata più replicabile e si è progressivamente andati, grazie ovviamente anche al vaccino, nel senso opposto, rinunciando a qualsivoglia strategia zero-Covid, culturalmente e politicamente impossibile in occidente. Hanno vinto libertà e rischio personale, con il relativo prezzo in termini di vite. Peraltro, come ha evidenziato l’analista Alessandro Leonardi, nel 2020 (in cui il mondo si è fermato per diversi mesi), la riduzione delle emissioni è stata solo del 5.4%. Per un calo del 50% in 7 anni, come vorrebbero gli obiettivi climatici, servirebbe una riduzione annua del 7.1%. Difficile non rimanere suggestionati dal pessimismo di Franzen.
I movimenti verdi, già non in buona salute, stanno per incontrare questa nuova difficoltà: è sempre più diffusa la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere i target fissati. Questo cambia tutto nella narrazione: se si è imposto un obiettivo «X», legandolo alla salvezza del pianeta, e lo stesso non potrà essere raggiunto, come è possibile richiedere sforzi, sacrifici, accelerazioni e modifiche degli stili di vita per la transizione? Come si potrà chiedere azioni radicali, già di per sé difficili da realizzare, se l’obiettivo che a livello comunicativo si è collegato alla possibilità di salvezza del pianeta non è raggiungibile? C’è chi dirà che anche un quarto di grado in meno è fondamentale; che anche se non si raggiunge i target qualsivoglia azione rimane comunque essenziale per non aggravare i danni. Il che ha senso: ma si perde la leva «salvifica» che poteva forse (anche se non ha mai ottenuto successo di fatto) convincere e ‘giustificare’ azioni radicali. Dopo questa narrazione, come si può chiedere eventuali sforzi o sacrifici «comunque», «perché in ogni caso anche se non si raggiunge i target è sempre meglio un quarto di grado in meno»? Difficile ritenere che sarà sufficiente. Se la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere i target si diffonde nell’opinione pubblica (e nella comunità scientifica, come in parte già è), crolla un intero castello, una narrazione generale su cui in tanti hanno investito politicamente e non solo: «Dobbiamo fare di tutto per raggiungere l’obiettivo e salvare il pianeta. L’obiettivo non è raggiungibile? Non importa, dobbiamo fare di tutto in ogni caso perché è pur sempre meglio di niente». È chiaro che non rappresenterà un grande stimolo: specie dopo un’intera narrazione che ha ricollegato al mancato raggiungimento dei target ipotesi catastrofiste e apocalittiche, che oggi alcuni iniziano a stemperare – si pensi alle dichiarazioni del nuovo capo IPCC.
Cosa rimane per l’ambientalismo? La tenaglia composta dalla natura umana da un lato e la frammentazione globale dall’altro sembra stretta. Forse i più idealisti potranno ritenere che gli stili di vita e l’attaccamento alla libertà individuale siano solo un prodotto culturale e che in generale sia possibile, faustianamente, cambiare l’uomo. Chi scrive ne dubita. In ogni caso, anche ammesso che si possa superare tale prospettiva – canalizzando il consenso su azioni collettive e radicali non per il lavoro o il salario a fine mese, ma per il pianeta nei prossimi decenni – rimane il problema più pregnante: la discrasia nazionale-globale. Ossia, la frammentazione di questi eventuali consensi collettivi in singole dimensioni nazionali. Circostanza che impedisce alla radice un’azione comune, salvo non volere credere che nello stesso momento, nei 193 Stati aderenti all’Onu o in larga parte di essi, vincano le elezioni partiti verdi concordi nell’agire insieme per fare fronte alla sfida climatica, trascurando asimmetrie, rapporti di forza, strutture economiche, esigenze specifiche dei singoli paesi che si trovano a governare.
In una recente intervista sul Manifesto, uno studioso molto sensibile al tema come Charles F. Sabel, professore di diritto e scienze sociali alla Columbia Law School, ha ammesso che i grandi piani globali hanno tutti fallito e che bisogna abbandonare l’illusione di azioni comuni a livello mondiale, concentrandosi piuttosto su singoli, e più ristretti, successi (talune filiere, come le auto elettriche e il fotovoltaico, o realtà agroalimentari, o problematiche circoscritte come quella del buco dell’ozono).
Stiamo andando verso una progressiva rinuncia all’azione globale dettata da una presa di consapevolezza di un mondo frammentato, conflittuale e diviso in tanti Stati-nazione? E cosa comporterebbe questo?
Trattasi, a parere di chi scrive, di un potenziale nuovo paradigma per i prossimi anni: quello dell’ambientalismo difensivo. Un ambientalismo realista, o pessimista, caratterizzato da una rinuncia alla narrazione globale di «salvare il pianeta» e destinato ad assumere una dimensione più nazionale-locale – l’unica in cui risiede il legislatore e in cui si gioca la competizione democratica. È una prospettiva che si focalizza sul «piccolo» e sul «concreto», alternativa rispetto a quella che gioca sulla catastrofe imminente e sulla necessità di un prometeico salvataggio del pianeta da parte dell’uomo con azioni radicali di trasformazione dell’esistente. Preso atto dell’impossibilità di agire a livello globale, l’ambientalismo difensivo si esplica in una serie di policy adottate a livello nazionale o locale per garantire ai cittadini una migliore «vivibilità», in un’ottica di adattamento delle infrastrutture sociali ai cambiamenti climatici. Da un lato si occuperebbe di costruire un armamentario per convivere con catastrofi naturali ed eventi estremi: bacini artificiali per accumulare acqua da utilizzare poi nei periodi di siccità, fognature e dighe per controllare le alluvioni, investimenti in tecnologie di cattura del carbonio, desalinizzazione, miglioramento degli acquedotti, più mezzi per fare fronte agli incendi, infrastrutture come il Mose di Venezia per contrastare l’innalzamento delle acque, protocolli di sicurezza in caso di allerta meteo, iniziative sul dissesto idrogeologico e via dicendo. Tutte politiche nazionali e locali, che incidono sul quotidiano dei cittadini e che rispondono a logiche di convivenza e messa in sicurezza. Dall’altro lato, l’ambientalismo difensivo declinerebbe le istanze verdi in obiettivi concreti di vivibilità: alberi per attenuare le temperature nelle città, elettrificazione per diminuire l’inquinamento, efficienza energetica per risparmiare sulle bollette, cura del territorio, pulizia dell’aria, accesso all’acqua. Un ambientalismo concreto che punta a migliorare e salvaguardare la qualità della vita in un contesto che vedrà il clima mutare considerevolmente.
In estrema sintesi, i caratteri dell’ambientalismo difensivo sono i seguenti:
Presa d’atto dell’impossibilità di un’azione globale in un mondo frammentato che possa assicurare il raggiungimento dei target climatici e, di conseguenza, accettazione della dimensione nazionale-locale della partita democratica e delle relative policy;
Gli investimenti in rinnovabili e la riduzione delle emissioni rimangono un obiettivo auspicabile, ma non più tanto per gli obiettivi prometeici di salvare il pianeta o rispettare i target, quanto per ragioni economiche (convenienza energetica una volta migliorati gli indici di stoccaggio e trasporto; nuovi mercati e profitti; distruzione creatrice; successi di singole filiere, come nella prospettiva di Sabel) e di vivibilità concreta (energie pulite; elettrificazione delle società; qualità dell’ambiente circostante).
Quest’ultimo punto, in generale, certifica la vittoria del cosiddetto ambientalismo green-tech su quello radicale:
Quello green-tech risulta in parte già assorbito dall’establishment economico e finanziario, è inscritto, di fatto, nella cornice capitalistica e punta soprattutto alla sostituzione (EV al posto del diesel; nuove materie, come il litio, ove di certo non manca il mining e la dimensione estrattiva); in sostanza, seppure accelerato da una forte spinta ideologica, a sua volta combinata con dirigismo burocratico e numerose prescrizioni, trattasi di un fenomeno fisiologico nello sviluppo del capitalismo – che, nella costante espansione e ricerca di benessere (e in primis, dunque, di energia) ha visto passare dal carbone (e le città di Dickens nell’Ottocento) al petrolio, fino al gas naturale e in futuro alle rinnovabili, in un progressivo miglioramento della fonte utilizzata e delle condizioni di vita. È un ambientalismo che non intacca i fondamentali (ossia lo sviluppo capitalista): può migliorare magari taluni indicatori, strappando qualche soddisfazione ai fautori delle rinnovabili, ma non è in grado (perché impossibile, come in tanti già ammettono) di garantire il raggiungimento dei target che ci si è posti.
L’ambientalismo radicale, invece, non ragiona tanto sulla sostituzione (pur ricomprendendola), ma soprattutto sulla limitazione. Vicino al concetto di decrescita felice, propugna un’azione radicale che porti a diminuire l’impatto dell’uomo sul pianeta da tutti i punti di vista: produzione, infrastrutture, trasporti, consumo energetico, consumo di suolo, di risorse e di alimenti animali, circolazione etc. In sostanza, una radicale trasformazione del modello di sviluppo e degli stili di vita per tentare – ammesso la scommessa vada a buon fine – di salvare il pianeta. In altre parole, trattasi di un approccio radicale che va oltre la semplice macchina elettrica o il pannello solare. Approccio destinato però a scontrarsi con quanto qui sopra detto circa la tenaglia della natura umana e della discrasia nazionale/globale.
Si tratta, in definitiva, di un ambientalismo che non lotta più per salvare il pianeta, perché riconosce la discrasia nazionale/globale, nonché la natura umana e i meccanismi di funzionamento dell’intero sistema, ma si relega in una dimensione difensiva, nazionale-locale, che si propone la messa in sicurezza del territorio e la cura della vivibilità dei cittadini, traducendo le istanze verdi in policy concrete: convivenza e investimento nel verde inteso come qualità della vita – acqua, salute, aria, cibo, casa, una tutela dei fondamentali per fare fronte ad un clima sempre più turbolento.
L’ambientalismo difensivo qui tratteggiato si fonda su un approccio realista, o pessimista. È chiaro che finisce per fare il gioco dei conservatori, vale a dire chi predilige lo status quo alle modifiche radicali dell’esistente. Ben vengano critiche a tale approccio: dopotutto, la politica non può permettersi il lusso del realismo. Per chi crede nel cambiamento, rimane comunque, a parere di chi scrive, una grande sfida teorica e pratica. La sensazione è che nei prossimi anni questo paradigma diventerà sempre più attuale. Starà a chi si vuole opporre trovare risposte alternative più convincenti.