«…quale concetto di mondo si potevano mai fare col sentitodire? Tiravano la riffa e basta, bevevano allo scuro. Il vistocogliocchi invece, eh, quello, quello era un altro paio di maniche; con quello, un concetto, un conto, se lo potevano fare, un paro e disparo, senza sgarrare troppo, potevano tirarselo; insomma, sul vistocogliocchi ci si poteva basare e fondare: anche se non ce n’erano miria in giro, verissimo questo, e quelli che c’erano, ci voleva bella costanza e bellezza di vista, per ignescarli»1

Romanizzare i barbari

Con una certa cautela, è forse possibile immaginare che la marea montante del cosiddetto populismo, giunta allo zenit nel 2016 col referendum sulla Brexit e l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca, con la pandemia e il conflitto russo-ucraino abbia infine cominciato a ritirarsi. La cautela è d’obbligo per almeno due ragioni. La prima, generale, che siamo nel pieno di un processo quanto mai confuso di mutazione del clima politico internazionale, e chiunque azzardi previsioni sul futuro lo fa a proprio rischio e pericolo. Conserva tutta la sua validità, dopo mezzo millennio, il richiamo alla discrezione di Francesco Guicciardini: «Se vedete andare a cammino la declinazione di una città, la mutazione di uno governo, lo augumento di uno imperio nuovo e altre cose simili, avvertite a non vi ingannare ne’ tempi: perché e’ moti delle cose sono per sua natura e per diversi impedimenti molto più tardi che gli uomini non si immaginano»2. Il secondo motivo di cautela dipende dal fatto che il cosiddetto populismo scaturisce da cause assai profonde che non pare affatto siano state rimosse.

Vedremo fra breve quali siano queste cause e perché il populismo sia «cosiddetto». Per il momento, a quel che si è notato sopra bisogna subito aggiungere che la marea populista non si sta tuttavia ritraendo perché scompare, ma perché entra nelle istituzioni e ci si installa. Diviene cronica, insomma. Poiché i «barbari» populisti non hanno la forza di demolire l’ordine costituito ma sono pure troppo numerosi e rumorosi perché li si possa ignorare, la vicenda – com’è stato detto, con facile profezia, in epoca non sospetta – ha un unico esito possibile: che quei barbari siano «romanizzat», ossia ripuliti alla bell’e meglio e integrati nei meccanismi del potere3.

Chiunque azzardi previsioni sul futuro lo fa a proprio rischio e pericolo

Giovanni Orsina

Il Partito repubblicano americano, così, potrebbe presentare alle prossime elezioni presidenziali lo stesso Donald Trump oppure un candidato diverso, ma largamente ispirato dal trumpismo4. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è stato «de-demonizzato» e ha conquistato un’importante rappresentanza parlamentare. In Spagna, il Partido popular e Vox governano insieme diverse realtà locali, mentre una loro coalizione appariva possibile alla vigilia delle elezioni legislative di luglio. E in Italia, paese nel quale l’insurrezione populista è cominciata prima che altrove, la «romanizzazione» è giunta ormai a uno stadio assai avanzato: il Movimento 5 stelle si è ben accomodato nel Palazzo, che a sua volta si è modificato per poterlo accogliere, mentre a destra la protesta ha dato vita a un governo che coi vincoli istituzionali, europei e internazionali è rapidamente sceso a patti.

Se queste premesse reggono – che l’ultima stagione populista si stia chiudendo, ma senza che le ragioni del populismo siano venute meno e attraverso non la scomparsa, ma l’istituzionalizzazione della protesta – diviene allora possibile cominciare a ragionare su che cosa possa essere una politica post-populista. Perché quel ragionamento sia impostato correttamente, d’altra parte, occorre innanzitutto comprendere che cosa sia stato il cosiddetto populismo.

La dialettica del «sentitodire» e del «vistocogliocchi»

Quel che stiamo osservando da una quindicina d’anni a questa parte – dalla crisi del 2008 in poi, grosso modo – può essere descritto a mio avviso come la protesta di un segmento consistente dell’opinione pubblica delle democrazie avanzate contro la perdita di controllo sul proprio contesto esistenziale. È la ribellione di tanti «individui qualunque», insomma, di fronte alla sensazione di aver perduto il governo del proprio destino e di trovarsi immersi, esposti e indifesi, in un ambiente proteiforme, impossibile da decifrare e prevedere, e pertanto sempre più minaccioso. Il montare di questa sensazione ha una lunga storia. Passa per il graduale deperire dei poteri e delle funzioni delle comunità politiche, alle quali soprattutto era stata deputata nel corso del Novecento la difesa e promozione del futuro dei singoli individui. Passa per l’affermarsi, soprattutto dopo il 1989, della convinzione che il globo potesse dotarsi di un ordine progressivo largamente impolitico attraverso il predominio del diritto, del mercato e delle tecnocrazie; che quel che restava di politico consistesse nel prodursi di processi orizzontali, egualitari e multilaterali di pacifica composizione degli interessi; che quegli interessi fossero destinati a rivelarsi componibili grazie allo sviluppo tecnologico, e che pertanto il gioco fosse invariabilmente a somma positiva. La sensazione d’impotenza è esplosa infine nel momento in cui, alla fine del primo decennio del ventunesimo secolo, gli eventi storici son sembrati falsificare le convinzioni ottimistiche che ho appena elencato5.

La marea populista non si sta tuttavia ritraendo perché scompare, ma perché entra nelle istituzioni e ci si installa. Diviene cronica. 

Giovanni Orsina

La protesta generata dal timore di aver perduto il controllo sul proprio ambiente esistenziale si è tradotta in una ribellione contro le classi dirigenti, accusate in buona sostanza di aver truffato quanti si erano affidati a loro, di aver monopolizzato gli strumenti necessari a navigare il mondo globalizzato e di averli vòlti a proprio esclusivo vantaggio, isolandosi dalle classi dirette e abbandonandole al loro destino6. Quella protesta ha così assunto un carattere che possiamo in effetti definire populista, poiché si è incardinata sulla contrapposizione fra un popolo sano e vessato ed élite autoreferenziali e corrotte7. Al di sotto di questa contrapposizione alquanto generica, tuttavia, quella protesta si è pure manifestata in una grande varietà di forme politiche, talvolta assai dissimili le une dalle altre. Le scienze sociali si sono dedicate con grande entusiasmo ad analizzare quelle forme, a paragonarle fra di loro, a cercar di capire che cosa potessero avere in comune e in che cosa divergessero, riempiendo con questo sforzo centinaia di migliaia di pagine di libri e riviste accademiche – ventimila scritti nel solo 20208. Ai nostri fini, tuttavia, la genealogia della protesta conta assai più che la sua fenomenologia – le cause della malattia, per così dire, rilevano più dei sintomi attraverso i quali essa si è mostrata. È sulle ragioni profonde dell’insurrezione, infatti, che dovrà cercare d’intervenire la politica post-populista.

The Journey of the Soul par Bill Viola, 2021. © Anton Novoderezhkin/TASS/Sipa US

La rivolta ha evidenziato dunque la presenza una nuova divisione sociale, gravida di una potenziale nuova lotta di classe, fra quanti pensano di potersi avvantaggiare dei processi di globalizzazione e coloro i quali ritengono invece di esserne penalizzati. È una frattura che si gioca su vari terreni. Ha un’evidente componente socio-economica, ma altrettanto evidentemente non può essere ridotta soltanto a una questione di reddito. Ha una robusta ossatura geografica, poiché in virtù di un «density divide» separa le metropoli dai centri medio-piccoli, «places that don’t matter». Si fonda infine su due antropologie profondamente differenti, che danno a loro volta vita a due identità contrapposte: del soggetto globale da un lato, di quello contestuale dall’altro – anywheres e somewheres, per usare le formule efficaci di David Goodhart9. In virtù di tutte le sue dimensioni, e in particolare di quest’ultima, l’ondata populista può in definitiva essere descritta come una ribellione del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato10. Una ribellione del «vistocogliocchi» contro il «sentitodire»11, se vogliamo ricorrere a una metafora letteraria traendola dal monumentale Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Che i migranti pagheranno le pensioni ai vecchi europei è un sentitodire – che quegli stessi migranti li si incontri sulla soglia dei supermercati col cappello in mano è un vistocogliocchi. Che l’Italia rischi il default è un sentitodire – disoccupazione e povertà che un welfare sottofinanziato non sa più mitigare sono un vistocogliocchi. Perfino che il vaccino prevenga il Covid è un sentitodire, mentre l’inoculazione di pazienti sani è un vistocogliocchi.

L’ondata populista può in definitiva essere descritta come una ribellione del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato

Giovanni Orsina

Se vorrà ricucire il rapporto con la parte assai consistente dell’opinione pubblica che ha nutrito la protesta, allora, la politica post-populista dovrà prendere sul serio il rifiuto del sentitodire nel nome del vistocogliocchi. Nell’Italia dell’ultimo decennio il Movimento 5 stelle ha espresso la rivolta populista del piccolo contro il grande e del concreto contro l’astratto nella sua massima purezza. Cittadini del mondo pensato, gli osservatori dello spazio pubblico italiano, a cominciare da chi scrive, hanno durato gran fatica a rendersene conto, ma bisogna riconoscere retrospettivamente che si è trattato di un passaggio necessario, per quanto caotico e costoso. Denunciando lo strappo fra le istituzioni e la vita quotidiana degli italiani qualunque e provando a rabberciarlo alla bell’e meglio, il Movimento ha svolto una funzione essenziale per la democrazia della Penisola. Non per caso dal suo fallimento (inevitabile, per altro) è scaturita, alle elezioni del 2022, un’astensione record al 36 per cento. Diversamente dai cosiddetti populisti, che si fermano al vistocogliocchi e lo «consumano» immediatamente al fine di raccogliere consenso, tuttavia, la sfida che attende la politica post-populista è più ambiziosa: utilizzare il vistocogliocchi al fine di accumulare un piccolo capitale di fiducia politica che le consenta magari di tornare gradualmente a dare spazio, là dove necessario, al sentitodire. Fuor di metafora: ricostruire un legame con gli elettori impegnandosi a migliorare le loro condizioni di vita tangibili per poi provare a ricondurre cautamente la loro attenzione anche su questioni più generali e di lungo periodo.

I progressisti dopo il populismo

Nella stagione del post-populismo i progressisti partono da una posizione svantaggiata. Per tre ragioni. Fin dalla rivoluzione francese, innanzitutto, quella progressista è stata la cultura dell’astratto, del mondo pensato e del sentitodire – mentre col concreto, il mondo vissuto e il vistocogliocchi si sono schierati i conservatori. Se vogliamo affrontare la questione in maniera semiseria ricorrendo alla prima delle tre «leggi della politica» di Robert Conquest – «Everyone is conservative about what he knows best» –, dobbiamo anzi concluderne che il vistocogliocchi è strutturalmente conservatore. Se invece preferiamo abbeverarci a una fonte classica possiamo rivolgerci a Edmund Burke: «Sono le circostanze … a conferire l’aspetto distintivo e l’effetto particolare a ogni principio politico. Sono le circostanze a rendere benefici o nocivi al genere umano i programmi civili e politici»12. Oppure a Michael Oakeshott: «To be conservative, then, is to prefer the familiar to the unknown, to prefer the tried to the untried, fact to mystery, the actual to the possible, the limited to the unbounded, the near to the distant, the sufficient to the superabundant, the convenient to the perfect, present laughter to utopian bliss»13. La ribellione populista è naturalmente sbilanciata verso il conservatorismo e contro il progressismo, allora. E non per caso si è espressa in prevalenza, seppure non esclusivamente, attraverso forze politiche collocate a destra.

La cultura progressista contemporanea, in secondo luogo, è incapace di apprezzare le ragioni del populismo, precondizione prima di qualsiasi dialogo con gli elettori populisti. Quella cultura si regge sulla fede nel valore intrinsecamente positivo del cambiamento e sulla convinzione conseguente che, se le trasformazioni dovessero produrre degli effetti negativi, questi non sarebbero curati né rallentando il corso della storia né tanto meno tornando indietro, ma anzi accelerando il passo14. Ora, è esattamente questa fiducia nella capacità del mutamento di prendersi cura di se stesso quel che i populisti rinnegano a partire dal vistocogliocchi. Non irragionevolmente, l’elettore populista che qui e ora patisce gli effetti negativi del cambiamento, nel cambiamento ulteriore che gli viene proposto rifiuta di vedere una soluzione. Al contrario, lo considera fonte di ulteriori conseguenze nefaste. Il che vuol dire, in buona sostanza, che nega l’atto di fede fondante del progressismo. Da qui l’atteggiamento di rifiuto radicale, anzi demonizzazione, anzi derisione che la cultura progressista assume nei confronti dei populisti. L’unica sua strategia, di fronte agli infedeli, non può che esser quella di erigere un muro invalicabile che li tagli fuori fin quando il benefico corso della storia non li avrà superati, dimostrando quanto stolta e miope fosse la loro mancanza di fede.

Ora, è esattamente questa fiducia nella capacità del mutamento di prendersi cura di se stesso quel che i populisti rinnegano a partire dal vistocogliocchi

Giovanni Orsina

La sinistra contemporanea, in terzo luogo, trova una solida base elettorale nei ceti sociali del sentitodire, i lavoratori intellettuali dei centri urbani che per vivere pensano il mondo e per i quali il mondo vissuto coincide perciò col mondo pensato15. È un blocco sociale di dimensioni ragguardevoli che, pur in un’epoca di grande fluidità come la nostra, rimane piuttosto stabile nelle preferenze politiche. Non è maggioritario, però. E la sinistra allora, se vuol essere politicamente competitiva, deve conservare questa sua base elettorale «naturale» ma al contempo riuscire a pescare anche, e abbondantemente, al di fuori di essa. Il che vuol dire, in buona sostanza, che deve saper prescindere dalla nuova divisione di classe della quale si diceva nel secondo paragrafo di questo scritto, fra quanti pensano di poter trarre vantaggio dai processi di globalizzazione e chi è convinto invece di esserne penalizzato – fra gruppo sociale centrale e gruppi sociali periferici.

Il secondo e terzo handicap della sinistra si rafforzano l’uno con l’altro. Torniamo un istante a quel che dicevamo in precedenza, che il conflitto politico contemporaneo vede un’identità globalista contrapporsi a identità circostanziali. È paradossale che possa parlarsi di un’identità globalista, visto che il globalismo si basa per tanti versi sulla decostruzione dell’idea stessa di identità. Rappresenta un segno non banale del bisogno d’identità degli esseri umani, mi pare, il processo attraverso il quale l’antropologia globalista dello sradicamento si è venuta trasformando essa stessa in una radice: il rifiuto di ogni identità come nuova identità, l’apolidia come nuova forma di cittadinanza, il rifiuto di ogni patria come nuovo patriottismo. Quest’identità si è costruita per differenza e opposizione rispetto alle identità circostanziali e si è fatta costitutiva dei ceti sociali del sentitodire. Il disgusto progressista per il populismo non è soltanto teorico, allora, ma – appunto – identitario, esistenziale: il globalismo inclusivo che in teoria rifiuta di costituirsi per differenza rispetto a un «altro» in realtà di un «altro» ha bisogno eccome, e lo trova proprio nel populista. A chi scrive, del resto, son bastate un paio di buone cene in appartamenti d’epoca della borghesia intellettuale romana per toccare con mano la questione. A ogni modo, costruire un’alleanza politica fra due fasce sociali una delle quali fonda la propria identità in opposizione all’altra, com’è ben evidente, è assai complicato16.

Com’è nella sua natura, la cultura progressista conta sulla capacità del mutamento storico di correggere infine anche la paura per il mutamento storico: poiché le giovani generazioni sono sempre più globaliste, sarà sufficiente aspettare che le generazioni più anziane, portatrici di identità circostanziali, scompaiano, perché la questione sia risolta. «In the long-term, the culture cleavage in the electorate is likely to fade over time through demographic trends and processes of urbanization», scrivono Inglehart e Norris nel 2019, «as Interwar cohorts without college education, often living in relatively isolated white rural communities, are gradually replaced in the population by college educated Millennials living and working in the ethnically diverse metropolitan cities, who tend to be more open to the values of multiculturalism, cosmopolitanism, and social liberalism».17 Norris, del resto, aveva espresso la medesima tesi già nel 200018. E se vogliamo allargare lo sguardo, la questione è più vecchia ancora: per i «più avvertiti dei giovani marxisti», scriveva Eugenio Montale nel 1963, l’innaturalità è «il destino dell’uomo, uscito dallo stato di natura per entrare nella sua fase artificiale. Nell’uomo sapiente c’era ancora qualcosa di naturale, di scimmiesco, che ora deve estinguersi in vista di un’altra epifania. Avremo un giorno l’uomo totalmente selfmade, costruito da sé, fabbro dei suoi destini, padrone, se non dell’universo, del suo mondo. Si concede che il travaglio durerà secoli, ma vale la pena di tentare»19. Ora, la tesi che le nuove generazioni vadano «aprendosi» è stata contestata sul terreno empirico20. Ma soprattutto – se si accetta l’assunto di fondo di questo scritto, che il cosiddetto populismo scaturisca in primo luogo da una rivolta contro l’antropologia globalista – sono proprio le ondate populiste a mettere in dubbio quella tesi, presentandosi l’una dopo l’altra sempre più alte, finché l’ultima non ha allagato addirittura la Casa Bianca. Infine, la fiducia nel corso necessario e benefico della storia è a tal punto costitutiva di una forma mentis progressista che chiunque voglia analizzare quella forma mentis osservandola dall’esterno non può che prenderla immediatamente in sospetto: sa davvero troppo di Deus ex machina.

The Journey of the Soul par Bill Viola, 2021. © Anton Novoderezhkin/TASS/Sipa US

Le difficoltà del progressismo post-populista che ho descritto finora in linea generale si presentano in forma quanto mai concreta nel contesto italiano. Il «primo» Movimento 5 stelle, come detto, ha fallito. Dalle sue ceneri è nato però un M5s «2.0», il partito di Giuseppe Conte, che diversamente dal grillismo delle origini si è collocato saldamente a sinistra, ma del grillismo delle origini ha pure ereditato la capacità di rappresentare la rivolta populista. Che cosa c’è di più tangibile, immediato, vistocogliocchi del reddito di cittadinanza, del resto, il provvedimento-bandiera del Movimento alle elezioni del 2022? Oggi, così, il M5s si propone credibilmente di rappresentare un progressismo post-populista per i ceti sociali periferici. Il «terzo polo» di Matteo Renzi e Carlo Calenda incarna un progressismo post-populista che per il momento si rivolge soprattutto ai ceti sociali centrali. È progressista, il terzo polo, perché si colloca saldamente nel campo globalista. Ma è pure post-populista perché tiene bassa l’intensità ideologica e alta quella programmatica. Cerca di restar lontano dalle astrazioni e dalle genericità e si sforza di mostrare come i processi di trasformazione del mondo globale, se amministrati con intelligenza, possano avere un impatto positivo sul mondo vissuto delle persone qualunque, possano portar loro miglioramenti tangibili. Fra Conte da un lato e Renzi e Calenda dall’altro, l’un contro l’altro armati, sta con gran disagio il Partito democratico. E ci sta sulla base di un’intuizione che come abbiamo visto è corretta: la necessità, per il bene del campo progressista, di costruire a sinistra un’alleanza vitale che comprenda sia il gruppo sociale centrale sia alcuni di quelli periferici. L’operazione resta tuttavia difficilissima, proprio perché, come detto, si tratta di trascendere la nuova divisione di classe del ventunesimo secolo. E infatti per il momento, più che riuscire a ricomporre quella divisione, il Partito democratico ne sta subendo gli effetti nefasti. 

La costruzione di un futuro conservatore

Se nella stagione del post-populismo i progressisti sono sfavoriti, specularmente i conservatori non possono che partire in vantaggio. Che la parte conservatrice sia più «contemporanea» della progressista non significa però che non sia tenuta anch’essa a ripensarsi in profondità. Dovrà pure esserci un motivo, del resto, se la ribellione del vistocogliocchi si è espressa attraverso il voto a forze politiche nuove o rinnovate piuttosto che ai tradizionali partiti moderati, i quali pure ne avrebbero rappresentato il destinatario naturale.

Nel XXI secolo non resta più molto da conservare: un bel problema per la destra contemporanea. La modernità negli ultimi duecento anni e in maniera ancora più accelerata e radicale la tarda modernità negli ultimi cinquanta hanno corroso irrimediabilmente i valori ai quali di norma si appoggiava il conservatorismo. Basti pensare alla più scontata delle triadi conservatrici – Dio, patria e famiglia – e misurare che cosa ne sia rimasto a valle dei processi di secolarizzazione, decostruzione delle identità collettive, globalizzazione, liquefazione dei legami sociali e santificazione dell’autonomia individuale: chiese sempre più vuote, sovranità sempre più precarie, vite sentimentali sempre più sincopate.

Le forze politiche della destra moderata si sono rese conto per tempo di questa deriva e già nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso hanno cominciato a modificare il proprio profilo ideologico, attenuando il richiamo ai valori tradizionali e puntando in maniera decisa sul mercato – direttamente nel caso delle destre anglosassoni, per il tramite dell’integrazione europea nel caso di quelle continentali. Una volta constatata l’impossibilità di arrestare la marcia della modernità, figurarsi invertirne il corso, col pragmatismo che sempre li contraddistingue i conservatori le sono insomma saltati in groppa, convinti di poterla governare dall’interno attribuendo alle leggi ferree dell’economia capitalistica e alla crescita del benessere materiale che il mercato avrebbe prodotto il compito «conservatore» di legittimare l’ordine e le gerarchie sociali e disciplinare gli individui. L’operazione ha funzionato, ma ha avuto un costo: il mercato – strumento in verità rivoluzionario se mai ce n’è stato uno – ha finito di distruggere quel poco ch’era rimasto delle strutture sociali e culturali tradizionali21.

Una volta constatata l’impossibilità di arrestare la marcia della modernità, figurarsi invertirne il corso, col pragmatismo che sempre li contraddistingue i conservatori le sono insomma saltati in groppa

Giovanni Orsina

Nel momento in cui si sono infine ribellati alle astrazioni della tarda modernità e alle durezze di un capitalismo che pareva non mantenere più la promessa di benessere universale, così, gli elettori non si sono più potuti rivolgere ai partiti della destra moderata, che quelle astrazioni e quel capitalismo avevano finito per accettarli, anzi assecondarli. E hanno allora cominciato a votare per le forze politiche cosiddette populiste. Quelle, per parte loro, sono state assai efficaci nel rappresentare la rivolta, ma hanno poi durato gran fatica nell’incanalarla in una direzione politicamente costruttiva. Ha preso così forma la situazione nella quale ci troviamo oggi, nella quale la destra si trova di fronte all’opportunità straordinaria, ma al contempo pure alla sfida, di dover mettere insieme un nuovo conservatorismo che sappia comprendere le ragioni della protesta e costruire su di esse.

La prima tentazione, la più immediata, sarebbe a questo punto di tornare ai valori del conservatorismo classico – Dio, patria e famiglia, per l’appunto. È una tentazione della quale in Italia si avvertono oggi segnali robusti. È certamente la via più facile e quella che meno ha bisogno di pensiero, ma proprio per questo è con ogni probabilità sbagliata. Perché, molto semplicemente, nella tarda modernità Dio, patria e famiglia non appartengono più al vistocogliocchi. Abbiamo già notato come il conservatorismo sia sempre stato ostile alle astrazioni, alle «parole che mondi possano aprire», ai princìpi adatti per ogni tempo e luogo, e abbia valorizzato invece le contingenze, i dati empirici, le ingiunzioni del qui e ora. Per decenni quelle contingenze hanno incluso «naturalmente» la memoria storica, le identità territoriali, le fedi religiose, le usanze tradizionali. Dio, patria e famiglia erano mondo vissuto, per gli uomini qualunque. Oggi però, dopo esser stati triturati in teoria e in pratica, per decenni, dalla tarda modernità, per la maggior parte di quegli uomini non lo sono più: sono princìpi astratti, residui di un Novecento – per non dire Ottocento – che si va facendo sempre più remoto. Un conservatorismo che pretendesse oggi di ripartire dalle tradizioni, allora, troverebbe di fronte a sé esseri umani per i quali quelle tradizioni sono ormai, in larga misura, un sentitodire. E, contro se stesso, sarebbe costretto a lavorare su un’astrazione.

Nella tarda modernità Dio, patria e famiglia non appartengono più al vistocogliocchi

Giovanni Orsina

Al contempo, però, quegli stessi esseri umani sono infelici, spaventati e sconcertati perché, dopo aver disintegrato il loro mondo vissuto, la tarda modernità si sta rivelando per loro, per tanti versi, inabitabile. E quell’infelicità, sconcerto e spavento sono stati, per così dire, «certificati» dall’insurrezione populista, che ha dimostrato in buona sostanza quanto disumana sia l’antropologia globalista – quanto unilaterale, incentrata com’è esclusivamente sull’autonomia individuale a scapito di tutti gli altri «bisogni vitali»22, multipli e contraddittori, dell’anima umana. Il conservatorismo ha adesso l’opportunità di fare forza sulla realtà che quella rivolta ha svelato. Post-populista, allora, deve esserlo non tanto perché viene dopo l’insurrezione populista, ma soprattutto perché costruisce su di essa, perché la usa come dimostrazione storica dell’insufficienza dell’antropologia del cittadino globale e, di conseguenza, della possibilità di un’antropologia alternativa che sappia limitare e controbilanciare il potenziale distruttivo dei processi d’integrazione planetaria. Strumentalizzare il populismo, per altro, non vuol dire affatto che le ragioni del populismo non debbano essere prese sul serio. Al contrario: un conservatorismo post-populista dovrà saperle comprendere a fondo e dare loro risposte politicamente più strutturate, realistiche e durature di quelle fornite finora dai partiti e movimenti di protesta.

L’adozione di un punto di partenza in senso lato antropologico, ossia la scelta di fondare un intero edificio ideologico sulla base di una determinata concezione dell’essere umano23, non è affatto aliena alla tradizione conservatrice. Né è aliena a quella tradizione l’assunzione di una postura opportunistica e pragmatica, la capacità di sfruttare di volta in volta gli strumenti che le contingenze le presentano allo scopo di rallentare il corso della storia. Di più: Michael Freeden ha enfatizzato la capacità del conservatorismo di specchiarsi nel proprio antagonista del momento, di darsi una forma ideologica modellata su quella dell’avversario e perciò particolarmente adatta a contrastarlo, a rispondergli colpo su colpo24.. Proprio in virtù di questa sua capacità mimetica, il conservatorismo ha oggi l’opportunità di adeguarsi al contesto della tarda modernità facendo forza su un’antropologia che si specchi in quella globalista attraverso il prisma della protesta cosiddetta populista.

The Journey of the Soul par Bill Viola, 2021. © Anton Novoderezhkin/TASS/Sipa US

Come abbiamo notato in precedenza, del resto, la scelta delle forze politiche di destra di puntare sul mercato, quarant’anni fa, già rappresentava una prima risposta ai processi di dissoluzione sociale e culturale che avevano preso avvio negli anni Sessanta. Le forze politiche di sinistra, a loro volta, hanno reagito negli anni Novanta rilanciando, ossia accettando il processo d’integrazione economica del Pianeta ma immaginando che potesse essere accompagnato, temperato e governato da un’accelerazione parallela del cosmopolitismo sul terreno giuridico, politico e morale. La dialettica politica degli ultimi trent’anni si è così sviluppata su un terreno fatto d’individualismo e globalismo che è stato comune a entrambe le parti, con una destra più concentrata sull’economia e una sinistra più attenta invece al diritto. L’insurrezione populista ha assalito quel terreno comune, contestandolo, erodendolo e costringendo i partiti tradizionali a riposizionarsi o perdere di rilevanza. Tanto a destra quanto a sinistra il riposizionamento è consistito inizialmente nell’assumere come bersaglio polemico proprio i «barbari» populisti. Ma, via via che gli attendamenti elettorali dei barbari crescevano, questa strategia si è venuta dimostrando sempre più fragile. L’unica soluzione, a questo punto, è che prenda avvio un ciclo politico nuovo. E, allo stesso modo che alla fine degli anni Settanta, è ai neri che tocca muovere.

Allo stesso modo che alla fine degli anni Settanta, d’altra parte – a molto maggior ragione, anzi, considerato quanto i processi di decostruzione dalle tradizioni siano progrediti negli ultimi cinquant’anni –, a destra bisogna prendere atto di come la liquefazione sociale e culturale della tarda modernità sia effettivamente giunta ormai a uno stadio talmente avanzato che la si può contrastare soltanto lavorandoci dall’interno, facendo forza sulle sue stesse contraddizioni – o meglio, sulla sua disumanità. Lavorarci dall’interno significa in buona sostanza accoglierne il punto di vista individualistico, l’unico possibile in una società liquida. Far forza sulle sue stesse contraddizioni implica prendere atto di come una società iper-individualistica si sia rivelata invivibile agli individui a tal punto da indurli a ribellarsi, e ripartire quindi da quegli stessi individui non per come l’antropologia globalista li ha immaginati o ha sperato di poterseli creare, ma per come sono davvero, qui e ora: uomini qualunque in carne e ossa. L’antropologia di un conservatorismo adatto al XXI secolo deve chiedersi che cosa sia, molto in concreto, una buona vita, una vita a tutto tondo, e come la politica possa aiutare le persone a costruirsela25.

Proprio perché imperniato sul singolo soggetto e sui suoi bisogni, questo approccio «micro» può facilmente ibridarsi col liberalismo nelle sue incarnazioni più antigiacobine, ossia quelle più propense a lavorare con gli esseri umani per com’essi sono nella realtà che a pretendere di conformarli a un modello astratto. Il rifiuto dell’antropologia globalista, che deve rimanere assoluto perché rappresenta il punto di partenza del conservatorismo post-populista, non deve per altro necessariamente tradursi in opposizione aprioristica ai processi di integrazione globale, che a modo loro possono anch’essi soddisfare alcuni bisogni fondamentali dell’animo umano. Il problema non è la globalizzazione, ma la convinzione panglossiana che essa sia naturalmente e necessariamente al servizio degli esseri umani, sic et simpliciter, e che quindi non debba essere adattata a quel che gli esseri umani sono – ma, al contrario, che gli esseri umani debbano essere adattati a quel che lei è. L’approccio «micro» non esclude inoltre il recupero di valori tradizionali. Il recupero, però, deve avvenire a valle del processo di ricognizione delle esigenze degli esseri umani in carne e ossa, immersi nelle loro contingenze storiche: quei valori non possono essere ripresentati «a freddo», ma devono dimostrarsi capaci di soddisfare concretamente queste esigenze e ridiscendere così dal sentitodire al vistocogliocchi.

Il conservatorismo del vistocogliocchi, infine, appare particolarmente adatto a un paese come l’Italia. Un paese fortemente eterogeneo e popolato di innumerevoli comunità medio-piccole assai gelose delle proprie peculiarità e della propria qualità di vita. Un paese le cui macro-narrazioni sono sempre state fragili e si sono ulteriormente indebolite nell’ultimo trentennio. Periferico rispetto all’Occidente,26 le cui istituzioni e classi dirigenti non hanno mai goduto di una legittimazione solida. E la cui dimensione privata è sempre stata preponderante rispetto a quella pubblica.

Note
  1. Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, Milano 1975, p. 120.
  2. Francesco Guicciardini, Ricordi, Rizzoli, Milano 1997, serie C. n° 71.
  3. V. Valentini, «Romanizziamo i barbari, dice Orsina su Lega e M5s», il Foglio, 24 agosto 2018.
  4. Cf. Franck H. Buckley, Progressive Conservatism. How Republicans Will Become America’s Natural Governing Party, Encounter Books, New York e Londra 2022.
  5. G. Orsina, La democrazia del narcisismo, Marsilio, Venezia 2018; Id., «Pandemia e conflitto politico: la catastrofe che non c’è stata», le Grand Continent, 19 gennaio 2022.
  6. Su questo punto la lettura essenziale rimane C. Lasch, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, W.W. Norton, New York 1996.
  7. Seguo la definizione di populismo di M. Tarchi, Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, il Mulino, Bologna 2015, p. 77.
  8. Michael Oswald (ed.), The Palgrave Handbook of Populism, Palgrave Macmillan, Cham 2022, p. 3.
  9. La letteratura su questi temi è alluvionale. Si vedano ad esempio: C. Guilluy, La France périphérique. Comment on a sacrifié les classes populaires, Flammarion, Parigi 2014; D. Goodhart, The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics, Hurst & Company, Londra 2017; C. Guilluy, No Society. La fin de la classe moyenne occidentale, Flammarion, Parigi 2018; A. Rodríguez-Pose, The revenge of the places that don’t matter (and what to do about it), in «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society», 11 (1), 2017, pp. 189-209; W. Wilkinson, The Density Divide: Urbanization, Polarization, and Populist Backlash, Niskanen Center research Paper, June 2019; V.D. Hanson, The Case for Trump, Basic Books, New York 2019; M. Lind, The New Class War. Saving Democracy from the Managerial Elite, Portfolio/Penguin, New York 2020; H.-G. Betz, M. Oswald, Emotional Mobilization: The Affective Underpinnings of Right-Wing Populist Party Support, in M. Oswald (a cura di), op. cit., pp. 115-43.
  10. «The appeal of populism, we argue, is its simplicity, a simple narrative which speaks to current lived experiences»; D. G. Lilleker, N. Weidhase, The Psychology of Populism, in ivi, pp. 103-14, p. 104.
  11. Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, Milano 1975, p. 120.
  12. E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Ideazione editrice, Roma 1998, p. 31. Ma si rileggano pure, quanto meno, le pagine memorabili che Burke dedica ai diritti dell’uomo: ivi, pp. 81-85.
  13. «To be conservative, then, is to prefer the familiar to the unknown, to prefer the tried to the untried, fact to mystery, the actual to the possible, the limited to the unbounded, the near to the distant, the sufficient to the superabundant, the convenient to the perfect, present laughter to utopian bliss» in Michael Oakeshott, On Being Conservative (1956), in id., Rationalism in Politics and Other Essays, Methuen, London 1962, pp. 168-196, p. 169.
  14. Lo ha notato da ultimo Luca Ricolfi in La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Rizzoli, Milano 2022. Ma su questo punto restano fondamentali le osservazioni di Augusto Del Noce: cfr. ad esempio A. Del Noce, La morale comune dell’Ottocento e la morale di oggi (1968), ora in id., L’epoca della secolarizzazione, Aragno, Torino 2015, p. 210: «Quando si nega ogni ordine oggettivo, in che altro la volontà potrà trovare un contenuto che nell’idea della distruzione di quest’ordine?».
  15. Sull’evoluzione sociologica e culturale della sinistra si vedano ad esempio: L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano 2017; J.P. Le Goff, La gauche à l’agonie? 1968-2017, Perrin, Parigi 2017; M. Holmes, K. Roder (a cura di), The European Left and the Financial Crisis, Manchester University Press, Manchester 2019; J.L. Newell (a cura di), Europe and the Left. Resisting the Populist Tide, Palgrave Macmillan, Cham 2021; G. Menz (a cura di), The Resistible Corrosion of Europe’s Center-Left After 2008, Routledge, Abingdon 2023.
  16. «Electorally, it is a risky strategy because the acrobatic act of appealing both to an urban cosmopolitan crowd while simultaneously attempting to remain attractive to blue-collar and lower middle-class voters outside of the urban conurbations cannot succeed. In fact, there is a real risk of alienating both groups»: G. Menz (a cura di), op. cit., p. 10.
  17. Ronald Inglehart, Pippa Norris, Cultural Backlash. Trump, Brexit, and Authoritarian Populism, Cambridge University Press, Cambridge e New York 2019, pp. 16-17. Cfr. anche, dagli stessi quartieri intellettuali, C. Welzel, Freedom Rising: Human Empowerment and the Quest for Emancipation, Cambridge University Press, Cambridge e New York, 2013.
  18. Pippa Norris, Global Governance and Cosmopolitan Citizens, in J.S. Nye e J.D. Donahue (a cura di), Governance in a Globalizing World, Brookings Institution Press, Washington DC 2000, pp. 155-177.
  19. Eugenio Montale, Sul filo della corrente, 19 febbraio 1963, in id., Auto da fé, Mondadori, Milano 1995, pp. 248-252, p. 250.
  20. Si vedano i saggi di R.S. Foa e Y. Mounk, contestati fra gli altri proprio da Inglehart e Norris: The Democratic Disconnect, «Journal of Democracy», 27 (2016), pp. 5–17; The Signs of Deconsolidation, «Journal of Democracy», 28 (2017), pp. 5–15.
  21. Sull’eterogenesi dei fini del thatcherismo resta fondamentale John Gray: si vedano i saggi ripubblicati in Gray’s Anatomy. Selected Writings, Allen Lane, Londra 2009. Per una recente sintesi, rapida ed efficace, sul thatcherismo cfr. D.M. Bruni, Il thatcherismo, in «Ricerche di storia politica», 3/2020, pp. 301-308. Sul rapporto fra integrazione europea e mercato negli anni Ottanta si veda J. Gillingham, European Integration, 1950-2003. Superstate or New Market Economy?, Cambridge University Press, Cambridge 2003. Sulla mutazione delle forze politiche della destra moderata negli ultimi cinquant’anni cfr. E. Fawcett, Conservatism. The Fight for a Tradition, Princeton University Press, Princeton e Oxford, 2020, Part VI. Conservatism’s Fourth Phase (1980 to the Present). Hyper-liberalism and the Hard Right
  22. ««Besoins vitaux de l’âme humaine» è un’espressione che ricorre spesso in S. Weil, L’Enracinement: Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Parigi 1964. Di recente, Yoram Hazony ha sottolineato l’impossibilità di ridurre il conservatorismo a un unico principio, la libertà individuale: Y. Hazony, Conservatism. A Rediscovery, Regnery Gateway, Washington, D.C. 2022.
  23. Cfr., per non prendere che un esempio, R. Scruton, How to Be a Conservative, Bloomsbury, Londra 2019, p. 119: «Its starting point [of conservatism] is the deep psychology of the human person».
  24. Michael Freeden, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Clarendon, Oxford 1996, pp. 332 e seguenti.
  25. Secondo Simone Weil (op. cit.), ad esempio, i «Besoins vitaux de l’âme humaine» sono l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità, l’uguaglianza, la gerarchia, l’onore, la punizione, la libertà d’opinione, la sicurezza, il rischio, la proprietà privata, la proprietà collettiva, la verità. E, ovviamente, il radicamento
  26. Cfr. G. Orsina, Una democrazia eccentrica. Partitocrazia, antifascismo, antipolitica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022