Quale strada prenderà il futuro di Mfe-Mediaset dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi? I figli Berlusconi sembrano avere tutta l’intenzione di proseguire a testa alta nell’avventura imprenditoriale che il padre ha tracciato. Si sono messi intorno a un tavolo per cercare di trovare un accordo sull’eredità, rispettando le volontà del padre che fin dal 2006 ha messo nero su bianco che la maggioranza del suo impero fosse gestita dagli eredi di primo letto, Marina – che guida la Mondadori – e Pier Silvio, al timone delle attività televisive.  Ha cominciato la carriera a Publitalia, poi ai palinsesti di Italia 1, quindi ha assunto la responsabilità dei programmi delle tre reti Mediaset. È diventato vicepresidente nel 2000 e dal 2015 è anche amministratore delegato di Mediaset. Sarà lui a dover gestire la sfida europea di Mfe, cioè MediaforEurope, la holding che raggruppa tutte le partecipate televisive del Biscione, con anche Mediaset Espana appena fusa, il 40% di EiTowers e quel poco meno del 30% della tedesca ProSiebenSat.  

Succession

L’11 settembre del 2023 Fininvest è stata blindata per almeno cinque anni. Sono molti gli elementi contenuti nell’accordo tra Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi che ha portato l’accettazione piena del testamento del fondatore del Biscione.   Con una nuova dimostrazione di unità famigliare, sancita da un comunicato nel quale si afferma la «totale armonia» tra tutti gli eredi, ricordando che Marina e Pier Silvio «assumono congiuntamente il controllo indiretto su Fininvest». Senza meccanismi di maggioranze qualificate o minoranze di blocco, quindi con tutte le decisioni che possono venir prese con il 51% del quale dispongono.   Nell’intesa, è previsto un patto parasociale che recepisce le intese raggiunte, tra le quali una clausola di lock-up (un impegno a non vendere) di 5 anni, in virtù della quale nessuno dei fratelli modificherà le quote possedute nelle proprie holding e conseguentemente in Fininvest. I cinque figli pagheranno inoltre secondo la ripartizione di tutto il patrimonio le cifre previste dai legati lasciati dal padre, pari a 230 milioni complessivi, per Paolo Berlusconi (fratello dell’ex premier), per la compagna Marta Fascina e per lo storico collaboratore nonché amico, Marcello Dell’Utri. Ciò significa che Marina e Pier Silvio contribuiranno per il 26% ciascuno, mentre Barbara, Luigi ed Eleonora per il 16% ciascuno. E su tutte le proprietà vige un regime di comunione per almeno cinque anni.

Il patrimonio che Berlusconi ha lasciato ai figli si può conteggiare in oltre cinque miliardi tra società quotate, grandi investimenti immobiliari, titoli, opere d’arte e liquidità. La parte più consistente è contenuta in Fininvest, con oltre 2,8 miliardi di capitalizzazione di Borsa delle partecipate, che diventano quasi quattro miliardi considerando anche le quote detenute da Mfe-Mediaset in altri gruppi, ovvero Ei Towers e ProSieben. Il patrimonio immobiliare è stimabile in circa 700 milioni, concentrato soprattutto nella holding Dolcedrago, più la liquidità. Infine, gli yacht e i molti quadri acquistati negli anni dal fondatore del Biscione. Di fatto Marina e Pier Silvio avranno in due il 52% circa del patrimonio, con il conseguente controllo attraverso Fininvest sulle quote delle società, e i figli Barbara, Eleonora e Luigi avranno una disponibilità personale molto importante. Ovviamente sono state escluse dal testamento le ex mogli, entrambe divorziate.

Il patrimonio che Berlusconi ha lasciato ai figli si può conteggiare in oltre cinque miliardi tra società quotate, grandi investimenti immobiliari, titoli, opere d’arte e liquidità

Camilla Conti

L’accettazione piena, che prevede un’intesa totale a differenza di altre grandi famiglie imprenditoriali italiane, permette di guardare immediatamente al futuro.  Fininvest detiene infatti il 48,6% di Mfe-Mediaset (blindata con circa il 50% dei diritti di voto), il 53,3% di Mondadori e il 30% di Banca Mediolanum, con il gruppo televisivo che conserva anche il 40% di Ei Towers e quasi il 30% della tedesca ProSieben.

La sfida europea

«Di fronte a queste tempeste occorre tenere la barra dritta e sapere dove andare. Mediaset non è mai stata ferma, è il nostro motore. Abbiamo lavorato per allargare raggio d’azione professionale e costruito un sistema crossmediale che arriva al 90 per cento della popolazione. Non c’è nessun altro in Europa che abbia realizzato questo», ha dichiarato Pier Silvio Berlusconi il 9 luglio 2023, durante la presentazione dei programmi per la nuova stagione. È stato il primo appuntamento pubblico dopo la scomparsa del padre avvenuta il 12 giugno.  

Quando quest’ultimo nel 1994 lasciò l’azienda per scendere in campo nella politica e fondare Forza Italia, affidò al figlio Piersilvio la sfida: portare avanti in un mercato nazionale non facile la crescita nella televisione di impronta commerciale, quella che lui stesso aveva rivoluzionato. Il ceo di Mfe  si è però spinto oltre proiettando quella partita su scala Europea e aprendo il capitolo in Germania con l’operazione ProSieben.  Perché la Germania? «Bisogna crescere e per questo andare fuori dai confini. Siamo saliti a ridosso del 30% dell’operatore tedesco per costruire un player paneuropeo. Se c’è qualcuno che può portare a termine la sfida, questo è Mediaset», ha detto Pier Silvio sottolineando la compattezza familiare come la carta in più da giocare per supportare questa linea europea. «Siamo azionisti di lungo termine interessati a portare avanti la creazione di un broadcaster europeo. Noi vogliamo portarlo avanti, vedremo come arrivarci», Il progetto è stato impostato, ma entrare nel mercato tedesco – dal punto di vista pubblicitario, il più grande in Europa – non è semplice.

Il progetto è stato impostato, ma entrare nel mercato tedesco – dal punto di vista pubblicitario, il più grande in Europa – non è semplice.

Camilla Conti

La strategia di Mfe va inoltre incrociata con quella dell’altro azionista, il gruppo ceco Ppf che ha aumentato al 15,04% la propria quota in ProSieben. E poi c’è il tema del modello di business: ProSieben ne persegue uno che integra l’intrattenimento con l’e-commerce e il dating, in modo digitale, è un’azienda audiovisiva con contenuti locali che vengono offerti agli utenti.  Il vertice di Mediaset, invece, è convinto che ProSieben debba abbandonare il «sovranismo televisivo» e battere la strada della fusione cross country unendosi a Mfe, in modo da realizzare sinergie significative nei costi tecnologici e avere più potere contrattuale da opporre alla concorrenza.  «Un broadcaster europeo, senza Germania, non esiste e senza di noi la Germania non riesce. Abbiamo una minoranza di blocco, non vedo come altri editori possano andare avanti rimanendo limitati dentro i confini», ha detto a luglio.  La sfida sarà anche sulle sinergie e sugli investimenti, a cominciare da quelli sulla tecnologia, spinta dalla gestione dei dati. L’azienda dei Berlusconi ha sempre guardato al modello dell’americana Nbc che ha appena rafforzato la propria piattaforma streaming. ProSieben ha acquisito da Warner Bros Discovery il rimanente 50% della piattaforma streaming Joyn, joint venture creata con Discovery nel 2017. Il messaggio del manager è quindi, si può fare di più se si uniscono le forze.

Dietro la successione dell’impero c’è dunque la partita industriale che ruota attorno a Media for Europe-Mediaset. Il progetto è quello di creare un grande polo continentale delle tv generaliste che possa sfruttare le economie di scala di un grande mercato. L’idea del management è che ormai non solo per la tv commerciale, ma per tutti i media, la dimensione sia fondamentale. O si rimane delle piccole boutique locali o si creano dei gruppi europei in grado di competere con i colossi americani. Una sfida che va, dunque, ben oltre i confini nazionali e che non riguarda solo la società di broadcasting ma anche il ruolo dell’Italia in Europa nelle televisioni. MFE-Mediaset deve però fare i conti con il mercato della tv generalista che langue anche perché ha un pubblico che invecchia e soprattutto che soffre la concorrenza dei grandi produttori di contenuti divenuti broadcaster, come Disney e Paramount,  e delle piattaforme divenute produttrici, come Netflix e Prime. La crescita impetuosa degli streamers, che conquistano ascoltatori a colpi di abbonamenti da 10 euro al mese, fa sembrare la tv generalista basata sulla pubblicità uno strumento fuori moda. E’ cambiata la modalità di fruizione degli eventi rendendo obsoleta la programmazione verticale delle tv tradizionali. E oggi le produzioni di punta di Mediaset sono soprattutto i reality show, i cui format però non sono di sua proprietà. L’idea di Pier Silvio non si basa su contenuti comuni, anzi ognuno deve sviluppare i contenuti per il proprio pubblico nazionale, dove può dare un valore aggiunto rispetto alle serie tv degli streamers che investono miliardi all’anno. Piuttosto la sua sfida del polo europeo guarda alla tecnologia, alle piattaforme di distribuzione della tv via Internet (Smart Tv), una modalità che permette di raccogliere i dati dei clienti e di profilarli per gli investitori pubblicitari. I costi di costruzione e manutenzione delle piattaforme sono molto alti e si possono condividere con altri gruppi europei. Così come si possono costruire piattaforme comuni per la raccolta della pubblicità che permettano ai centri media di entrare e scegliere la soluzione distributiva migliore per i propri clienti (il primo esperimento riguarda la Spagna, Mfe ha fatto l’Opa su Telecinco, l’ha fusa con Mediaset e comincerà a lavorare su Infinity e Mitele, le due piattaforme Internet).

Dietro la successione dell’impero c’è dunque una partita industriale complessa

Camilla Conti

Le strategie per dare frutti hanno però bisogno di tempo. E all’azienda serve subito un nuovo modo per far crescere i ricavi.  Nel 2010 Mediaset ne metteva assieme 4,3 miliardi, scesi 3 miliardi e mezzo nel 2015, mentre il 2022 si è chiuso a 2,8 miliardi, un calo del 35% in termini nominali. Quasi tutto il fatturato – circa il 70% – arriva dalla pubblicità tanto che all’inizio di luglio è stata costituita Mfe Advertising per la raccolta pubblicitaria che parte da Italia e Spagna. In Italia nel 2022 valeva 1,94 miliardi (2,8 miliardi nel 2010), la Spagna 800 milioni.  La maggior parte degli utili arrivano dalla Spagna (mentre nel primo trimestre 2023 l’Italia è in perdita).

Mfe, la holding che controlla Mediaset, ha chiuso la prima metà dell’anno con ricavi in sostanziale tenuta (-1,2% a 1,37 miliardi) e un miglioramento della redditività che si traduce in un risultato operativo salito a 120,9 milioni (+7,9%) e in un utile cresciuto a 87,1 milioni (+3%). Merito anche di un’attenta gestione dei costi, scesi nel semestre del 2,2% per effetto delle sinergie generate dalla fusione tra Italia e Spagna. «Grazie alla dimensione sempre più  internazionale» che «attutisce possibili squilibri nei diversi mercati», i risultati «hanno registrato un andamento decisamente positivo nonostante elementi critici quali la spinta inflattiva, i costi energetici e la riduzione dei dividendi dalla partecipata tedesca Prosieben», spiega Mfe.   «Sostanzialmente stabile» la raccolta pubblicitaria, a quota 1.343,7 milioni (-1,4%), con l’Italia che flette meno della Spagna. Sulla raccolta di giugno abbiano influito in Spagna le elezioni e in Italia la morte del fondatore Silvio Berlusconi. Più complicata la situazione in Germania dove Prosieben, già reduce da un trimestre nero, ne ha chiuso un altro con un utile quasi azzerato (4 milioni contro i precedenti 64) e ricavi sotto le stime degli analisti.

Sul fronte delle acquisizioni, Mfe si sta guardando intorno in Spagna per creare un sistema crossmediale. E sempre durante la presentazione dei palinsesti di luglio, Pier Silvio Berlusconi, rispondendo a una domanda, ha detto che «se Prisa decidesse di mettere in vendita le sue radio le guarderemmo». In gioco c’è poi l’operazione ProSieben e, magari, anche una tv francese: M6, terzo network d’Oltralpe, un anno fa è stata messa in vendita ma quando l’Antitrust ha fatto capire che la fusione con Tf1 non era possibile allora i tedeschi di Rtl l’hanno ritirata dal mercato. Se quell’aggregazione fosse stata approvata allora Rtl avrebbe provato a comprare ProSieben in Germania, in una sorta di sovranismo televisivo europeo francese e tedesco. Ma così non è stato e l’intervento dell’Antitrust ha in qualche modo dato fiato all’idea di Pier Silvio di una tv paneuropea basata sulla pubblicità. Gli altri dossier aperti sono quello della partecipazione in Ei Towers (società delle torri di trasmissione) per arrivare a una possibile fusione con Rai Way, e quello della squadra di calcio del Monza, l’ultima avventura calcistica di Silvio Berlusconi. Il passaggio in A porta ricavi più che raddoppiati da 15,4 a 32,7 milioni, ma nell’anno interrotto dai mondiali in Qatar il conto è inevitabilmente salato, con una perdita da 65,4 milioni. È qui che Fininvest registra i versamenti più importanti: 64,5 milioni in conto capitale. Non a caso procede la ricerca quantomeno di un socio di minoranza (non c’è la fila, ma l’armatore greco Evangelos Marinakis, già proprietario di Olympiakos e Nottingham Forest, è l’ipotesi più concreta allo stato). L’altra partita che Mfe dovrà giocare è infine quella dei diritti tv del calcio perché passerà anche da questo snodo la futura strategia europea del gruppo.

I diritti del pallone

Pier Silvio Berlusconi ha cominciato la carriera a Publitalia, poi ai palinsesti di Italia 1, quindi ha assunto la responsabilità dei programmi di tutte e tre le reti Mediaset. Si è quindi formato una specializzazione sui contenuti televisivi. È diventato vicepresidente nel 2000 e dal 2015 è anche amministratore delegato. Nel 2007 ha un’intuizione importante, Mediaset deve rafforzarsi nella produzione di contenuti televisivi che saranno l’oro degli anni seguenti e compra Endemol, che in quel momento è leader in Europa nella produzione di contenuti. Ma l’operazione vale 2,6 miliardi ed è condotta con un’eccessiva leva finanziaria. Così nel 2011 Mediaset è costretta a cederla agli hedge fund che avevano comprato il debito di Endemol. Da lì in poi Mediaset non avrà più il focus sulla produzione di contenuti ma continuerà a essere una società di distribuzione televisiva e Pier Silvio decide di riprovare con la pay tv, dopo che agli inizi degli anni 90 suo padre non riuscì a imporre Telepiù sul mercato. 

A metà del Duemila lancia l’avventura di Mediaset Premium, con i canali a pagamento, e sfida Sky sul suo terreno accaparrandosi nel 2014 i diritti televisivi per il triennio 2015-2018 di Champions League per 630 milioni. Pensare di concorrere nella pay tv alla pari con la Sky di Rupert Murdoch si rivelerà una scommessa azzardata. Mediaset Premium non è mai riuscita a sfondare in termini di numero degli abbonati, anche con un posizionamento diverso e più basso rispetto a Sky.

I Berlusconi cercano quindi di riparare alle perdite attraverso un accordo con i francesi di Vivendi, che nella combinazione con Canal Plus avrebbe dovuto portare alla nascita di un gruppo paneuropeo, presente anche nella produzione e in grado di contrastare l’avanzata di Netflix in Europa. Siamo nell’aprile 2016 e la partnership con Vivendi morirà qualche mese dopo, a fine luglio, quando Vincent Bolloré comincia a scalare in Borsa Mediaset, innescando una faida legale nei tribunali di mezza Europa e, siamo al 2017-2018, una reazione del «sistema Italia» che bloccò ogni movimento di Vivendi tanto in Tim quanto in Mediaset.

Nel mezzo, c’è stato il primo tentativo di creare Mediaset for Europe, con base in Olanda, che insieme a Vivendi avrebbe voluto aggregare non solo la controllata Mediaset Espaňa ma anche altri gruppi europei presenti nella televisione free to air, cioé quella che si sorregge sulla raccolta pubblicitaria. Anche questo progetto è naufragato per l’opposizione dei francesi che lo vivevano come un escamotage della società italiana per tener saldo il controllo del gruppo ai danni della minoranza fastidiosa.

Dopo cinque anni di intense battaglie legali, la famiglia Berlusconi e Vincent Bolloré hanno poi capito che era giunto il momento di deporre le armi e cercare una via d’uscita. La pace viene siglata nel maggio del 2021: l’assemblea di Mediaset revoca l’utilizzo del voto maggiorato, che blindava il gruppo televisivo ancora più strettamente sotto il controllo di Fininvest. Per la revoca votano anche Vivendi e la sua fiduciaria Simon, che progressivamente usciranno dall’azionariato di Mediaset. «Il meccanismo di cessione e di acquisto da parte della holding della famiglia Berlusconi del 19% abbondante di Mediaset detenuto dalla fiduciaria dei francesi Simon in un periodo di cinque anni è complesso, ma alla fine Vivendi potrà rimanere azionista del Biscione con una quota residua inferiore al 5%», riporta un lancio Ansa del 27 maggio 2021. Sottolineando che «ora il Biscione può  guardare con libertà allo sviluppo estero», ovvero ribattezzare la nuova capogruppo in Olanda con il nome di Mfe, MediaforEurope, lo stesso della piattaforma che prevedeva la fusione con Mediaset Espana e il conferimento delle quote di maggioranza nella tedesca ProSieben. Una scelta simbolica. A novembre 2021 l’assemblea dei soci di Mediaset ha sancito l’avvio ufficiale dell’era Mfe con uno split azionario che ha introdotto la doppia classe di azioni A e B, uguali sotto il profilo economico (assicurano gli stessi dividendi e dovranno essere entrambe oggetto di un’eventuale opa), ma con garanzie diverse in termini di diritti di voto.

Pensare di concorrere nella pay tv alla pari con la Sky di Rupert Murdoch si rivelerà una scommessa azzardata

Camilla Conti

La pace con Bolloré, la nascita della holding olandese e lo split delle azioni hanno insomma allineato i pianeti: Pier Silvio ha rispolverato il progetto Mfe in chiave di crescita europea come unica possibile per superare i limitati bacini nazionali. Gli ambiti in cui competere sono i film o serie di livello internazionale da sfruttare in tutto il mondo, i contenuti locali da monetizzare con la pubblicità e lo sport di massa.  A cominciare dal calcio. In Italia, Mediaset e Rai sono in contesa per i diritti sulla coppa Italia e della supercoppa. Ma i riflettori si sono soprattutto accesi sulla trattativa complicata relativa alle aste sui diritti tv della Serie A. Parliamo di un miliardo di euro a stagione. Dove vedremo le partite del campionato a partire da agosto 2024? Si sono chiesti i tifosi italiani.

Il 23 ottobre 2023 la partita per i diritti tv della Serie A si è però chiusa confermando lo status quo. Saranno infatti ancora Dazn e Sky a trasmettere il campionato per le cinque stagioni dal 2024/25 al 2028/29. Dopo mesi di tira e molla, con l’ipotesi del canale di Lega sempre sullo sfondo, a sorpresa alla prima votazione l’assemblea dei club ha infatti deciso di accettare l’offerta delle due emittenti da 900 milioni di euro annui di base, di cui 700 milioni da Dazn e 200 milioni da Sky, rispetto ai 927 milioni del triennio 2021/24. «Un lieto fine», ha spiegato il presidente della Lega Serie A, Lorenzo Casini, in conferenza stampa, anche alla luce di una larghissima maggioranza a favore delle offerte: la decisione è  passata con 17 sì , contro un assente (il Napoli con De Laurentiis che è uscito al momento della votazione, con polemiche riservate al post assemblea), un voto contrario (la Salernitana che spingeva per il canale) e il Cagliari che non si è detto contrario ma che aveva chiesto di non assegnare oggi i diritti.   Dazn quindi trasmetterà  tutte e 380 le partite del campionato, di cui 114 in co-esclusiva su Sky, che, raddoppiando l’offerta rispetto al triennio in corso, ha ottenuto più  big match e diverse fasce di orario delle gare (non solo il sabato alle 20.45 ma anche la domenica alle 18 e il lunedì alle 20.45). La cifra di 900 milioni annui, tuttavia, è solo la base, perché la Lega punta in realtà ad incassare circa un miliardo, anche grazie al meccanismo di revenue sharing introdotto nell’accordo con Dazn: in sostanza, al superamento dei 750 milioni di fatturato dagli abbonamenti da parte della piattaforma Ott, i ricavi incrementali verranno divisi al 50% tra la Lega e la stessa Dazn. Ad esempio, quindi, se quest’ultima arrivasse a 800 milioni di fatturato, la Lega incasserebbe ulteriori 25 milioni (la metà dei 50 milioni di differenza rispetto ai 750 di cui sopra). «La base è  di 900 milioni annui di cui 700 da Dazn e 200 da Sky per cinque anni, ma attraverso lo strumento del revenue sharing con Dazn la cifra può superare di gran lunga quella del triennio precedente raggiungendo quella di 5/6 anni e arrivando a un miliardo», ha spiegato l’ad, Luigi De Siervo. Inoltre, a queste cifre vanno anche aggiunti circa 40 milioni di cosiddetti costi tecnici, ovvero la quota che le emittenti versano alla Lega per la produzione delle partite. «La scelta quindi proietta numeri, tra costi tecnici e ricavi, superiore al miliardo medio nei cinque anni», ha aggiunto De Siervo. 

Per la stagione sportiva 2023/24 tutta la Coppa Italia Frecciarossa è invece in esclusiva assoluta in chiaro sulle reti Mediaset. Che continuerà  a trasmettere tutti i match fino alla finale di Roma del 15 maggio 2024. In più, c’è la Supercoppa Italiana nel nuovo format final four che si giocherà  in Arabia Saudita. Dopo la richiesta degli organizzatori di far slittare le date (inizialmente si sarebbe dovuto giocare dal 4 all’8 gennaio) per i tanti eventi previsti nel Paese in quei giorni (tra il Mondiale per Club e la Supercoppa di Spagna), la Lega ha scelto di spostare il torneo a fine gennaio, con una ipotesi per ora tra il 21 e il 25 gennaio. Dal 22 agosto arriverà poi l’antipasto di Champions League con le gare dei playoff su Italia 1e Mediaset Infinity.

Tra costi tecnici e proventi, il calcio italiano prevede un ricavato superiore al miliardo medio nei cinque anni

Camilla Conti

Quanto a Sky, partner storico del calcio italiano, ha acquisito per il ciclo 2024/2029 i diritti in co-esclusiva di 3 partite a giornata per un totale di 114 match di Serie A a stagione, insieme agli highlights di tutti i 380 incontri, ai diritti di archivio delle stagioni correnti e a quelli in esclusiva di tutti i match di Serie A per bar, hotel e altri locali pubblici. E, dopo aver comprato la nuova Champions League, può contare anche su un nuovo accordo pluriennale con il basket Nba, il Sei Nazioni di rugby fino al 2025 e la vela con il ritorno dell’America’s Cup. Per questo non ha fatto follie sul campionato: negli ultimi 3 anni, per 3 partite in co-esclusiva spendeva 87 milioni a stagione, avrebbe quindi dovuto quasi raddoppiarli per confermare lo stesso schema.

Sullo sfondo, resta il problema che in Italia cresce il pubblico allo stadio, mentre calano gli appassionati in poltrona davanti alla tv: la serie A nel primo scorcio di campionato prosegue la tendenza registrata lo scorso anno, cioè sempre più tifosi vanno a vedere la loro squadra dal vivo e sempre meno la guardano in televisione. Lo streaming di Dazn, con l’immagine che arriva circa un paio di minuti dopo la diretta radiofonica, ha contribuito a far scendere pesantemente l’audience rispetto ad anni fa quando, nel periodo del duopolio Sky-Mediaset Premium, gli ascolti a ogni turno di campionato si aggiravano infatti mediamente intorno agli 8 milioni di telespettatori.

C’è poi la crisi economica e l’inflazione che riguarda tutti, gli abbonamenti hanno cifre pesanti, in alcuni casi non garantiscono il servizio sottoscritto. E poi a creare disagio è il rapporto con la Premier League: 5 miliardi e 800 milioni di euro per i diritti di trasmissione nel Regno Unito (periodo 2022-2025), dunque 1 miliardo e mezzo a campionato e 5 miliardi e 950 per i diritti nel resto del mondo.

«Per noi il calcio è il prodotto più importante; vorremmo avere ancora il calcio di livello, quello che conta, sulle nostre reti, ma i prezzi di oggi sono folli. Se andiamo avanti così, sono cifre veramente da pazzi». Così Pier Silvio Berlusconi il 5 luglio 2023 ha risposto ai cronisti che gli chiedevano quale fosse il ruolo di Mediaset nella partita per i diritti tv del calcio italiano. «Da un lato – ha detto – il calcio lo vogliamo, ma dall’altro usiamo la razionalità. Siamo pur sempre una azienda quotata in Borsa e dobbiamo fare margine». In ogni caso, «al momento non ci sono strategie, ma mi sembra che la base d’asta per la Coppa Italia sia davvero molto, molto alta». Quanto al campionato, «onestamente non sappiamo nemmeno di cosa stiamo parlando, ogni volta cambiano idea. Noi ci siamo, ci vogliamo essere, poi vedremo. Eventualmente si potrebbe usare Italia 1 come rete del calcio». Comunque, ha concluso, «noi saremo sempre razionali e non faremo follie».

L’affaire Giambruno

A ottobre non si è chiusa solo la partita sui diritti Tv della Serie A, si è giocato un altro campionato, quello dei fuorionda con le frasi inopportune del compagno della premier, Andrea Giambruno, giornalista televisivo. Fuorionda trasmessi dal tg satirico, Striscia la Notizia, trasmesso sulle reti Mediaset. Il 20 ottobre Giorgia Meloni ha annunciato sui social la fine della relazione, durata quasi dieci anni, con il padre di sua figlia. «Le nostre strade si sono divise da tempo, ed è arrivato il momento di prenderne atto», ha scritto la presidente del Consiglio. Il 24 ottobre Mediaset ha diffuso un comunicato per annunciare che «Andrea Giambruno, dispiaciuto per l’imbarazzo ed il disagio creato con il suo comportamento, ha concordato con l’azienda di lasciare la conduzione in video» del suo programma «di cui continuerà  a curare il coordinamento redazionale».  Ma il caso, al netto delle vicende molto personali, ha scatenato reazioni politiche e anche finanziarie. Tanto da finire sulle pagine del Financial Times e da mandare giù in Borsa anche il titolo Mediaset. Il motivo? Le indiscrezioni, circolate sulla stampa italiana, che imputavano ai figli del Cavaliere la decisione di non aver bloccato i fuorionda di Striscia. E l’ipotesi che Forza Italia c’entrasse qualcosa con quanto accaduto facendo suonare un campanello di allarme nei rapporti all’interno della maggioranza. Voci e riumors tutti smentiti sia dai vertici del partito oggi guidato dal vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, sia da quelli Biscione, sia dai figli di Berlusconi, Piersilvio e Marina. Le tensioni hanno comunque spaventato il mercato e scatenato le vendite sul titolo Mediaset in Piazza Affari. Anche perché il clima potrebbe infiammarsi nuovamente se arriveranno nuovi audio imbarazzanti e una nuova puntata di quello che ormai è stato ribattezzato «l’affaire Giambruno».