Religione

La migrazione e la Chiesa: di fronte alla scelta profetica di un’Europa multietnica

Carlo Maria Martini, gesuita, biblista finissimo, cardinale e arcivescovo di Milano è tra i principali ispiratori della dottrina che ha difeso papa Francesco a Marsiglia: «L’immigrazione è davvero un’occasione storica per il futuro dell’Europa… un grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere». Riproponiamo questa visione cattolica che si oppone radicalmente a quella di matrice orbániana di «un’Europa bianca e cristiana».

Autore
Gilles Gressani
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Martini ai funerali di Giovanni Paolo II © DR

«L’immigrazione è davvero un’occasione storica per il futuro dell’Europa, occasione di bene o di male, a seconda di come la governeremo. Il mio invito è di prendersi a cuore questa realtà non come un peso da sopportare, bensì quale grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere.» Queste parole, pronunciate del Cardinale Martini all’inizio degli anni ‘90 1 del secolo scorso riecheggiano quelle di papa Francesco a Marsiglia – di fatto strutturano una dottrina fortemente ispirata dal Vangelo e in particolare al passo «ero forestiero e mi avete ospitato» (Matteo 25,31-46) 2

Al di là dell’irenismo e di una visione unicamente emergenziale, secondo Carlo Maria Martini la sfida della migrazione deve essere compresa come un «segno dei tempi». Un momento denso, universale, ripetuto che può rivelare, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, «la direzione verso cui si orienta consapevolmente l’umanità»3. E quindi deve animare le comunità cristiane poste di fronte a una «scelta profetica» che si ritrova nel Vangelo: «Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questo» (Mc 12,29-31)», ponendo nel contempo una questione geopolitica dello sviluppo. 

Notiamo qui una delle contraddizioni più importanti sulla scena politica continentale. Se i riferimenti alla cristianità, ai suoi valori e alle sue radici sono oggi un riferimento costante della destra radicale europea, allo stesso tempo la Chiesa sembra opporsi nelle opere e spesso anche nelle dichiarazioni a questo «sovranismo feticista» che mobilità simboli, immaginari e pratiche per costruire un’identità europea reattiva. L’idea di «un’Europa bianca e cristiana» difesa da Viktor Orban e da una parte sempre più nutrita dell’estrema destra neonazionalista, si rivela così durante la crisi dell’accoglienza secondo una linea di frattura tra «leader pro-immigrazione o leader anti-immigrazione». Così secondo le cifre Eurostat nel 2015, l’anno più intenso della crisi, l’Ungheria ha accettato in tutto soltanto 545 domande di asilo a fronte di più 177 135 richieste. 

Riproponiamo questo testo che, in modo enigmatico e paradossale, forse esprime una risposta alla contraddizione di una Chiesa che rifiuta la stretta identitaria: «Questa è la grande occasione storico-salvifica che ci troviamo davanti. Ed esprimo la più viva gratitudine a voi che ci aiutate a non perdere tale occasione, a non lasciar passare invano quest’ora della storia, a non essere ancora una volta ignavi e pigri di fronte a una sollecitazione simile a quella del ferito lungo la via (cfr. Lc 10,30-37), alla quale non tutti hanno risposto».

Esprimo il più vivo ringraziamento a tutti i presenti e, in particolare, agli organizzatori di questa IX Giornata della solidarietà. Come Chiesa locale, chiediamo di essere aiutati a collocarci nella maniera giusta di fronte all’imponente e straordinario fenomeno della nuova immigrazione di terzomondiali nelle nostre regioni; chiediamo un aiuto intelligente, scientifico, di valutazione, per poter operare. E molti tra i presenti sono operatori che pagano di persona il pondus diei, la fatica quotidiana di impegnarsi in questa realtà.

Il discorso di Martini è pronunciato a un convegno diocesano convocato per la IX Giornata della solidarietà (Milano, San Fedele, 13 gennaio 1990). Il testo è poi apparso nella Rivista diocesana milanese, LXXXI (1990), 1, pp. 110-114, e si trova in Carlo Maria Martini Comunicare nella Chiesa e nella società. Lettere, discorsi e interventi 1990, Bologna, edb 1991, pp. 47-52.

Vorrei semplicemente sottolineare l’importanza del tema del convegno: «Per una società dell’accoglienza verso un’Europa multirazziale». Molte volte, in questi anni, ho parlato di questo argomento. Se ho desiderato esprimermi così sovente sul tema è perché sono convinto della sua crescente rilevanza per la nostra convivenza in Europa. 

Carlo Maria Martini si esprime a più riprese sul tema che diventa uno degli assi strutturanti della sua azione: come lo ricorda lui stesso, nel 1989 in un incontro organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio4; nel mese di aprile, all’Università cattolica; in agosto in una conversazione tenuta a Francoforte, città tedesca gemella di Milano5; all’inizio di dicembre in occasione del discorso di sant’Ambrogio, insieme con sua eccellenza monsignor Bello e sua eccellenza monsignor Riboldi, vescovi dell’Italia meridionale6; e, ancora, a metà dicembre in un convegno organizzato a Roma dalla CEI7.

Nessuno può sapere esattamente cosa accadrà in futuro, però è probabile che la presenza dei terzomondiali nel vecchio continente ci porrà di fronte a sfide inevitabili.

Una scelta di intelligenza profetica

È dunque necessario trovare l’atteggiamento giusto di fronte a tale fenomeno; a mio avviso si tratta di vedere in esso una grande occasione etica e civile, come cristiano dico anzi una grande occasione storico-salvifica. Quindi, come è stato ricordato, una possibilità di un salto di qualità nella convivenza europea, un appello etico formidabile per un rinnovamento della nostra mentalità, del nostro modo di essere; un invito a invertire la rotta della nostra decadenza nel consumismo e nella facile soddisfazione di ciò che possediamo.

C’è un’alternativa, è vero, a questo atteggiamento, ed è quella di subire il fenomeno. Non potendo bloccarlo lo si subisce, lo si restringe, lo si argina o, al massimo, lo si ignora. Tale alternativa però non è costruttiva e darebbe luogo solo a ghetti e a violenze. Noi abbiamo perciò una sola scelta, profetica: prenderci a cuore questa realtà non come un peso in più che dobbiamo sopportare bensì come un grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere. È certamente uno stimolo straordinario che il mistero della storia, guidato da Dio, ci ha rivelato per gli ultimi tempi del secondo millennio. Sta a noi accoglierlo nella maniera giusta.

Nell’ottica cattolica, la «provvidenza» è un concetto teologico che si riferisce alla credenza che Dio governi e guidi l’universo con saggezza e amore. In altre parole, la provvidenza rappresenta la convinzione che Dio abbia un piano divino per la creazione e che Egli intervenga nella storia e nella vita delle persone per il bene supremo. 

La «scelta profetica» nell’ottica cattolica si riferisce a decisioni o azioni compiute da individui che sono ispirate da una chiamata o una visione divina. Un profeta, nella tradizione biblica, è una persona che è stata scelta da Dio per ricevere messaggi divini e trasmetterli alla comunità. Queste scelte profetiche sono considerate strumenti attraverso i quali Dio guida il suo popolo e rivela il suo piano. 

Secondo l’arcivescovo si tratta quindi di interpretare il «segno dei tempi» come un’occasione per manifestare la propria aderenza al Vangelo.

Naturalmente – e anche per questo si celebra il presente convegno – una lettura profetica del fenomeno in vista di una futura Europa multietnica non esime dalla fatica improba di affrontarlo con decisione, con idee chiare, con provvedimenti precisi.

Non basta lanciare una grande idea; occorre tradurla in forme concrete di accoglienza. Viene qui chiamata in causa la società civile e la società politica, e sembra comincino, grazie a Dio, a dare risposta, mentre, al tempo dei miei primi interventi, non ne sentivano ancora l’urgenza.

Siamo quindi estremamente interessati a quanto sta avvenendo in questi giorni e a quanto avverrà nei prossimi mesi; seguiamo con trepidazione la legislazione che è stata promulgata recentemente e le fasi difficili della sua applicazione. 

Il decreto-legge 416 del 30 dicembre 1989 (poi convertito in legge nel febbraio successivo), cioè la cosiddetta legge Martelli, dal nome del Vicepresidente socialista del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, era uno dei primi interventi organici sul problema. La legge – che convertiva il decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416 – nasceva dalla necessità di affrontare un problema nuovo, in un’Italia improvvisamente diventata terra di immigrazione nel quindicennio precedente, dopo una storia nazionale definita dall’emigrazione. La norma venne emanata con lo scopo di regolare organicamente l’immigrazione, ridefinire lo status di rifugiato, introdurre la programmazione dei flussi dall’estero, precisare le modalità di ingresso e respingimento alla frontiera e il soggiorno in Italia. Conteneva l’importante abolizione della riserva geografica della Convenzione di Ginevra del 1951, che limitava ai soli europei lo status di rifugiati. Si componeva di 13 disposizioni che trattavano in modo generale la materia, successivamente abrogate dalla Legge Turco-Napolitano del 1998, a sua volta superata dalla più restrittiva Bossi-Fini del 2002.

Ci sentiamo vicini a tutte le forze dell’ordine e alle realtà istituzionali coinvolte in questo immane sforzo; in particolare, agli addetti degli uffici stranieri delle questure, sui quali grava un cumulo di lavoro cui confidiamo possano far fronte con pazienza ed efficienza .

I doveri delle comunità cristiane

Per quanto riguarda le comunità cristiane, alcuni doveri fondamentali sono emersi fin dall’inizio e si chiariranno sempre meglio. Innanzitutto il dovere immediato di assistenza a chi è in necessità spesso grave; posso testificare che ci si sta impegnando, anche in situazioni di emergenza e di sforzo assai difficili. Le comunità, le parrocchie, i volontari, la Caritas, le associazioni, i gruppi, stanno facendo moltissimo.

Voglio ricordare i libanesi ospitati nei Paesi lungo la frontiera svizzera, l’ultima emergenza di questi giorni, che ha fatto scattare la generosità delle parrocchie; ne ho visitata recentemente una, nella zona verso la Val Ceresio, che ospita nell’oratorio quindici libanesi. Non è facile organizzare una simile accoglienza da un giorno all’altro, senza niente e in condizioni climatiche sfavorevoli.

Nel corso del settembre 1989, numerosi sfollati provenienti dalla guerra civile libanese cercarono asilo in Svizzera, ma furono respinti alle frontiere. Di conseguenza, trovarono rifugio in diverse comunità della regione Lombardia, lungo il confine tra i due paesi, dove stabilirono diverse forme di residenza temporanea o permanente. Questo flusso migratorio e le conseguenti dinamiche di accoglienza nei territori lombardi costituiscono un tema di notevole interesse e complessità per la comunità dell’arcivescovo di Milano.

Oltre al gravissimo tema dell’assistenza, non dobbiamo però dimenticare, più a lungo termine, il tema dell’educazione, cioè dell’apertura della mente e del cuore verso chi viene da lontano. La richiesta di assistenza, infatti, si farà, col tempo, meno urgente, mentre il problema dell’integrazione della mente e dei cuori rimarrà. Questo secondo impegno è assai difficile. Occorrono un’immensa pazienza e un grandissimo amore per capire che chi è fuori dalla patria è spesso imprevedibile nei suoi comportamenti, sia perché noi non lo conosciamo sia perché la sua emotività può essere fortemente messa alla prova; chi è fuori dalla patria porta con sé i difetti propri della creatura umana, e non emigrano solo i santi. Da qui la necessità di un supplemento d’anima.

Un impegno che sarà lungo, che durerà venti o trent’anni; ma esso ha delle tappe che dobbiamo riconoscere. Tra le tante ce n’è una che dovrebbe iniziare dalle scuole elementari: la conoscenza delle culture da cui le persone provengono. In realtà, la storia che studiamo a scuola è molto europea e non contempla quasi nulla degli altri Paesi. Inoltre, occorre la conoscenza delle tradizioni etniche e religiose dei terzomondiali; sul musulmanesimo abbiamo delle idee vaghe, delle caricature, mentre il tema andrebbe approfondito. Come vescovi europei stiamo mettendo a punto un programma approfondito di conoscenza dell’islam, preparato da competenti, anche per i sacerdoti che devono per primi conoscere con più chiarezza la molteplicità, la ricchezza, la diversità delle tradizioni religiose, etniche, sociali, matrimoniali, che vanno sotto il nome generico di islam. Tutto questo richiede tempo e noi, oggi, non siamo ancora preparati.

Scorporando «assistenza» e «integrazione» l’arcivescovo si proietta su un orizzonte temporale più lungo, superando una visione prettamente emergenziale dell’immigrazione; Martini sostiene qui l’importanza della scuola come strumento di convivenza e integrazione, il fine ultimo, senza però pretendere l’immediata assimilazione dei nuovi arrivati. Non fa infatti appello ai migranti perché adottino le convenzioni del paese di arrivo, ma richiede prima di tutto da chi accoglie uno sforzo di comprensione e apprendimento. 

È notevole la sua insistenza sull’islam, fenomeno da conoscere e verso il quale, come ammette egli stesso, la Chiesa non è ancora attrezzata. In complesso discorso del 1990, Noi e l’Islam, Martini torna sul tema, rifiutando insieme la «noncuranza», prodromo dell’intolleranza, e lo «zelo disinformato» di chi equipara tutte le confessioni negando le loro specificità. Tra queste due ignoranze, Martini consiglia alla comunità cristiana «la posizione corretta», ovvero «lo sforzo serio di conoscenze».

Infine, si richiedono iniziative sempre più ricche di socializzazione. Non si socializza da sé; da sé si fanno ghetti, gruppi, mentre bisogna, invece, studiare iniziative che sciolgano, che mettano insieme. A Milano ne abbiamo avute delle bellissime: ricordo, tra le altre, quella dei campionati di sport tra le diverse realtà etniche presenti nella nostra città (Mundialito), che fa socializzare ragazzi di tutte le provenienze, culture, lingue.

Conclusione

La mia conclusione vorrebbe preludere al lavoro che farete questa mattina. Che cosa ci attendiamo dagli esperti, come comunità cristiana?

Abbiamo l’urgenza di capire bene la mutata situazione giuridica di questi giorni, a seguito del recente decreto. Bisognerebbe riuscire a coglierne le valenze e il seguito: quali saranno gli eventuali provvedimenti successivi, come valutare nell’insieme questo fatto, quali conseguenze per l’immediato futuro.

Come incompetente penso, ad esempio, che per alcuni di questi stranieri diminuiranno forse i bisogni più immediati (pane e lavoro), ma cresceranno e diventeranno più evidenti altri bisogni esistenziali oggi repressi, come quello dell’integrazione culturale e linguistica, dell’integrazione sociale e civile, della famiglia e degli affetti.

Ma mi domando ancora: il fenomeno clandestino scomparirà del tutto? Forse no, e allora dobbiamo capire che cosa dovremo fare, quale atteggiamento dovremo tenere come società civile e come comunità cristiana. L’Italia è tutta una frontiera e dovremmo realisticamente affermare che avremo sempre a che fare con questi problemi, se è vero che preme tutta una massa di persone, abili, capaci di lavoro, desiderose di migliorare la propria condizione.

È allora evidente che l’emigrazione non può essere l’unica soluzione della povertà di un Paese, e il problema diventa di economia internazionale; non possiamo pensare di provvedere adeguatamente al sottosviluppo di un Paese accettando delle larghe fasce di emigrazione. La comunità internazionale è chiamata a provvedere perché nessuno sia costretto a emigrare se non di propria volontà, se non per motivi nobili, seri, non per costrizione politica o economica. Se non ci apriamo a questa vastità di orizzonti, saremo sempre soltanto indaffarati a inseguire soluzioni settoriali.

Chiediamo agli esperti di insegnarci a leggere e ad affrontare il fenomeno più vasto dell’integrazione razziale in Europa. Quali sono le condizioni minime di integrabilità che occorre esigere o promuovere in chi viene accolto? Anche chi viene accolto deve compiere un cammino, perché l’integrabilità non va da sé, ci sono certe chiusure interiori, culturali o sociali o tradizionali, che non si conciliano bene con quella visione del cittadino e della libertà della persona che è la base comune del- la convivenza in Europa. Fino a quando le persone non sono molte, non ci si pensa, ma quando il numero aumenta, allora i diversi modi di essere si confrontano e possono scontrarsi fortemente.

Occorre dunque stabilire le condizioni minime di integrabilità e i modi per assicurarla con un lavoro educativo in tutti coloro che vengono in grande numero a fare parte della nostra famiglia e della nostra casa comune. Dobbiamo stabilire quali sono le regole minime della casa che tutti devono osservare, entrando a farne parte. In caso contrario non avremo una casa, ma un caos. Si tratta anche di un lavoro di elevazione morale e civile. Il tema è difficile e però sarebbe ingiusto e disonesto non considerarlo.

Il problema ritorna alla sua radice fondamentale, per me che parlo come rappresentante di una comunità cristiana. Come favorire nelle nostre comunità una vera cultura di accoglienza, che sappia affrontare coraggiosamente, giorno per giorno, quel gomito a gomito che può creare o esasperazioni e distanze oppure un appello a una conversione più profonda, a un farsi prossimo autentico, a una solidarietà vera?

Questa è la grande occasione storico-salvifica che ci troviamo davanti. Ed esprimo la più viva gratitudine a voi che ci aiutate a non perdere tale occasione, a non lasciar passare invano quest’ora della storia, a non essere ancora una volta ignavi e pigri di fronte a una sollecitazione simile a quella del ferito lungo la via (cfr. Lc 10,30-37), alla quale non tutti hanno risposto.

A noi l’impegno di farci prossimi davvero, pure in questa circostanza. 

Note
  1. Commissione CEI per le migrazioni, Ero forestiero e mi avete ospitato, 4 octobre 1993. In Enchiridion Cei, vol. V, p. 1555.
  2. Ibid., pp. 931ss.
  3. Chenu M.D., I segni dei tempi, in La Chiesa nel mondo contemporaneo, Ed. Queriniana, Brescia, 1966, pp. 85‑102
  4. Farsi prossimo I, pp.513-521 (la relation date de 1986, mais fut publiée en 1989).
  5. “Un segno dei tempi che interpella i cristiani nella città”, in Carlo Maria Martini, Giustizia, etica e politica, cit., pp. 790-803.
  6. Carlo Maria martini, Giustizia, etica e politica, cit., pp.859-877.
  7. Farsi prossimo I, pp. 532-552.
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