Dopo l’Acropoli di Andrea Marcolongo, la Los Angeles di Alain Mabanckou, la Provenza di Carlo Rovelli, le sponde di Beirut attraverso gli occhi degli artisti Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, i gradini della villa Malaparte con Pierre de Gasquet e la Sicilia di Jean-Paul Manganaro, restiamo in Italia per questa preziosa conversazione con Nicola Lagioia, tra Bari ed il piccolo villaggio di Capurso.
Preparando l’intervista abbiamo pensato fosse interessante parlare di un luogo dove non è nato, ma ha trascorso parte della sua infanzia, e che ha influenzato il suo approccio alla letteratura e alla scrittura. Cosa le viene in mente?
Io sono nato a Bari, ma i miei genitori sono nati a Capurso, i miei nonni hanno vissuto a Capurso, un piccolo paesino della provincia barese, a circa dieci chilometri dal capoluogo. Buona parte della mia infanzia l’ho vissuta tra questi due mondi, uno agganciato al XXI secolo e un altro che non lo era ancora. Da un lato Bari, la città grande, moderna, culturalmente vivace, che chiamavano la Milano del sud, dall’altro Capurso, ancorata alla civiltà contadina, una condizione che percepivo concretamente: i miei nonni materni venivano da una famiglia di coltivatori diretti, e quindi da un contesto molto preciso, perché la civiltà contadina è rimasta simile a se stessa per secoli, almeno fino al Novecento. Mia nonna è nata nel 1916 ed è ancora viva, ha compiuto 107 anni lo scorso 6 giugno, mentre mio nonno era nato nel 1908: Capurso per me è stato un punto di contatto con questa società di un tempo lontano, rappresentato non soltanto dai miei nonni, ma più in generale dagli anziani del paese.
Ed è stato per lei anche il primo approccio alla tradizione orale.
I primi narratori che ho incontrato erano delle narratrici. La cosa bella dei paesi piccoli è che i bambini sono patrimonio di tutti, si possono lasciare liberi senza particolari problemi: si sa che qualcuno se ne occuperà. Così, quando i miei avevano da fare mi lasciavano dai nonni, che a loro volta se avevano da fare mi affidavano alle anziane del paese. Capurso era, ed è tuttora, un paesino agricolo, fatto da case contadine piuttosto simili, con una piccola differenza: quelle un po’ più ricche avevano più ambienti e uno spazio esterno, tendenzialmente l’orto, mentre le casupole più povere erano costituite da un solo ambiente, con l’unica luce che entrava dalla porta. Nella stanza principale c’era un tavolo grande, rotondo, dove si sedevano le donne anziane, che potevano sembrare le streghe di Macbeth, a fare le orecchiette: con un colpo di dito preciso trasformavano l’impasto in pasta. Naturalmente la procedura durava giornate intere e, davanti a questo patrimonio comune che si doveva trasformare in pasta, le anziane raccontavano le loro storie, che in alcuni casi erano vere, ma altre volte del tutto inventate. Parlavano per esempio del marito morto che aveva detto loro di fare una determinata cosa, di aver visto altre persone durante la notte o il giorno: il punto è che non sempre raccontavano di aver sognato, spesso i racconti pretendevano di essere veri, seri.
Ricordo nitidamente un racconto di una di queste signore anziane, che disse di aver trovato, pulendo il pesce, al suo interno, un bigliettino di una persona morta, in cui le venivano recapitati una serie di messaggi. Era ovvio che non fosse successo, ma perché? Come le era venuto in mente di inventare una cosa del genere? Evidentemente era una questione proprio di cultura del racconto, o riportavano cose dette da qualcun altro o mettevano insieme vari pezzi ascoltati. È in quel momento che per la prima volta ho visto in opera l’arte di raccontare storie in maniera “professionale”.
Quali sono gli odori le sensazioni che le ricordano quel momento della sua vita legato a Capurso? Quali sono le madeleines di Proust di Nicola Lagioia?
L’odore della salsa in cottura, senza dubbio. Con i pomodori raccolti si facevano poi i barattoli di sugo, in giardino, in delle enormi pentole, le buatte, che sprigionavano un odore persistente e buonissimo. Ma anche la pineta, che è caratteristica soprattutto delle parti di Taranto per la verità, perché in quelle zone il caldo fa alzare un aroma di pino e resina molto forte, che è proprio l’insieme di mare, alberi, salsedine. Un odore quasi pesante. E poi non so perché, ma anche l’odore di cacca di conigli e di galline, che tra l’altro ora che ci penso ricorda la grande differenza tra la generazione di mia nonna e quella di mia madre: tra chi era abituato ad ammazzarli, e quindi a macellare proprio in casa, e chi invece no. Insomma, fino agli anni 50 questa capacità di avere a che fare con gli animali della fattoria era un tratto importante della cultura, della vita delle persone, poi non più, e mi ricordo infatti che le anziane insultavano bonariamente mia madre perché non era in grado di farlo. E poi un’altra cosa ancora, sempre legata a quel momento di vicinanza alla civiltà contadina, era l’odore del vino, ma un vino rozzo, un moscato forse più simile al mercurio, quasi sciroppo d’aceto.
Lei oggi vive a Roma, che è una grande metropoli, ed è nato a Bari, che certamente non è una città piccola, ma sono entrambi esempi di grandi ambienti urbani, piuttosto lontani dalla provincia italiana classica. L’infanzia a Capurso le ha permesso di conoscere anche la civiltà contadina di cui parlava prima: quanto ha inciso questo vissuto sulla sua formazione di scrittore?
È stato fondamentale, perché mi ha consentito di avere un’esperienza e un retroterra che molti ragazzi nati e cresciuti nelle città non hanno. Per dire, quando ho visto per la prima volta Viaggio in Italia di Rossellini, per me non c’era nulla di nuovo o sconosciuto: la processione in Sicilia con il miracolo che racconta Rossellini io l’avevo già vista e vissuta mille volte, perché anche a Capurso c’era la festa della Madonna del pozzo che era una festa grandiosa, con tutto il paese in piazza, i fuochi, i carri. Tra l’altro questa espressione della tradizione popolare mi ha anche permesso di vedere l’effetto del sacro sulle persone, la capacità di colpirle. Mi ricordo che durante questa processione mio cugino si commuoveva, ne era rapito, una commozione che ho poi rivisto alla cattedrale San Nicola di Bari qualche anno fa, dove c’era un ragazzo – che avrà avuto 18 anni – che guardava le ossa del santo con uno sguardo di struggimento nell’adorazione della reliquia. Certo, c’erano anche manifestazioni di profonda ignoranza, come la tradizione di dipingere i pulcini, che venivano colorati di blu con una vernice evidentemente tossica che poi li uccideva dopo una settimana, però appunto, crescere all’interno di questo ambiente mi ha permesso di cogliere in profondità i tratti della civiltà contadina. E penso mi sia servito per il mio lavoro, perché mi ha aiutato ad avere uno sguardo più ampio.
Ha altri ricordi di quel periodo, sempre rispetto al folklore o appunto a delle esperienze quasi trascendenti?
Quel periodo mi ha regalato anche una certa familiarità con Napoli. Mio padre aveva un’azienda che faceva corredi, che all’epoca erano ancora importanti, e li vendeva ai grossisti in tutto il sud Italia, in Puglia, Sicilia e Basilicata, ma soprattutto in Campania. Spesso mi portava con sé, quindi ho avuto fin da bambino una grande consuetudine con Napoli, tanto da aver visto più volte Maradona allo stadio, a proposito di esperienze mistiche. La città stregata da Maradona la sentivo, la percepivo dentro e fuori allo stadio, c’era una sorta di fiato sospeso nell’attesa che lui facesse accadere qualcosa. È esattamente la sensazione descritta ne Il tennis come esperienza religiosa di Foster Wallace, la cui traduzione in italiano peraltro fu pubblicata da Minimum Fax, la casa editrice dove lavoravo: trovarsi di fronte a uno sportivo che non rispetta le leggi della fisica. Maradona era questa cosa qua.
Oltre a Maradona di Napoli ricordo un’altra cosa molto bella che da piccolo avrei considerato folklore e oggi invece considero cultura. Eravamo a un battesimo di gente facoltosa e, come tutte le feste al sud, il ricevimento stava durando tantissimo, c’erano gli acrobati, insomma tutto quello che uno si aspetta di trovare in queste situazioni. Improvvisamente, sarà stato alla quindicesima portata, si sente una sorta di spostamento d’aria, come se l’attenzione di tutti fosse stata calamitata in un punto. Ed era così, perché era arrivato Mario Merola! Per lui sarà stato il quinto battesimo del giorno, ma per chi lo ascoltava non aveva importanza: non ho quasi mai più visto una presenza scenica del genere, forse soltanto quando sono andato a vedere Nick Cave. Sembra un’esagerazione, ma non lo è, è una sensazione che ha provato mezza Italia durante un’edizione di Sanremo a cui erano invitati gli U2. A un certo punto, durante Miss Sarajevo, Bono, come spesso accade durante i suoi concerti, scende dal palco e comincia a fendere la folla seduta sulle poltrone rosse dell’Ariston. Il cantante attraversa la platea tra gli applausi ma improvvisamente si ferma, perché di fronte a lui si staglia una figura, ferma, con le braccia lungo i fianchi, che lo guarda. È Mario Merola. Passa una frazione di secondo, poi Merola annuisce e comincia ad applaudire come gli altri. Bono si inchina, e torna indietro, sempre tra gli applausi. Ecco, soltanto se hai un carisma fuori dal comune riesci a piazzarti davanti a Bono Vox in quel modo e a farlo inchinare di fronte a te.
Insomma, senza Capurso non avrei visto né Maradona né Mario Merola.
Questa cosa degli “arricchiti” si vede molto nei suoi romanzi, è quasi un filo conduttore.
Del mondo che ho vissuto, fatto di piccoli commercianti, agenti di commercio, fabbricanti di tessuti, rivenditori di materassi, purtroppo quelli come me, gli intellettuali, gli scrittori, ne hanno poca esperienza, poca conoscenza. Non li capiscono! La mia infanzia mi ha invece permesso di vedere questo lato della società italiana, che poi ho inevitabilmente comparato con gli ambienti altoborghesi che ho cominciato a frequentare quando ho iniziato a fare lo scrittore e più in generale a lavorare nel settore della cultura, al Salone di Torino e al Festival del Cinema di Venezia. Così ho sviluppato non un odio di classe come quello dei miei amici marxisti, ma un diverso fastidio: questi che sono ricchi da generazioni non li sopporto, mentre ho sempre trovato fantastici i personaggi che si sono arricchiti in brevissimo tempo. Diventavano ricchi e fallivano altrettanto rapidamente magari, ma avevano un atteggiamento che nei ricchi da generazioni è inesistente, una sorta di obbligo sociale di offrire a tutti, di assumere parenti, quasi di restituzione territoriale. Spesso non pagavano le tasse e però non le pagavano perché per generazioni erano stati calpestati, umiliati dai “padroni del nord”, e quindi consideravano lo Stato un nemico. Berlusconi era amato da questa classe sociale perché in fondo era uno di loro che ce l’aveva fatta, ingigantiva un’esperienza che la piccola borghesia conosceva molto bene: io non l’ho mai votato e mio padre sì, cosa che peraltro ha causato innumerevoli discussioni tra noi, però comprendo perfettamente il fenomeno.
Tra l’altro non è un fenomeno soltanto italiano. Mi ricordo che i ricami dei tessuti dei corredi si facevano dapprima in Italia, ma poi la manodopera arrivò a costare troppo, e quindi le aziende come quella di mio padre si rivolgevano ai sarti di Madeira in un primo momento, e in un secondo addirittura all’Asia. Questo ci ha fatto avere a che fare addirittura con ministri e sottosegretari, perché si trattava di commesse molto grandi, e naturalmente anche con “arricchiti”. L’esperienza con mio padre mi ha fatto vedere dei tipi umani che altrimenti probabilmente non avrei mai visto, con questa gestione disastrosa della ricchezza. Per dire, a Bari, all’epoca, l’elemento distintivo dell’improvviso benessere era comprare bestie feroci come leoni o tigri da mettere nel giardino, come se fossero animali domestici. Poi però diventavano veramente pericolosi e quindi queste persone le restituivano.
Tutto questo ha avuto un’influenza nella scrittura?
Tantissimo, perché ovviamente prendo a piene mani da quanto ho vissuto per costruire i miei romanzi. E anzi, nella mia frustrazione di non essere riuscito a raccontare quanto avrei voluto c’è anche un lato positivo, se devo ragionare da scrittore: mi sembra che si sia ancora molta sproporzione tra le esperienze che ho accumulato e quello che ho scritto, vuol dire che c’è ancora terreno fertile. Tornando alla diversità dei tipi umani che ho incontrato, è stata fondamentale: La città dei vivi ha funzionato proprio perché dentro c’era di tutto, per raccontare quella storia ho avuto a che fare con il borghese, con l’arricchito, il prostituto, lo spacciatore, persone con pochi tratti in comune tra loro.
Ed è stato possibile perché fin da piccolo ho imparato ad avere a che fare con tutti, sono abituato a non guardare nessuno dall’alto in basso e a considerare qualunque persona di cui incontro lo sguardo degna di attenzione. Trovo sia bellissimo l’incipit del Grande Gatsby di Fitzgerald, quando l’io narrante, di una famiglia benestante e borghese, introduce la sua intenzione di raccontare la storia di uno che si è arricchito col crimine, Gatsby appunto. E prima di farlo ricorda il consiglio del padre, che gli dice di non non giudicare mai con troppa facilità gli altri, perché non tutti hanno avuto la possibilità che ha avuto lui, nato benestante e senza particolari problemi.
Ora, io questa cosa ce l’ho ben presente e per la letteratura è fondamentale. Molti pensano che la letteratura serva a denunciare, invece secondo me il punto è capire com’è fatta una persona e comprenderla, raccontare senza giudicare. Anche un assassino o un malvivente è un essere umano e la sua storia può meritare di essere raccontata. Peraltro tutta la letteratura occidentale si basa su questo assunto: Achille o Ulisse non erano certo degli stinchi di santo, uno era un narcisista, violento, attaccabrighe, orgoglioso, l’altro un ingannatore, eppure empatizziamo, ci appassioniamo alle loro storie. Madame Bovary è una mitomane, eppure ci interessa.
Tornando al suo rapporto con la città, che rapporto ha con Bari, dove è nato e si è formato al liceo e all’università? La Bari dove è cresciuto lei era molto diversa dall’attuale, che ha subito una certa gentrificazione, come altri capoluoghi del sud.
Bari aveva questa cosa fantastica all’epoca in cui io ero piccolo, e cioè che era divisa per zone, tra quartieri borghesi e quartieri “off”, dove era proprio sconsigliato entrare. C’è questo aneddoto su Jacques Le Goff, che arriva a Bari e vuole a tutti i costi andare a vedere Bari vecchia, che all’epoca era un quartiere piuttosto malfamato. I suoi ospiti glielo sconsigliano fortemente, ma lui non sente ragioni, è un medievista, si trova in uno dei quartieri medievali meglio conservati, e vuole andarci a tutti i costi. Risultato, appena entrato a Bari vecchia viene letteralmente portato via, nel senso che fu scippato e trascinato per diversi metri perché non lasciava andare la borsa. Insomma la città era questo in alcuni quartieri.
Altri posti “off” erano il CEP e Japigia, che poi erano le zone delle droghe pesanti, diverse non soltanto per la sociologia, ma proprio per l’alfabeto: la lingua corrente era solo e soltanto il dialetto, il dialetto ma anche un certo atteggiamento rispetto alla vita. La prima volta che andai a comprare il fumo a Japigia fui impressionato dalla velocità con la quale gli spacciatori si avvicinavano e ti chiedevano cosa volessi. C’era uno che si chiamava Toquinho che vendeva il fumo in mezzo a un pratone, senza alcuna preoccupazione di essere visto o intercettato: aveva un bustone da cui staccava 10, 20 grammi, a seconda di quanto ne volessi. Poi c’era un’altra spacciatrice che si chiamava La Signora, e che però oltre alla droga vendeva anche generi alimentari, era un mix di prodotti che soltanto in quel contesto poteva avere senso.
Quanto c’è di folklore in tutto questo?
C’è, ma fino a un certo punto. I tipi umani che ho incontrato mi sono serviti tantissimo: La Ferocia potevo ambientarla altrove, non è un romanzo che ha bisogno di Bari, perché la storia è in qualche modo universale, ma il punto è che i tipi umani al suo interno sono quelli di Bari, cioè le dinamiche che si instaurano potevano venire fuori solo da lì, e quei personaggi sono credibili solo in quel contesto. È un po’ come i film di Totò: puoi girare un remake in un’altra lingua con altri personaggi e scoprire che la trama in fondo funziona, ma perde la sua particolarità originale.
Era importante frequentare questi posti e queste persone, perché erano sì malviventi, ma avevi il contatto con gente che viveva in maniera completamente diversa dalla tua, che parlava in maniera completamente diversa e che però dietro aveva un sacco di sorprese. Mi ricordo di avere incontrato al CEP un contrabbandiere di sigarette, che oltre alla sua attività malavitosa vendeva anche fumetti: non so come riuscisse a procurarsene moltissimi, soprattutto numeri arretrati introvabili, che poi vendeva fuori alle scuole. E io che ero un tossico di fumetti mi ci rifornivo spessissimo, e gliene chiedevo proprio di precisi se ne avevo bisogno. Una volta mi servivano dei numeri di Alan Ford, ma lui si dimenticava sempre di portarmeli, così mi invitò a casa a prenderli.
Convinco mia madre ad accompagnarmi al CEP, una cosa inaudita per lei perché appunto, in quei quartieri non si andava mai, e una volta arrivati dimentico l’indirizzo. Quindi cosa faccio, comincio a chiedere dove abitasse il signore che vendeva i fumetti, ma nessuno mi sapeva rispondere. Allora mi ricordo che questo signore aveva dei gatti che sapevano contare, nel senso che erano addestrati a premere un campanellino e rispondere in questo modo alle addizioni. Lui chiedeva quanto facesse 4+3 e il gatto faceva suonare il campanellino 7 volte. E una volta gli chiesi “ma come fanno a contare?” e lui rispose “E allora devi vedere la madre, la madre parla!”. Così, ricordandomi che stavo al CEP e dovevo cambiare alfabeto, chiedo in dialetto: “Scusi, dove abita quello che ha i gatti che parlano?”, e immediatamente la faccia del mio interlocutore cambia “e potevi dirlo prima! Abita lì!”.
Tra l’altro la storia di Toquinho, lo spacciatore di Japigia, è a lieto fine. Anni dopo, ero a presentare Riportando tutto a casa nel carcere di Bari, e racconto questa storia. Alla fine della presentazione uno dei carcerati si avvicina, e mi dice che Toquinho, dopo essere stato arrestato, si era redento: ha fatto il carcere, poi ha studiato per un concorso, l’ha vinto, e oggi fa il bidello.
Che ricordi ha della Bari da studente universitario? E quanto è cambiata la percezione della sua regione, la Puglia, che oggi è una delle regioni più interessanti d’Italia, non soltanto per il turismo e il vino, ma anche per la vivacità culturale?
Il mio rapporto con Bari è ormai relativamente distante, perché da un paio d’anni il periodo di vita a Roma ha superato quello vissuto a Bari: me ne sono andato da Bari a 23 anni. Ci resto legato però, e sono molto legato a quel momento della mia vita, perché ho visto la città cambiare. Bari aveva sì i quartieri periferici che ho descritto, ma anche il centro, che non era soltanto il quartiere dei professionisti ma un luogo fortunato, con una grande scena musicale. Certo non paragonabile a quella di Milano o Firenze, ma ospitava una rilevante scena punk e post-punk, dove era possibile fare incontri interessantissimi, che per la mia formazione sono stati fondamentali. Quando ero a giurisprudenza notai un un avviso affisso sulla bacheca della facoltà, “cercasi appassionato di poesia”, così mi incuriosii e andai a vedere. In pratica degli altri studenti stavano mettendo su un circolo Arci, che si chiamava Metropolis, dove ogni giorno della settimana si organizzava un evento: il lunedì si discuteva di politica, e si chiamava “politeia”, il martedì si faceva il cineforum, il giovedì c’era “dedalus”, dove appunto si parlava di letteratura e poesia. Io ho passato ogni mio giovedì, per quattro anni, con questo gruppo di persone nel quartiere fra San Pasquale e Carrassi, un’esperienza meravigliosa che ha poi dato il via a una parte della mia vita professionale. Che fosse all’interno di riviste o meno, io ho sempre lavorato in gruppo, la gestione e la coltivazione di gruppi culturali è quello che ho fatto per tutta la vita e che continuo a fare, e che ha avuto come momento aurorale questo mio periodo universitario. Sono rimasto amico di molte persone che hanno riempito quel momento della mia vita. In particolare con il protagonista di quello che io considero l’avvio dell’uscita dal cono d’ombra della Puglia grazie alle arti: Andrea Piva, e suo fratello, Alessandro.
Quelli del film La CapaGira.
Sì, secondo me per la Puglia quel film è stato l’inizio della trasformazione, o meglio ha fatto emergere finalmente un movimento che esisteva già, ma era sotterraneo. Per lungo tempo la regione è stata poco rappresentata dal cinema, la letteratura e le arti, c’erano dei geni isolati, come Carmelo Bene, Andrea Pazienza, Pino Pascali ma non c’era una continuità da questo punto di vista. La Capagira è un film peraltro molto pugliese, è tutto girato in dialetto e racconta la storia di mezzi delinquenti, che frequentano una sala giochi: è esattamente il tipo di luogo che si poteva frequentare in quel periodo a Bari, per tutte le commistioni che raccontavo prima. Andrea Piva stesso ricordava, in qualche modo, i suoi personaggi, uno che al mattino leggeva Eliot e la sera andava a giocare a biliardo in posti ambigui. Quella fauna lì ha prodotto un film che è super locale ma per come è girato può ricordare lo stile di Jarmusch, perché tiene insieme questo doppio binario composto dalla città più marginale e dalla città che in fondo era intellettualmente all’avanguardia.
Quanto c’entra anche lei in questa rinascita culturale della Puglia?
L’ondata di rappresentazione narrativa è stata fatta effettivamente, nella maggior parte dei casi, da fuoriusciti, da persone che in realtà se ne sono andate, non vivono più in Puglia. Però quel momento, inizio anni Duemila, ha coinciso con la vittoria di Nichi Vendola, diventato presidente della regione nel 2005, quindi il merito è anche di chi è rimasto. La vittoria di Vendola sembrava impossibile visto il profilo: di sinistra, omosessuale, fuori dalle logiche di potere che avevano governato la regione per cinquant’anni. Invece era l’uomo giusto al posto giusto, aveva colto il momento culturale che stava attraversando la Puglia e che aveva preparato una svolta politica. Mia madre votava DC e l’ha votato convintamente, è stato l’unico a far dire alle mamme pugliesi tradizionaliste: “Figlio mio perché tu non sei omosessuale?”. È fantastico! Vendola ha cambiato la percezione della Puglia, ma anche dei pugliesi di se stessi, molto più di noi che eravamo andati via, in fondo, è riuscito a stregare persone che mai avrebbero votato un omosessuale di sinistra.
Carofiglio, De Cataldo, i Negramaro avevano già cominciato a mettere luce sulla Puglia, però lui è stato una sorta di campana, la politica arriva sempre dopo, ma in questo caso è arrivata eccome. Vendola prese il meglio dell’esperienza progressista mettendola insieme a quella cattolica più di sinistra, che oggi possiamo vedere nel cardinale Zuppi, ma anche in Papa Bergoglio. In più, l’esperienza di Vendola mostra che nel sud, su alcuni temi, l’emancipazione è più avanti rispetto al nord: gli unici due presidenti di regione omosessuali sono stati appunto Vendola e Rosario Crocetta in Sicilia.
Per tutto quello che ci siamo detti, il rapporto letterario con la terra delle mie origini è più facile rispetto a chi si deve confrontare con luoghi mitici per la letteratura italiana come Trieste o Roma, dove inevitabilmente il confronto con chi è venuto prima di te è impietoso. Con la Puglia io mi sentivo come Walt Whitman: affrontavo una terra poco raccontata, e quindi mi sentivo in potere di piantare la bandierina, ero uno dei primi a parlarne, era poco conosciuta, ed è ancora una terra vergine da questo punto di vista.
Quanto conta il dialetto nella sua scrittura e quanto conta più in generale nella letteratura italiana? L’Italia da questo punto di vista è quasi un unicum in Europa, abituata a Paesi con lingue diverse e una dignità letteraria autonoma (come la Spagna, o al Belgio) ma meno a Stati dove la parlata locale è così distintiva, non soltanto nella vita quotidiana ma anche, appunto, nella scrittura.
Per me il dialetto è fondamentale, io ce lo metto, lo utilizzo, e ho anche una certa familiarità con lingue di altre zone, come il napoletano o il siciliano. Però se ci rifletto mi pare che la sua prima funzione sia quasi l’insulto, lo scatto: mi viene in mente che poche settimane fa ero in motorino e avevo di fronte delle persone che avevano fatto un’infrazione e mi avevano anche insultato, e io mi sono trasfigurato e gli ho detto in dialetto “ora ti rompo la testa”, e loro chiaramente non hanno capito cosa stessi dicendo ma hanno capito che era una frase aggressiva. Il dialetto è la lingua dell’insulto, ma anche la lingua che esce prima di fare a botte (o per evitarle), insomma la dinamica del “lasciatemi, lasciatemi” un attimo prima dello scontro, e poi del “mantenetemi mantenetemi” per scongiurarlo. È anche la lingua che serve a concludere gli affari rapidamente, per farsi capire meglio: a Bari si dice sempre “una parola è poco e due sono troppe”, e il dialetto è il territorio che sta in mezzo.
Che tipo di rapporto si instaura con i lettori pugliesi? Esiste con loro una relazione particolare oppure no?
Per la verità il rapporto si instaura solo con i pugliesi che incontro fuori dalla Puglia, perché ci si ritrova tra “esuli”, e dunque basta questo per avere un terreno comune. Per me tornare a Bari a presentare i miei libri è difficile: è il tuo luogo di origine e in realtà ti senti meno protetto, ti può capitare la fidanzata che avevi a 15 anni, lo spacciatore, l’ex compagno di classe, l’ex professore. È una cosa che condivido con Francesco Piccolo per Caserta o con Domenico Starnone a Napoli, anche per loro è più difficile parlare di fronte a un pubblico che conoscono intimamente. Nel posto da dove vieni sei nudo, ci possono essere in platea persone che ti hanno visto quando hai pianto per amore o che ti hanno visto vomitare da ubriaco; sei sguarnito davanti a loro rispetto a qualunque altro luogo, chi ha avuto accesso alla tua adolescenza o alla tua giovinezza è diverso. Certo mi andrei a mangiare o bere una cosa subito dopo con molte persone sedute in platea, ma andare lì a portare un mio libro è straniante, vorrei subito scendere dal palco, perché poi per me Bari è una città di ricordi, mentre per gli altri è un posto vivo, che si evolve. Ne abbiamo una percezione diversa. Ma è inevitabile.