Geopolitica

La dottrina Morawiecki: il piano della destra radicale polacca per riorganizzare l’Europa

A pochi mesi dalle elezioni e a più di un anno dall’invasione dell’Ucraina, il PiS polacco ha una nuova dottrina europea. Traduciamo e commentiamo per la prima volta in francese il “discorso della Sorbona” di Mateusz Morawiecki pronunciato martedì scorso a Heidelberg. Un programma da studiare molto attentamente

Autore
Valentin Behr
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Il 20 marzo 2023, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha tenuto un discorso sull’Europa e sui valori europei a Heidelberg. La conferenza del capo di governo polacco è in linea con i discorsi sul futuro dell’Unione europea tenuti dal presidente francese Emmanuel Macron (La Sorbona, settembre 2017) e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz (Praga, agosto 2022). Questo importante documento offre la prospettiva di un leader dell’Europa centrale, il cui ruolo politico nell’Unione europea si è rafforzato dopo la guerra in Ucraina, qui descritta come una «svolta storica». Morawiecki espone una visione delle sfide che l’Unione deve affrontare e dei modi per affrontarle, in netto contrasto con quelle proposte dai suoi omologhi francese e tedesco.

Sua Magnificenza, Professor Eitel, 

Signor Primo Ministro Kretschmann, 

Signore e Signori, 

Cari studenti

Vi ringrazio molto per l’invito a Heidelberg. È per me un grande onore parlare qui, in una delle più antiche università del continente. È un luogo che ha formato decine di generazioni di europei eccellenti. Molti grandi tedeschi, naturalmente, ma anche molti polacchi. Uno di loro è stato addirittura rettore.

Heidelberg è una città bellissima, costruita e coltivata per generazioni. Eppure questa meravigliosa città, che per molti versi è un microcosmo dell’Europa, è stata testimone di molto male, violenza, guerra e atrocità. Oggi, purtroppo, esse tornano nel nostro continente.

L’Europa si trova di fronte a una svolta storica, più importante di quella affrontata durante la caduta del comunismo, perché per la maggior parte della popolazione del continente quei cambiamenti furono pacifici, mentre oggi, quando il mondo intero è minacciato da una guerra di aggressione russa, vengono in mente i tempi di 70 e 80 anni fa.

Oggi voglio parlarvi di quattro questioni fondamentali per il futuro dell’Europa. Dividerò quindi il mio discorso in quattro sezioni, e in ognuna di queste sezioni farò riferimento a quella che considero una questione fondamentale: il ruolo degli Stati nazionali.

Comincerò con il primo grande tema: 

1. Cosa ci insegna oggi la storia dell’Europa

Poi, passerò a:

2. L’importanza della lotta dell’Ucraina contro la Russia e quali conclusioni possiamo trarre per l’Europa dalla guerra in Ucraina.

Più avanti affronterò un terzo tema: 

3. Che cosa sono i valori europei e che cosa li minaccia attualmente

Infine, discuterò il quarto punto

4. Come l’Europa può assumere il ruolo di leader globale

  1. Cosa ci insegna la storia dell’Europa

Se ci chiediamo cosa può insegnarci la storia dell’Europa, vorrei iniziare dalle nostre relazioni, quelle tra polacchi e tedeschi. Siamo stati vicini per oltre undici secoli,  abbiamo vissuto, lavorato, ci siamo preoccupati e abbiamo risolto i nostri problemi fianco a fianco e spesso insieme. Abbiamo fondato le nostre prime università nello stesso periodo: a Cracovia nel 1364, a Heidelberg nel 1386. Nel corso dei secoli ci sono stati molti polacchi di origine tedesca o tedeschi di origine polacca e slava. Oggi, polacchi e tedeschi lavorano a stretto contatto dal punto di vista economico, il che crea interdipendenza. Siamo il quinto partner commerciale della Germania, dopo Cina, Stati Uniti, Paesi Bassi e Francia. Presto passeremo al quarto posto, superando la Francia. E poi addirittura al terzo. Molti non se ne rendono conto, ma la Russia è al 16° posto. 

E la Polonia, insieme ad altri Paesi del Gruppo di Visegrad, è oggi un partner molto più importante della Cina o degli Stati Uniti. Vale la pena sottolineare l’importanza che Germania e Polonia rivestono l’una per l’altra. E sebbene abbiamo prospettive diverse su alcune questioni, condividiamo anche molti problemi comuni che devono essere superati insieme.  

Morawiecki esordisce ricordando l’importanza cruciale della Polonia, e più in generale dei Paesi dell’Europa centrale, come partner economico della Germania, in un contesto in cui è soprattutto la dipendenza di questo Paese (e di altri in Europa) dal gas russo a essere al centro del dibattito dall’inizio della guerra in Ucraina. 

L’obiettivo del leader polacco è relativizzare il carattere presumibilmente periferico – e quindi trascurabile, nel gioco geopolitico e negli scambi economici – dell’Europa centrale rispetto all’Europa occidentale. Sull’importanza degli scambi economici (diseguali) tra i Paesi di Visegrad e i loro vicini europei, si può fare riferimento a Thomas Piketty, «2018, l’anno dell’Europa» (16 gennaio 2018).

La Polonia lotta ancora oggi con la crudele eredità della Seconda Guerra Mondiale.  Abbiamo perso l’indipendenza, la libertà e oltre 5 milioni di cittadini, molte città polacche sono state lasciate in rovina e oltre mille villaggi sono stati brutalmente pacificati. 

Mentre la Germania occidentale ha potuto svilupparsi liberamente, la Polonia ha perso 50 anni del suo futuro a causa della Seconda Guerra Mondiale. Non voglio soffermarmi su questo tema nel mio discorso, ma non posso trascurarlo… La Polonia non ha mai ricevuto dalla Germania un risarcimento per i crimini della Seconda Guerra Mondiale, per la distruzione, la sottrazione di beni e tesori della cultura nazionale. 

Dopotutto, la piena riconciliazione tra un colpevole e la sua vittima è possibile solo quando c’è un risarcimento. In questo momento cruciale della storia europea, abbiamo bisogno di questa riconciliazione più che mai, perché le sfide che abbiamo di fronte sono gravi. La storia dell’Europa – con la sua ferita più grande, la Seconda guerra mondiale – ha spinto il mio Paese, insieme a molti altri, dietro la “cortina di ferro” per quasi mezzo secolo. 

Insieme ai miei coetanei, siamo cresciuti, siamo andati a scuola, abbiamo intrapreso un lavoro o degli studi all’ombra dei crimini comunisti. Milioni di giovani europei che vivevano dietro la cortina di ferro sapevano che da una parte c’era la libertà e dall’altra il colonialismo russo; sovranità per alcuni, dominazione imperiale per altri; da un lato, la tanto desiderata Europa libera, dall’altra, un totalitarismo barbaro: la vita sotto il tallone della Russia sovietica.

Se qualcuno ci avesse detto che avremmo vissuto per vedere la fine del comunismo, non gli avremmo creduto. Come la maggior parte degli esperti occidentali di Russia sovietica. Eppure è successo!  La Solidarietà polacca – “Solidarność” – la guerra in Afghanistan, Papa Giovanni Paolo II e la dura posizione degli Stati Uniti durante l’era Reagan hanno portato alla caduta del comunismo criminale. 

Era arrivato il tempo della democrazia. 

Oggi vorrei sottolineare il ruolo della sovranità dello Stato nazionale nel mantenere la libertà delle nazioni.

La lotta delle nazioni schiavizzate dell’Europa centrale era, fondamentalmente, una lotta per la sovranità nazionale. Questa questione ha unito i patrioti in tutto lo spettro politico,  perché credevamo che i nostri diritti e le nostre libertà potessero essere salvaguardati solo nel contesto di Stati sovrani riconquistati.

Con questo richiamo storico, Morawiecki si inserisce in continuità con la “politica storica” sostenuta dal PiS, che consiste nel difendere il «punto di vista polacco» sulla storia per rivendicare la propria grandezza morale in contrapposizione ai suoi vicini, in particolare alla Germania. Il risvolto concreto di questa posizione si può ravvisare nelle richieste, avanzate dal governo polacco alla Germania, di riparazioni di guerra per le immense perdite umane e materiali causate dal Terzo Reich alla Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Su questa spinosa questione, che il governo tedesco ha liquidato come giuridicamente chiusa, si veda Mateusz Piątkowski, «The legal questions behind Poland’s claim for war reparations from Germany» (Note dalla Polonia, 9 settembre 2022).

Inoltre Morawiecki presenta l’esperienza comunista in Polonia come una semplice occupazione sovietica, contro la quale la società polacca nel suo complesso si sarebbe sollevata prima di liberarsi grazie alle sue mobilitazioni (Solidarność, Giovanni Paolo II) e al sostegno americano (Reagan). La sua descrizione è in linea le interpretazioni preferite dal suo schieramento politico, ossia la destra nazionalista e anticomunista, ma questa visione semplicistica di una storia più complessa affonda le sue radici anche in una storia personale: il padre di Mateusz, Kornel Morawiecki (1941-2019), è stato una figura importante dell’opposizione anticomunista, fondatore dell’’organizzazione clandestina Solidarność Walcząca (Solidarietà Combattente) a Breslavia nel 1982, durante lo stato di guerra, dopo che il sindacato Solidarność era stato messo al bando e i suoi leader arrestati.

È in virtù di questa eredità storica, quella di una nazione che ha lottato per tutta la sua storia per l’indipendenza, in particolare contro il totalitarismo nazista e sovietico nel XX secolo, che Morawiecki presenta lo Stato-nazione non solo come caro ai polacchi, ma anche come il principale garante della democrazia di fronte alle tentazioni imperialiste, un argomento che svilupperà in seguito in relazione all’Unione europea.

Sulla politica storica in Polonia ci permettiamo di rinviare a Valentin Behr, «Genèse et usages d’une politique publique de l’histoire. La ‘politique historique’ en Pologne», Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 46, no. 3, 2015, e al dossier coordinato da Frédéric Zalewski, «La “politique historique” en Pologne. La mémoire au service de l’identité nationale», Revue d’études comparatives Est-Ouest, vol. 1, no. 1, 2020.

Avevamo ragione. Questo è stato particolarmente evidente durante i periodi di crisi sociale ed economica. Anche durante la recente crisi del Covid, abbiamo visto che Stati nazionali efficienti sono fondamentali per proteggere la salute dei cittadini. In precedenza, durante la crisi del debito, abbiamo assistito a un chiaro conflitto tra i Paesi dell’Europa meridionale – Grecia, Italia e Spagna – e le istituzioni sovranazionali che prendevano decisioni economiche per loro conto senza un mandato democratico.

In entrambi i casi, ci siamo trovati di fronte ai limiti della governance sovranazionale in Europa. In Europa niente potrà salvaguardare la libertà delle nazioni, la loro cultura, la loro sicurezza sociale, economica, politica e militare meglio degli Stati nazionali. Altri sistemi sono illusori o utopici. Possono essere rafforzati da organizzazioni intergovernative e anche parzialmente sovranazionali, come l’Unione Europea, ma gli Stati nazionali in Europa non possono essere sostituiti. 

Citando la crisi del debito sovrano e quella del Covid-19 nella sua professione di fede a favore di un’Europa delle nazioni, Mateusz Morawiecki sembra dimenticare di sfuggita gli importanti fondi comuni istituiti a livello europeo per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia. L’attribuzione di questi fondi alla Polonia è stata oggetto di un braccio di ferro con la Commissione europea, che ha cercato di usarli come leva per indurre il governo polacco a revocare alcune riforme del sistema giudiziario, accusate di minare lo Stato di diritto. La denuncia di Morawiecki contro «istituzioni sovranazionali» che operano «senza un mandato democratico» solleva l’annosa e ricorrente questione del rispetto da parte degli Stati membri dei trattati che hanno firmato e ratificato – tra l’altro con un referendum al momento dell’adesione della Polonia all’Unione europea nel 2004. Questa questione è al centro del resto del discorso, quando si parla di valori europei e del futuro dell’Unione.

L’Europa è nata molto prima della Repubblica americana, la cui unità è stata forgiata anche attraverso la guerra civile. Ecco perché è fuorviante fare riferimento a questa analogia storica.

Qualsiasi sistema politico che non rispetti la sovranità altrui, la democrazia o la volontà elementare della nazione, prima o poi diventerà utopia o porterà alla tirannia. È stata l’Europa cristiana a dare vita a una civiltà che rispetta la dignità umana più di ogni altra. Questa civiltà merita di essere protetta. Soprattutto di fronte a civiltà dal cuore duro e sempre più forti, per le quali i valori democratici e liberali non contano.

Vogliamo costruire un’Europa forte per affrontare le sfide globali del XXI secolo. È la dimensione dell’Unione europea che la rende una forza significativa nel mondo, non il suo sistema decisionale sempre più incomprensibile. Abbiamo bisogno di un’Europa forte grazie ai suoi Stati nazionali, non di un’Europa costruita sulle loro rovine. Un’Europa del genere non avrà mai forza, perché il potere politico, economico e culturale dell’Europa deriva dall’energia vitale fornita dagli Stati nazionali.

Le alternative sono un’utopia tecnocratica, che alcuni a Bruxelles sembrano immaginare, o un neo-imperialismo, già screditato dalla storia moderna. La lotta delle nazioni europee per la libertà non è finita nel 1989. Lo si vede meglio al nostro confine orientale.

  1. Vorrei quindi passare a una questione di vitale importanza per l’Europa: l’Ucraina.

Discuterò l’importanza della lotta dell’Ucraina dal punto di vista dei nostri valori comuni europei. Inoltre, esporrò le conclusioni che dovremmo trarne.

Per cosa combattono davvero gli ucraini oggi? Per cosa sono disposti a rischiare la vita? Perché non si sono arresi immediatamente al secondo esercito più forte del mondo? 

La lotta degli ucraini per il diritto all’autodeterminazione nazionale è un’altra manifestazione eroica della difesa dello Stato nazionale e della libertà. Ma per avere la volontà di combattere, bisogna credere davvero in ciò per cui si combatte.

Oggi gli ucraini non combattono solo per la propria libertà. Dal 24 febbraio 2022, combattono quotidianamente anche per la libertà di tutta l’Europa. Anche il nostro futuro dipende da come si svolgerà questa guerra: la sconfitta dell’Ucraina sarebbe la sconfitta dell’Occidente, anzi dell’intero mondo libero. Una sconfitta più grande del Vietnam. Dopo una tale sconfitta, la Russia tornerebbe a colpire impunemente e il mondo, così come lo conosciamo, cambierebbe radicalmente, perché una vittoria di Mosca sarebbe seguita da una lunga serie di pericolose incognite. La sconfitta del mondo libero probabilmente incoraggerebbe Putin, proprio come l’acquiescenza degli anni Trenta incoraggiò Hitler.

Morawiecki descrive la lotta degli ucraini contro gli invasori russi come una lotta civile e politica, con implicazioni che vanno oltre questo conflitto: Gli ucraini stanno combattendo «per la nostra libertà e per la vostra», per citare uno slogan polacco («za wolność naszą i waszą») formulato nel XIX secolo durante le insurrezioni anti zariste, poi ripreso dai combattenti polacchi durante la Seconda guerra mondiale, e che dal 24 febbraio 2022 è tornato di attualità, soprattutto nei discorsi ufficiali polacchi e ucraini. 

Al di là del simbolismo, si riferisce anche a un immaginario collettivo diffuso nelle società dell’Europa centrale e orientale che temono di essere sacrificate dagli alleati occidentali a vantaggio della Russia: è il mito di Yalta come «tradimento degli alleati», da cui le molteplici associazioni, nel discorso di Mateusz Morawiecki, tra Putin, Hitler e Stalin.

Anche Putin, come Hitler all’epoca, gode di un enorme sostegno pubblico. Non è esagerato dire che ci troviamo di fronte alla minaccia di una terza guerra mondiale. Il modo per evitare questo esito è smettere di alimentare la bestia. La storia si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Quando i nostri figli leggeranno i libri di testo, si chiederanno se abbiamo fatto abbastanza per garantire loro un futuro di pace. Abbiamo pensato a loro e al bene a lungo termine dei nostri Paesi o solo alla comodità a breve termine e al rinvio di decisioni difficili per il futuro? 

Abbiamo imparato dagli errori del passato o continueremo a ripeterli?

Ora, qualche ulteriore riflessione su questo punto 2.1 Perché questo è un punto di svolta nella storia europea?

Fino a poco prima del 24 febbraio, avevo sentito dire che Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina.  Molti politici europei hanno preferito credere a questa versione, sperando che fosse possibile continuare il “Wandel durch Handel” [l’espressione tedesca indica “cambiamento attraverso il commercio”, NDT] con la Russia a spese dell’Europa centrale.

In questo contesto, torniamo alla domanda: per cosa combattono gli ucraini? Se fossero concentrati solo sui beni materiali e non fossero uniti dal loro senso di comunità, si sarebbero arresi molto tempo fa. È su questo che Putin contava. Credeva che gli ucraini avrebbero scelto la pace piuttosto che la libertà. Ma si sbagliava.

Perché? Qual è stato l’errore del Cremlino? Putin non è un pazzo, come molti di coloro che hanno fatto affari con lui per vent’anni vorrebbero farci credere, ma è accecato dalla sua visione del mondo. Non è riuscito a capire che gli ucraini sono una nazione. E ora che finalmente hanno il loro Stato nazionale –per quanto sia tutt’altro che perfetto – sono disposti a sacrificare le loro vite per difenderlo.

La propaganda russa sostiene che non esista una nazione ucraina separata. Conosciamo tutti il detto: «Se i fatti non corrispondono alla teoria, cambia i fatti». Ecco perché la Russia sta cercando di spiegare agli ucraini, con la forza, che non hanno diritto a un’identità nazionale. Eppure sono i nipoti dei soldati che oggi rischiano la vita per un’Ucraina libera che un giorno diranno con orgoglio a scuola: mio nonno ha combattuto vicino a Kherson! E il mio ha respinto l’assalto a Kiev! Mio nonno è morto a Mariupol.

I soldati di oggi, questi futuri nonni, sanno che stanno combattendo anche perché i loro nipoti possano vivere in un Paese libero. Ricordiamo: una nazione è una comunità di vivi, di morti e di coloro che devono ancora nascere. Oggi l’Europa è testimone di crimini commessi in nome di un’ideologia antinazionale. Questo è ciò che motiva Putin: il desiderio di eliminare ogni differenza, distruggere tutte le identità nazionali e fonderle nel grande impero russo. Nel “Russkij Mir”.

La propaganda russa ha ripetutamente lanciato la falsa accusa di fascismo ucraino. Questo è esattamente ciò che disse Stalin: «Chiamate i vostri avversari fascisti o antisemiti. Basta ripetere questi epiteti abbastanza spesso». Va detto chiaramente: un fascista è qualcuno che vuole distruggere altre nazioni, qualcuno che viola i diritti umani e calpesta la dignità umana. I fascisti oggi sono Vladimir Putin e tutti i complici dell’aggressione russa. Come europei, abbiamo il dovere di opporci al fascismo russo. È questo il senso dell’identità europea.

Ora…

2.2 Quali lezioni possiamo imparare dalla guerra in Ucraina?

Gli ucraini oggi ci ricordano cosa dovrebbe essere l’Europa. Ogni europeo ha il diritto alla libertà personale e alla sicurezza. Ogni nazione ha il diritto di prendere decisioni fondamentali sul futuro del proprio territorio. La democrazia può essere attuata a livello comunale, regionale o nazionale, ovunque vi siano legami basati su un’identità comune. Pertanto, una votazione in cui 140 milioni di russi voterebbero “a favore” dell’annessione dell’Ucraina alla Russia e 40 milioni di ucraini “contro” non sarebbe democratica, giusto?

Quali altre lezioni si possono trarre da oltre un anno di guerra in Ucraina? Una cosa è chiara per me: la politica di “concludere accordi” con la Russia ha fallito. Chi per decenni ha sostenuto la necessità di stringere un’alleanza strategica con la Russia rendendo i Paesi europei dipendenti dalla sua energia ha commesso un terribile errore. Coloro che hanno messo in guardia dall’imperialismo russo e hanno ripetutamente avvertito di non fidarsi della Russia avevano ragione.

Coloro che per molti anni hanno finanziato i preparativi bellici russi, disarmato l’Europa e imposto una partnership con la Russia a chi era più debole, sono corresponsabili politicamente della guerra in Ucraina e degli attuali problemi economici ed energetici di centinaia di milioni di europei.

Putin si è comportato come uno spacciatore che dà la prima dose gratis, sapendo che il tossicodipendente tornerà più tardi e accetterà qualsiasi prezzo. Putin è astuto, ma non è brillante. L’Europa ha ceduto a lui così facilmente soprattutto a causa della propria debolezza. Questa debolezza si è materializzata nel perseguimento dei propri interessi particolari a spese di altri Paesi. 

Se le singole nazioni dell’Unione Europea cercano di dominare gli altri, l’Europa potrebbe cadere vittima degli stessi errori del passato. E tutte le decisioni per fermare l’aggressore russo possono essere nuovamente annullate. Questo accadrà se alcuni dei Paesi più grandi decideranno che per le loro élite è più redditizio fare affari con il Cremlino, anche a costo del sangue. Oggi è il sangue ucraino. Domani potrebbe essere lituano, finlandese, ceco, polacco, ma anche tedesco o francese… Dobbiamo evitare che questo accada.

Morawiecki sviluppa qui il nucleo della sua argomentazione sul conflitto in Ucraina, presentando il punto di vista di un leader dell’Europa centrale per il quale la guerra riflette e deriva dalla cecità dei principali leader europei nei confronti della Russia di Putin.

La politica denunciata precedentemente del Wandel durch Handel (o commercio dolce) che si basa sullo scambio economico per provocare un cambiamento politico nei regimi autoritari, trova in questo contesto i suoi limiti. Anche la Polonia e i paesi dell’Europa centrale, come altre economie europee, sono dipendenti dal gas russo, ma  i gasdotti del Mar Baltico che collegano la Germania direttamente alla Russia (NordStream) hanno dato l’impressione di un sacrificio degli Stati dell’Europa centrale e orientale agli interessi economici tedeschi. Le previsioni e gli avvertimenti, in tempi non sospetti, di diversi leader politici della regione, compresi quelli del PiS, si sono tragicamente avverati.

3. Queste lezioni dovrebbero farci porre una domanda fondamentale: quali sono i valori europei oggi e cosa li minaccia? Adesso mi concentrerò su questa terza “questione fondamentale”. 

In termini di prosperità materiale, stiamo vivendo i tempi migliori della storia dell’umanità. Ma questa prosperità ha ucciso il nostro spirito? Ci interessa ancora il motivo per cui viviamo? Saremmo pronti a difendere le nostre case, i nostri cari, la nostra nazione, se venissero attaccati?

Questa tensione tra il regno dello spirito e il materiale non è nuova. Siamo, dopo tutto, nell’università in cui ha insegnato Hegel. In letteratura, pochi si sono occupati di questo problema come il grande Thomas Mann, “la coscienza della Germania” all’epoca dei crimini nazisti tedeschi. Gli eroi di Mann desiderano un significato più elevato della vita, non solo l’accumulo di beni e il loro consumo.

Negli ultimi decenni, molti europei sono arrivati a credere che il consumo, cosparso di dichiarazioni sommarie sui “valori europei”, sia la fase finale della storia. Noi siamo contrari a questo approccio. Colpire gli altri con la frusta dei “valori europei” senza concordare sulla loro definizione o capire quali cambiamenti devono essere apportati dai singoli Paesi, è – nel senso di Thomas Mann – autodistruttivo per l’Unione Europea.

Un tempo il simbolo dell’Europa era l’antica agorà. Un luogo in cui ogni cittadino poteva parlare in condizioni di parità. Oggi, troppo spesso l’agorà europea è sostituita dagli uffici delle istituzioni di Bruxelles, dove le decisioni vengono prese a porte chiuse. Come disse una volta un politico europeo in merito al meccanismo delle istituzioni europee: «Noi decretiamo qualcosa, se non ci sono proteste perché la maggior parte delle persone non capisce cosa è stato attuato, continuiamo passo dopo passo, fino al punto di non ritorno»,

Questo è un modo per trasformare rapidamente l’Unione europea in un’autocrazia burocratica.

Oltre alle nuove circostanze geopolitiche, si sta decidendo anche il destino dell’Unione europea. Sarà una comunità democratica o una macchina burocratica e una struttura centralista? 

La politica è sempre una questione di scelte. Ma questa scelta deve essere fatta alle urne, non nell’intimità degli uffici dei burocrati. Vogliamo davvero un’élite cosmopolita paneuropea con un potere immenso ma senza mandato elettorale? 

In questo passaggio il discorso si sposta verso il dibattito sui «valori europei», che è valso alle cosiddette democrazie “illiberali” di Polonia e Ungheria una procedura di infrazione contro lo Stato di diritto, avviata dall’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Mateusz Morawiecki denuncia questa procedura, criticando al contempo un’élite «cosmopolita» e burocratica, in un filone simile a quello di altri discorsi euroscettici. La sua argomentazione riecheggia quella del filosofo Ryszard Legutko, europarlamentare del PiS, il cui libro «The Demon in Democracy. Totalitarian Temptations in Free Societies» (Encounter Books, 2016; tradotto in francese come «Le diable dans la démocratie. Tentations totalitaires au cœur des sociétés libres», Éditions de l’Artilleur, 2021) è ampiamente diffuso nelle reti conservatrici internazionali in Europa e negli Stati Uniti.

Metto in guardia tutti coloro che vogliono creare un super Stato governato da una ristretta élite. Se ignoriamo le differenze culturali, il risultato sarà l’indebolimento dell’Europa e una serie di rivolte, forse anche una nuova Primavera delle Nazioni come quella del 1848.  All’epoca, i tedeschi fecero uno sforzo enorme per costruire uno Stato unito e moderno. Dovettero aspettare vent’anni per ottenere i risultati politici, ma ne uscirono vittoriosi. Oggi ci troviamo di fronte a un dilemma simile. Se i governanti europei, come gli aristocratici di Metternich dell’epoca, preferiscono il potere delle élite e l’imposizione dall’alto dei loro valori, alla fine incontreranno una resistenza. Può non arrivare subito, ma è inevitabile.

Vale la pena di tornare alla prima domanda: quali sono i valori europei? 

E soprattutto: cos’è l’Europa? La sua storia non è iniziata qualche decennio fa. 

L’Europa ha più di due millenni, nasce dall’eredità degli antichi greci, dei romani e del cristianesimo. Queste sono le nostre radici, da cui siamo cresciuti e da cui non possiamo separarci.

Morawiecki promuove una visione dell’Europa come civiltà, una base culturale comune con una storia secolare. Ciò riecheggia la visione della storia ufficiale europea diffusa in Europa centrale, che viene criticata per aver presentato una storia che sopravvaluta l’eredità dell’Illuminismo e stigmatizza le nazioni a scapito dell’eredità dell’antichità greco-romana e del cristianesimo. In questo senso, si legga Platform of European Memory and Conscience, «The House of European History. Report on the Permanent Exhibition», 30 ottobre 2017.

Una visione simile dell’Europa come identità e patrimonio culturale si ritrova nel corpus ideologico della destra conservatrice. Non è una novità, sono le fondamenta su cui il governo polacco cerca di costruire la propria visione di un’Europa delle nazioni, in contrapposizione a un’Europa federale. Si possono citare le riflessioni dello storico belga David Engels, professore all’Instytut Zachodni di Poznan, tra cui il suo «Preambolo di una Costituzione per una Confederazione di Nazioni Europee»; nonché il libro da lui diretto: Renovatio Europae. Plaidoyer pour un renouveau hespérialiste de l’Europe, Éditions du Cerf, 2019.

Non c’è Europa senza le altissime cattedrali gotiche o senza gli edifici delle università. L’Europa ha sempre volato sulle ali della fede e della ragione, e il modello di istruzione universitaria creato qui si è diffuso in tutto il mondo. Questo è accaduto perché l’università europea era uno spazio di discussione e di scontro di idee opposte, l’ambiente più favorevole alla ricerca della verità.

Anche in questo caso troviamo una retorica comune alla destra e all’estrema destra, basata sulla denuncia della «politicamente corretto» e, più recentemente, del «wokismo» come minacce alla libertà di espressione, messe sullo stesso piano degli autodafé nazisti. A parte la grossolana esagerazione, va notato che, ironia della sorte, sono proprio i governi polacco e ungherese ad aver attuato politiche che hanno portato a una riduzione delle possibilità di espressione per i gruppi minoritari (in particolare LGBT) e ad aver condotto campagne contro «l’ideologia di genere», in particolare nell’istruzione superiore. Possiamo citare su questi argomenti David Paternotte e Mieke Verloo,  «De-democratization and the Politics of Knowledge: Unpacking the Cultural Marxism Narrative», Social Politics: International Studies in Gender, State & Society, vol. 29, no 3, 2021.

Inoltre, le argomentazioni qui utilizzate hanno alcune convergenze con quelle di Vladimir Putin, che è stato eretto a eroe  “anti woke” e celebrato da una parte della destra trumpiana americana. Il passaggio di Morawiecki a favore dei valori europei «democratici» e «liberali» trova qui i suoi limiti pratici, poiché l’ideologia nazional-conservatrice del suo schieramento politico è l’antitesi dei valori europei, come definiti nell’articolo 2 del TUE: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».

In Europa non dovrebbe esserci posto per la censura o l’indottrinamento ideologico. Ci siamo già passati in passato, quando le autorità comuniste ci dicevano cosa pensare. Lo hanno sperimentato anche i tedeschi ai tempi di Hitler, quando i libri degli autori liberi di pensare venivano bruciati.

L’Europa dovrebbe essere una cattedrale del bene e un’università della verità. 

Anche in questo caso, vale la pena sottolineare che i vari divieti, le decisioni arbitrarie su ciò che può o non può essere presentato tra le mura delle università e il politicamente corretto minano la missione eterna dell’accademia: la ricerca della verità. Così come proteggiamo il nostro patrimonio materiale, dovremmo proteggere anche il nostro patrimonio spirituale, che consiste in decine di tradizioni culturali e linguistiche diverse. La forza dell’Europa nel corso dei secoli è stata la sua diversità. Condividiamo valori comuni, ma ogni nazione ha la propria identità. 

Gleichschalten, uravnilovka, è una strada che non porta da nessuna parte.

Germania e Francia sono due attori centrali in Europa. Nei 75 anni tra il 1870 e il 1945 hanno combattuto tre guerre e solo dopo l’ultima hanno raggiunto la riconciliazione, che oggi si concretizza nella relazione politica speciale tra Berlino e Parigi. La particolare sensibilità reciproca alle ragioni e alle sensibilità delle due capitali è nata da un passato tragico. Per il bene dell’equilibrio europeo, ma anche a causa di un passato molto più tragico, è necessario lo stesso modello di sensibilità reciproca alle motivazioni e agli interessi di Varsavia. Oggi a Varsavia non ci sembra di notare questa sensibilità negli altri.

Le fondamenta di questa riconciliazione sono state gettate da due grandi europei: Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Entrambi volevano costruire una pace duratura in Europa. I due leader capirono che il rispetto reciproco e la consapevolezza delle radici dell’altro sono i prerequisiti per la cooperazione. Il Cancelliere Adenauer disse: «Se ora ci allontaniamo dalle fonti della nostra civiltà europea, nata dal cristianesimo, è impossibile per noi non fallire nel tentativo di ricostruire l’unità della vita europea. Si tratta dell’unico mezzo efficace per mantenere la pace».

Il generale de Gaulle era anche profondamente consapevole sia del grande patrimonio culturale europeo sia degli orrori della “guerra interna”. Lo cito: «Dante, Goethe, Chateaubriand appartengono tutti all’Europa nella misura in cui erano rispettivamente ed eminentemente italiani, tedeschi e francesi. Non sarebbero stati molto utili all’Europa se fossero stati apolidi e se avessero pensato, scritto in una specie di esperanto o di Volapük».

La nostra identità di base è l’identità nazionale. Sono un europeo perché sono un polacco, un francese, un tedesco, non perché rinnego il mio essere polacco o tedesco.Il tentativo odierno in Europa di eliminare questa diversità, di creare un uomo nuovo, sradicato dalla sua identità nazionale, significa tagliare le radici e segare il ramo su cui siamo seduti. Attenzione possiamo cadere facilmente, e le culture forti e le dittature di altri angoli del pianeta non aspettano altro. Sarebbero sicuramente felici di vedere l’Europa cadere nell’insignificanza. Vorremmo che tutti gli europei dimenticassero le loro lingue e parlassero solo in Volapük? Io no.

Alcuni cercano di negare il contributo dell’Europa allo sviluppo del mondo perché vedono solo i lati oscuri della storia. In effetti, i Paesi responsabili dello sfruttamento e del colonialismo, dell’imperialismo e di crimini terribili – come il nazismo tedesco e il comunismo russo, come i crimini nelle colonie – dovrebbero fare ammenda per il proprio passato. Questo fa parte del nostro DNA europeo: la ricerca della verità e della giustizia. Ma l’Europa storica non è solo una fonte di vergogna per noi. Tutto lo straordinario sviluppo scientifico e la prosperità di oggi sono, si potrebbe dire, figli dell’Europa.

La via da seguire per l’Europa non è nemmeno la “McDonaldizzazione politica”. Occorre attingere alla propria diversità, perché il tentativo di unificare artificialmente l’Europa in nome dell’abolizione delle differenze nazionali e politiche porterà al caos e al conflitto tra europei. È la cooperazione, unita alla concorrenza, il modo migliore per l’Europa di avere successo nel mondo globale. Milioni di persone da tutto il mondo visitano ogni anno Parigi, Roma, Colonia, Madrid, Cracovia, Londra o Praga. La ricchezza di queste belle città e la forza di attrazione che esercitano derivano dal fatto che ognuna di esse ha una propria identità unica.

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Non vogliamo un’Europa che dia ultimatum del tipo «o cambiate volontariamente la vostra identità nazionale, o per farlo applicheremo ogni tipo di pressione politica ed economica su di voi». Negli ultimi mesi la Polonia ha accolto milioni di rifugiati. Gli ucraini hanno trovato rifugio nelle nostre case. La nostra concezione dei valori europei comprende certamente il sostegno al vicino in difficoltà. Tuttavia, abbiamo ricevuto un aiuto minimo, e assistiamo a trattamenti diversi tra Paesi che si trovano nella stessa situazione. Questa è la definizione stessa di discriminazione.

Mentre la Polonia è in prima linea nel fornire armi all’Ucraina e nell’accogliere i rifugiati ucraini, il che ha contribuito ad appianare le sue divergenze con la Commissione europea, l’Ungheria di Viktor Orban ha difficoltà a prendere le distanze da Putin. L’enfasi di Mateusz Morawiecki sull’accoglienza dei rifugiati ucraini in Polonia non deve far dimenticare che, pochi mesi prima dello scoppio della guerra in Ucraina, il governo polacco si era contraddistinto per la sua intransigenza poco ospitale (e poco cristiana, si sarebbe tentati di aggiungere) quando i rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa centrale si ammassavano al confine tra Polonia e Bielorussia. 

Vietando l’accesso ai media e alle ONG nella zona di confine – le stesse che ora svolgono un ruolo centrale nell’accoglienza dei rifugiati ucraini – e grazie al metodo del «push back», il governo polacco ha in quell’occasione violato, ancora una volta, i trattati europei. Alla luce di questa politica doppiopesista sui rifugiati, che distingue tra europei e non europei, cristiani e musulmani, il seguente passaggio sulla «discriminazione» di cui la Polonia sarebbe vittima è indecente.

La Polonia subisce questa discriminazione anche a causa della totale mancanza di comprensione delle riforme che un Paese emergente dal post-comunismo doveva fare e del coinvolgimento delle istituzioni europee nelle controversie interne di uno Stato membro con la pretesa di “difendere lo Stato di diritto”. Voglio essere assolutamente chiaro: in Polonia abbiamo la stessa concezione del termine “Stato di diritto” che c’è in Germania. E ci sono poche cose di cui sono sicuro come del fatto che il mio schieramento politico difende il vero Stato di diritto in misura molto maggiore rispetto ai primi 25 anni dopo il 1989.

Noi lottiamo contro l’oligarchia, contro il dominio delle corporazioni professionali chiuse, contro la povertà e contro la corruzione. Ci difendiamo da queste patologie. Ma poiché questo non è l’argomento principale della mio discorso, permettetemi di fermarmi qui. 

Morawiecki giustifica qui le famigerate riforme del sistema giudiziario e della magistratura che sono valse alla Polonia una procedura di infrazione europea.

Possiamo ricordare brevemente le principali misure adottate dal governo polacco dal 2015, che sono tutt’altro che aneddotiche in quanto minano la separazione dei poteri: la nomina di lealisti del PiS alla Corte costituzionale; la nomina di membri del Consiglio giudiziario nazionale (competente per la nomina dei giudici) posta sotto il controllo del Parlamento; il pensionamento forzato dei giudici della Corte suprema; il licenziamento di oltre 150 presidenti e vicepresidenti di tribunale da parte del ministro della Giustizia; l’istituzione di una nuova camera disciplinare per i giudici della Corte suprema, i cui membri sono selezionati dal Consiglio nazionale della magistratura; l’avvio di procedimenti disciplinari contro i giudici che applicano alcune disposizioni del diritto europeo o che sottopongono questioni preliminari alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE).

La CGUE ha ripetutamente condannato queste riforme, che continuano a essere utilizzate per trasferire o licenziare i giudici. Si veda Johannes Vöhler, «Les “affaires polonaises” et la jurisprudence de la Cour de justice de l’Union européenne en matière d’État de droit», Europe des droits & libertés, mars 2022/1, n° 5.

Inoltre, recenti sentenze della Corte costituzionale hanno stabilito che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il Trattato sull’Unione europea sono solo parzialmente compatibili con la Costituzione polacca. Questa sfida al principio del primato del diritto dell’Unione mina la struttura giuridica su cui si fonda l’integrazione europea.

In un senso più profondo, la disputa oggi è tra la sovranità degli Stati e la sovranità delle istituzioni. Tra il potere democratico del popolo l’imposizione dall’alto del potere da parte di una ristretta élite. Nei duemila anni di esistenza dell’Europa, nessuno è mai riuscito a subordinare politicamente l’intero continente. 

Non funzionerà nemmeno oggi. La visione di un’Europa centralizzata finirà esattamente nello stesso punto in cui è finito il concetto di fine della storia annunciato trent’anni fa. Prima ci allontaniamo da questa visione e accettiamo la democrazia come fonte di potere legittimo in Europa, migliore sarà il nostro futuro.

In ogni modo, questa non è la fine della storia. La storia sta accelerando e sta ponendo di fronte a noi sfide di proporzioni gigantesche. 

La contrapposizione tra la sovranità degli Stati e quella delle istituzioni europee, tra il voto democratico del popolo e l’élite cosmopolita, riflette una concezione minimalista della democrazia, come quella difesa da Viktor Orban. Una democrazia puramente formale in cui conta solo la volontà della maggioranza espressa attraverso le elezioni, senza pesi e contrappesi, senza gerarchie di norme e senza libertà fondamentali che possano essere opposte alla volontà dei governanti che, in questa concezione della democrazia, non hanno nulla che impedisca loro di trasformarsi in tiranni.

Purtroppo, gran parte dell’attuale élite dell’Unione europea opera in una realtà alternativa: se insiste ostinatamente sulla visione di un super Stato centralizzato, dovrà affrontare la resistenza di più nazioni europee. Più si ostina, più feroce sarà la ribellione. Non voglio polarizzazione, divisione e caos. Voglio un’Europa forte e competitiva. 

4. Quindi, permettetemi di concentrarmi sull’ultimo grande tema: come può l’Europa conquistare la prima posizione nella corsa alla leadership globale?

Innanzitutto, le politiche dell’Unione devono cambiare. Non verso una maggiore centralizzazione e il trasferimento del potere a poche istituzioni chiave e ai Paesi più forti, ma verso il rafforzamento dell’equilibrio di potere tra i popoli dell’Europa settentrionale, occidentale, centrale, orientale e meridionale. E verso l’integrazione dell’Unione europea con i Balcani occidentali, l’Ucraina e la Moldavia, in linea con i confini geografici dell’Europa.

La domanda da porsi è: quanto seriamente prendiamo la questione della costruzione di un’Unione europea forte e influente? Oggi, l’europeismo si esprime nella nostra mentalità di allargamento, non nel concentrarci su noi stessi e sulla centralizzazione dell’Unione europea.

Stranamente, i Paesi che amano presentarsi come europeisti e proporre la turbo-integrazione sono allo stesso tempo i più scettici nei confronti della politica di allargamento e giocano a poker politico.

Non dovremmo parlare dei valori che uniscono l’Unione dividendo l’Europa in coloro che meritano di farne parte e coloro ai quali l’accesso è negato. Un mercato comune più ampio e la diversità delle sue risorse economiche ci renderebbero un forte attore globale.  Spesso sento dire che l’Unione europea ha bisogno di compiere delle riforme per allargarsi. Molto spesso si tratta di una proposta che nasconde la federalizzazione. Di fatto si propone di centralizzare il potere decisionale.

Questo perché lo slogan della “federalizzazione” non è altro che una concentrazione del processo decisionale imposta dall’alto. Secondo gli autori di questa centralizzazione chiamata “federalizzazione”, il processo decisionale deve essere modificato passando dall’unanimità alla maggioranza qualificata in una serie di nuovi settori. L’argomento a favore di questa soluzione è che sarà difficile ottenere l’unanimità tra più di 30 Paesi.

È vero che è più difficile ottenere un parere unificato all’interno di un gruppo più ampio di Stati. Tuttavia, la questione è se questo deve portarci a pensare che le decisioni debbano essere spinte dalla maggioranza, contro gli interessi della minoranza in altri settori.

Mateusz Morawiecki sostiene un riequilibrio geopolitico dell’Unione a favore degli Stati dell’Europa centrale e orientale, giustificato dalla guerra in Ucraina e dalla prospettiva (ancora molto ipotetica) di un’adesione di Kiev all’Unione. Questa posizione si accompagna a una messa in discussione dei progetti di federalizzazione («centralizzazione»), come quelli avanzati da Scholz e Macron, con l’idea di abbandonare il voto all’unanimità in alcuni settori – a favore di una concezione opposta, quella di un’Unione più intergovernativa, ancora una volta in nome della sovranità degli Stati nazionali, presumibilmente democratica.

Io ho una proposta diversa: non dobbiamo intrometterci in questioni in cui l’interesse nazionale rimane diviso. Facciamo un passo indietro per farne due avanti.  Concentriamoci sui settori in cui il Trattato di Roma ha attribuito competenze all’Unione e lasciamo che il resto sia guidato dal principio di sussidiarietà. Da diversi decenni osserviamo il processo di “spill over” delle competenze dell’Unione europea in nuovi settori, valutato criticamente in molti Stati membri.  Tuttavia, di recente ha subito un’accelerazione. La questione di quanto gli Stati rimangano «i padroni del Trattato», come ha detto la Corte costituzionale di Karlsruhe, è oggi ancora più rilevante. 

Pertanto, se l’Unione vuole apportare modifiche al suo processo decisionale che abbiano legittimità democratica e permettano la fiducia reciproca, gli Stati membri devono riacquistare la piena autorità sui Trattati. Non possono cedere il potere decisionale ai «quartieri generali di Bruxelles» e alle «coalizioni di potere».

In altre parole, bisogna rivedere le aree sotto l’autorità di Bruxelles e, guidati dal principio di sussidiarietà, e ripristinare un maggiore equilibrio. Più democrazia, più consenso, più equilibrio tra Stati e istituzioni europee. Bisogna ridurre il numero di aree di competenza dell’Unione, che diventerà, anche con 35 Paesi, più facile da navigare e più democratica.

Imporre una maggiore centralizzazione significa ripetere gli stessi errori. È un fallimento non ascoltare le voci di quei Paesi che avevano ragione su Putin,  dare potere a persone come Gerhard Schroeder, che ha reso l’Europa dipendente dalla Russia e ha messo l’intero continente a rischio esistenziale.

Morawiecki si riferisce al ruolo svolto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che, dopo la sua carriera politica, ha assunto la direzione del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto Nord Stream ed è entrato nel consiglio di amministrazione della società russa Gazprom.

Un esempio: solo pochi mesi fa, nel giugno 2021, si è pensato di celebrare la riunione del Consiglio europeo con Vladimir Putin. Come se per allora non ci fossero state azioni aggressive da parte della Russia. Dove saremmo senza l’opposizione di Polonia, Finlandia e Stati baltici? Se il principio di unanimità non fosse più in vigore?

La politica estera polacca – in questo contesto – è decisa in elezioni democratiche dai cittadini polacchi, persone per le quali un vicino aggressivo è un problema reale. Non si tratta di persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza e che vedono la Russia solo attraverso il prisma delle opere di Puskin, Tolstoj o Tchaikovsky. Oggi non basta parlare di ricostruzione dell’Europa. Dobbiamo parlare di una nuova visione dell’Europa. Affinché la pace e la sicurezza diventino basi durature dello sviluppo per i decenni a venire.

Se gli ultimi mesi possono essere considerati un successo in qualche modo, lo si deve certamente alla cooperazione nel campo della sicurezza. La cooperazione transatlantica e la NATO in particolare hanno dimostrato di essere l’alleanza di difesa più efficiente di sempre. Senza il coinvolgimento degli Stati Uniti e – forse – della Polonia, oggi l’Ucraina sarebbe scomparsa.

La NATO, presto rafforzata dalla futura adesione di Finlandia e Svezia, è fondamentale per la sicurezza dell’Europa, deve quindi essere rafforzata e sviluppata. Allo stesso tempo, dobbiamo costruire le nostre capacità di difesa, come la Polonia sta facendo. Stiamo costruendo un esercito moderno non solo per difenderci, ma anche per aiutare i nostri alleati, spendendo fino al 4% del PIL per la difesa, una capacità che abbiamo raggiunto grazie al miglioramento delle nostre finanze pubbliche dopo i buchi lasciati dai nostri predecessori. Proponiamo che la spesa per la difesa non rientri nel criterio del Trattato di Maastricht del limite del 3% nel rapporto tra deficit e Pil.

L’Europa si è disarmata, fissando l’aggressione russa come un coniglio di fronte alla luce dei fari. Oggi mancano le munizioni e le armi di base per rispondere alla sfida di Mosca, per non parlare di minacce per la nostra sicurezza in altre aree geografiche. Il mio desiderio per i Paesi europei è di essere così forti militarmente da non aver bisogno di aiuti esterni in caso di attacco, ma di poter fornire supporto militare ad altri. 

Oggi non è così. Senza il coinvolgimento americano, l’Ucraina non esisterebbe più. E il Cremlino sarebbe passato alla sua prossima vittima. Durante la “distensione” degli anni Settanta sono stati commessi molti errori, fino all’invasione sovietica dell’Afghanistan. In quell’occasione l’occidente rispose adeguatamente, mentre negli ultimi vent’anni la politica aggressiva russa non ha destato tanta preoccupazione. La sveglia è arrivata tardi, il 24 febbraio 2022.

Ora, 4.1 Cos’altro si può fare per rinforzare la posizione dell’Europa? 

Tutti ricordiamo lo slogan della campagna elettorale di Clinton: «It’s the economy, stupid!» [è l’economia, stupido!]. A quei tempi quasi tutti credevano che il denaro fosse un farmaco curativo, e che avrebbe fatto crescere la classe media e democratizzato la vita pubblica anche in Paesi come la Russia e la Cina. Le cose sono andate diversamente. Oggi sappiamo che l’economia deve andare di pari passo con i desideri sociali e le esigenze di sicurezza. 

Molti dei problemi dell’Europa moderna derivano dalla frustrazione dei giovani, le cui prospettive sono spesso peggiori di quelle dei loro genitori.  La classe media si sta erodendo ovunque in Europa.  Un mondo in cui l’1% più ricco accumula più ricchezza del restante 99% è scandaloso. Oggi sta accadendo questo. I paradisi fiscali, che potrebbero essere più giustamente chiamati inferni fiscali, derubano la classe media e i bilanci statali di Germania, Francia, Spagna e Polonia. 

La forza dell’Europa deriva in primo luogo dalle sue fondamenta più solide, ovvero la sua robusta classe media. La convinzione che la prosperità e la crescita possano essere condivise non solo da un gruppo di ricchi, ma dall’intera società, è stata la forza trainante dello sviluppo dell’Occidente a partire dagli anni Cinquanta. Purtroppo, questa convinzione sta scomparendo e la disuguaglianza sta aumentando. Ciò è molto pericoloso perché, da un lato, rafforza i movimenti radicali che chiedono la distruzione dell’attuale struttura economica e politica; dall’altro, scoraggia il lavoro e lo sviluppo.

Dobbiamo invertire questo processo. Perché rischiamo di perdere la gara contro i nostri concorrenti, che sono civiltà dure, resistenti e intransigenti, dove le relazioni sociali ed economiche funzionano in modo diverso. Il nostro compito di leader politici è quello di garantire condizioni in cui tutti possano guadagnarsi da vivere onestamente. Il mercato del lavoro europeo deve offrire salari dignitosi, facilitare l’ingresso dei giovani nelle professioni e dare loro un senso di stabilità. Dobbiamo anche creare le migliori condizioni possibili per avere una famiglia. Allora l’Europa avrà un futuro luminoso. Le famiglie ben funzionanti sono il fondamento di una vita sana, felice e stabile. Dobbiamo anche evitare che l’Europa diventi dipendente da altri. 

La cooperazione con la Cina è una grande sfida. È un Paese enorme, con grandi ambizioni. Come Europa, dobbiamo essere almeno un partner alla pari per la Cina, perché esserne dipendenti è una strada che non porta da nessuna parte. Si tratta di un obiettivo verso il quale l’Europa deve urgentemente tendere, ed è l’altra grande sfida per i prossimi anni oltre alla vittoria dell’Ucraina.

Non ci sono errori che non possano essere corretti. Almeno in parte. Quando sento che il nostro governo ha avuto ragione su Russia e Ucraina, mi sento soddisfatto. Ma scambierei volentieri il senso di soddisfazione con la volontà europea di combattere, con una volontà politica ancora più forte: quella di continuare a sostenere l’Ucraina. E con la volontà di confiscare 400 miliardi di euro di beni russi. Non basta congelarli: la Russia deve rispondere dei suoi crimini e della distruzione materiale che ha causato, i brutali aggressori devono sapere che prima o poi il loro Paese pagherà per i danni causati dalla violenza. Oggi mi rivolgo nuovamente a tutti i leader europei: è tempo di confiscare in modo totale e permanente i beni russi. Per ricostruire l’Ucraina e ridurre i costi energetici per i cittadini europei.

L’Europa è molto più forte della Russia, ma dobbiamo avere la volontà di usare il nostro potenziale. Se lasciamo che la Russia vinca questa guerra, rischiamo di non perdere solo l’Ucraina, ma di emarginare l’intero continente. La conclusione è semplice. Nel mondo contano solo i Paesi forti, efficienti e sicuri di sé. Putin ha attaccato l’Ucraina perché riteneva che gli europei fossero allo stremo, deboli e inattivi. Un anno dopo, possiamo affermare che si sbagliava. Almeno in parte. 

L’Europa non è ancora morta. Non lo sarà finché saremo in vita. Ma non è ancora vittoriosa.

Qui c’è una citazione diretta dell’inno nazionale polacco: «Jeszcze Polska nie zginęła, kiedy my żyjemy» («La Polonia non è ancora morta finché noi viviamo»).

Signore e signori, 

all’inizio ho ricordato che molti polacchi si sono laureati all’Università di Heidelberg: medici, avvocati, filosofi. Uno di loro era il nostro grande poeta, Adam Asnyk. Nella primavera del 1871 – proprio quando era in corso l’unificazione della Germania – anche Asnyk sognava di far rinascere una Polonia indipendente. Capì che i grandi obiettivi potevano essere raggiunti solo attraverso un lavoro paziente e sistematico, attraverso lo sforzo collettivo di tutta la comunità. Scriveva Asnyk:

«Abbiate sempre disprezzo per la vanagloria trionfante,

non applaudite l’oppressore violento

Ma non venerate le vostre numerose sconfitte,

né siate orgogliosi di essere sempre inferiori».

L’Europa deve dimostrare la sua forza e il suo valore. Questo è il nostro momento di «essere o non essere». Ma, a differenza dell’Amleto di Shakespeare, non possiamo esitare. Nel 1844, quando la Germania era ancora come le rovine del castello di Heidelberg – imponente ma incompleto – il poeta tedesco Ferdinand Freiligrath ammoniva: «Deutschland ist Hamlet!». I tedeschi esitano troppo invece di stare chiaramente dalla parte del bene.

Giovanni Paolo II è stato uno dei principali sostenitori dell’unificazione europea. Ha svolto un ruolo chiave nella liberazione delle nazioni europee insieme al suo grande successore tedesco, Benedetto XVI. Questo duo polacco-tedesco, unico nel suo genere, è stato una voce importante per il futuro dell’Europa, per la sua direzione, la sua cultura e la sua civiltà.

Per concludere, permettetemi di riassumere i quattro temi principali al centro del mio discorso.

1. In primo luogo, non possiamo costruire il nostro futuro senza imparare dal nostro passato. La storia dimostra che una politica che non rispetta la sovranità e la volontà del popolo prima o poi si dissolve in utopia o dittatura. L’Europa ha un futuro luminoso se rispetta la diversità delle sue nazioni.

2. In secondo luogo, il futuro dell’Europa è forgiato dalla lotta dell’Ucraina per la libertà a nostro nome. È nostro dovere sostenere l’Ucraina. Lo spirito combattivo degli ucraini deve essere fonte di ispirazione e guida per le nostre azioni.

3. In terzo luogo, una comunità democratica di nazioni, basata su un’antica eredità greca, romana e cristiana, che promuove la pace, la libertà e la solidarietà, è il fondamento dei valori europei. Questi valori hanno costituito la base dell’integrazione europea e possono continuare a essere la forza trainante del continente. Ciò che minaccia di indebolire queste forze è la centralizzazione. Il dominio del più forte e l’affidamento arbitrario del futuro dell’Europa a una burocrazia senza cuore, che sta cercando di «resettare i valori». Questo «reset», cioè la centralizzazione burocratica che si cela dietro alla maschera della “federalizzazione”, è il seme di grandi conflitti e ribellioni sociali future.

4.  In quarto luogo, se l’Europa vuole vincere la corsa alla leadership globale, deve trasformarsi. Deve essere pronta ad accogliere nuovi Paesi ma anche, di fronte a una comunità più ampia, a limitare alcune delle sue competenze. Di fronte alle minacce esterne, deve rafforzare le proprie capacità difensive. Di fronte alle sfide economiche e sociali, deve costruire una prosperità di tipo egualitario e ordoliberale e combattere gli inferni fiscali travestiti da paradisi fiscali. L’Europa deve mantenere alleanze sagge, ma deve anche promuovere l’indipendenza e non diventare vittima di ricatti energetici o economici.

Un tempo l’Europa era il centro del mondo, rispettata in ogni continente. Ci interessa ancora che l’Europa e la nostra civiltà sopravvivano? 

E non solo se sopravviveranno, ma in quale forma?

Abbiamo la volontà di essere leader, o forse ci siamo già rassegnati a passare in secondo piano?

Abbiamo il coraggio di far tornare grande l’Europa, di renderla vittoriosa?

Io credo di sì. 

L’Europa ha un grande potenziale. Esso deriva dalla sua storia e dal suo patrimonio, ma continua oggi nelle sue innumerevoli qualità e vantaggi. Ciò di cui l’Europa ha bisogno, tuttavia, sono la determinazione e il coraggio. E sono profondamente convinto che se lavoreremo duramente – a nome delle nostre rispettive patrie e del continente nel suo complesso – l’Europa prevarrà. 

In conclusione, questo è il discorso di un capo di governo polacco la cui posizione nel gioco politico europeo sembra essere stata temporaneamente rafforzata dalla nuova situazione aperta dalla guerra in Ucraina.

Lo scoppio della guerra ha convalidato il punto di vista tradizionalmente diffidente del PiS nei confronti della Russia. La richiesta di un riequilibrio dei rapporti di forza tra gli Stati europei a favore dell’Europa centrale, e in particolare della Polonia, dissimula maldestramente il timore di un «accordo» tra i leader europei (guidati da Macron) e Putin, che ricorderebbe ai polacchi il «tradimento di Yalta». Il timore di vedere i Paesi dell’Europa centrale e orientale relegati ai margini e sacrificati a vantaggio delle potenze occidentali e russe dovrebbe farci interrogare sulla natura della costruzione europea e sul modo in cui essa integra questa periferia centro-orientale, che vi ha aderito quasi vent’anni fa. Per liberarci da una visione geopolitica ereditata dalla Guerra Fredda, dovremmo prendere sul serio le aspirazioni sovrane delle nazioni poste tra la Germania e la Russia. Questo è l’aspetto più rilevante, ma anche il più inquietante, del discorso di Morawiecki. Ciò non significa, tuttavia, che si debba aderire all’ideologia nazionalista, conservatrice, familista e nativista dell’autore, evidente in questo testo. Non è certo che il governo polacco sia in grado di unire un’ampia coalizione di Stati europei attorno a un simile programma politico. Resta il fatto che l’attuale governo polacco si oppone fermamente a qualsiasi progresso verso un’Europa più federale e potrebbe raccogliere l’opposizione a tale processo. La posizione riflette ancora una volta la paura di essere relegati in un’Europa a più velocità.

L’Europa sarà vittoriosa!

Vi ringrazio per il vostro ascolto

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