È appena uscito il suo libro “Fiscal Policy under Low Interest Rates”. Se torniamo a ciò che l’ha portata a questo argomento, c’è stato un cambiamento nel suo pensiero sulle questioni fiscali durante il periodo trascorso al Fondo Monetario Internazionale, e in particolare durante la crisi greca?
Sì, il mio pensiero si è evoluto nel tempo. Vi faccio un esempio. Quando sono arrivato al FMI nel 2008, ero molto preoccupato per le dimensioni del debito pubblico giapponese, che già allora era molto elevato. Pensavo che non avrebbero potuto sostenerlo e che ci sarebbero stati dei problemi. Per i primi sei mesi ho detto a Dominique Strauss-Kahn, all’epoca direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, che c’era un vero problema in Giappone. Alla fine non è successo nulla, non c’è stata nessuna catastrofe – non da quella parte e comunque non per il momento. Questo mi ha costretto a mettere in discussione ciò che pensavo sul ruolo e sui pericoli del debito.
In un testo pubblicato nel 2013 lei aveva già detto che forse il FMI e più in generale la comunità degli economisti avevano commesso un errore nel valutare i moltiplicatori fiscali in situazioni di crisi e recessione…
Da un lato, mi ero reso conto che i tassi di interesse erano scesi dagli anni ’80 in modo quasi secolare. In questo contesto di bassi tassi di interesse, il debito era meno pericoloso di quanto avessi percepito in precedenza.
D’altra parte, c’è stato l’episodio della crisi del debito pubblico greco – il dibattito era diverso, ma correlato. Alcuni dicevano: hanno un grave problema di debito, devono fare un enorme consolidamento fiscale, perché senza quello non ce la faranno. Ma non c’è da preoccuparsi: a volte la domanda aggregata non cala bruscamente quando cala la domanda pubblica, perché gli agenti sono talmente rassicurati dal consolidamento fiscale che non ha un effetto negativo sulla domanda totale. L’effetto negativo diretto sarà più che compensato da un maggiore ottimismo da parte dei consumatori e delle imprese: si tratta di ciò che abbiamo chiamato expansionary fiscal contraction.
Mi ero già espresso su questo tema all’inizio degli anni ‘90, in risposta a una pubblicazione di Francesco Giavazzi e Marco Pagano. Il mio punto di vista era che quando in un Paese sull’orlo del collasso un governo irresponsabile viene sostituito da un governo responsabile che decide di prendere in mano il bilancio, c’è una buona probabilità che gli investitori siano rassicurati e che questo abbia effetti positivi; in questo caso, si può pensare che ci saranno forti diminuzioni dei premi di rischio. In un Paese sull’orlo del collasso, gli investitori concedono prestiti a tassi di interesse del 10-20% o più. Se vengono rassicurati, i tassi possono scendere fino al 5% e questo cambia completamente la dinamica della domanda e l’effetto del consolidamento fiscale.
Sapevo quindi che poteva succedere, ma non mi sembrava che fosse così nel contesto europeo di allora. Credevo che l’effetto del consolidamento fiscale potesse essere molto negativo.
Che posizione ha preso a proposito della Grecia?
Pensavo che alla Grecia fosse stato chiesto uno sforzo assolutamente insostenibile, che se avesse tentato di farlo sarebbe piombato in una recessione catastrofica. Questo mi portò all’epoca ad assumere una posizione diversa da quella della Commissione europea: dovevamo essere molto cauti, non dovevamo ignorare gli effetti keynesiani e non c’era alcun miracolo in arrivo. Se il debito era troppo alto, doveva essere rinegoziato al ribasso piuttosto che chiedere un consolidamento fiscale eccessivo.
Ho continuato la mia ricerca sugli effetti del consolidamento fiscale, sui cosiddetti moltiplicatori fiscali. Nel gennaio 2013, ho pubblicato uno studio insieme a Daniel Leigh, che è circolato molto all’interno e all’esterno del FMI, nel quale dimostravamo che i moltiplicatori utilizzati dal FMI e da altre organizzazioni erano, con ogni probabilità, molto deboli. È stato dimostrato che nei Paesi in cui i programmi erano molto austeri, le proiezioni di attività erano troppo ottimistiche. Ciò indica che gli effetti negativi del consolidamento fiscale sono stati sottovalutati.
Questa posizione mi ha portato a non essere d’accordo con l’Inghilterra, quando David Cameron ha deciso di effettuare un importante consolidamento fiscale. Mi è sembrato un atteggiamento piuttosto estremo. Certo, c’era un problema di debito, che non poteva essere ignorato, ma c’era anche un problema di attività e il consolidamento rischiava di avere effetti drammatici. La previsione si è rivelata sbagliata… Il risanamento del bilancio è avvenuto, ma in misura più limitata rispetto a quanto predetto. Ma Cameron l’ha fatto e non è stata una catastrofe. A volte ci si sbaglia…
Poi ho riflettuto sulle implicazioni del calo strutturale del tasso di interesse privo di rischio, iniziato nei primi anni ’80 e proseguito costantemente. Fu qui che iniziai a rendermi conto dell’importanza di “r c g” (il tasso naturale di interesse, r, meno il tasso di crescita, g), un’espressione aritmetica che è diventata quasi un’espressione standard in economia; il tasso di interesse reale privo di rischio era diventato inferiore al tasso di crescita – e in modo significativo: “r – g” era diventato negativo. Questo è stato sorprendente in Giappone, ma poi è diventato vero anche altrove.
È un po’ astratto per i non economisti, ma se c’è una variabile che conta enormemente in economia è “r – g”. Il mondo, in termini di politica economica, è completamente diverso se “r – g” è negativo. Come Phelps ha mostrato nei modelli teorici degli anni ’60, un mondo in cui “r – g” è negativo è quasi un mondo capovolto…. Era questo il caso anche a livello pratico? È questa la domanda che ho deciso di approfondire.
Un mondo senza gravità…
Phelps aveva dimostrato in un modello teorico che in un mondo in cui “r – g” è permanentemente negativo, il debito pubblico è positivo: c’è troppo capitale, il suo rendimento è troppo basso, e quindi il debito, che riduce l’accumulazione di capitale, è una buona cosa….
Mi sono chiesto se fossimo entrati in questo strano mondo; ho iniziato a lavorarci quando ho lasciato il FMI e sono stato nominato presidente dell’American Economic Association – il che offre l’opportunità di una grande lezione annuale senza contraddittorio… Ho posto la domanda: siamo davvero in un mondo in cui “r – g” è negativo, e quali sono le implicazioni?
In sintesi, ho dimostrato che probabilmente non siamo in quel mondo, ma che ci siamo vicini. Che il costo del debito, sia esso il costo fiscale o il costo del benessere, era molto più basso rispetto al passato e che questo aveva importanti implicazioni per la politica fiscale.
Ho continuato a lavorarci e poi ho messo tutto insieme in un libro, che ho terminato nel dicembre 2021. La MIT Press, la mia casa editrice, ha dato libero accesso al libro fin dall’inizio e questo mi ha fornito molti spunti di riflessione e discussione, che ho incorporato nella versione finale uscita il 10 gennaio.
Lei ha terminato il suo libro alla fine del 2021 e nel luglio 2022 la BCE ha aumentato i tassi per la prima volta dopo molti anni. Il suo libro parla di “tassi d’interesse bassi”, tuttavia le banche centrali non fanno altro che aumentarli…
C’è ovviamente un problema di tempistica. Avrei preferito che il libro fosse uscito un anno e mezzo fa, perché in quel periodo i tassi di interesse erano molto bassi. Ora sono più alti. Sorge quindi la domanda: è un libro di storia – dà una visione di ciò che è accaduto – o è un libro importante per il futuro? Jean Tirole mi ricorda spesso l’idea del motivating belief: una volta che si dice qualcosa, si è molto legati ad essa, si vede la realtà attraverso quel prisma. Ma sono convinto che, in realtà, stiamo vivendo un periodo di transizione in cui i tassi di interesse aumentano a causa della lotta all’inflazione e che scenderanno di nuovo.
In effetti, ancora oggi i tassi sono sorprendentemente bassi. Sebbene non siamo molto lontani dal picco dei tassi d’interesse, almeno negli Stati Uniti e nemmeno in Europa, se si considerano i tassi decennali, l’inflazione prevista per dieci anni, i tassi di crescita previsti per i prossimi dieci anni, “r – g” è ancora negativo.
Gli investitori si sbagliano? È cambiato qualcosa in modo permanente che fa pensare a tassi di interesse molto più alti in futuro? Ho scoperto che il mio amico Larry Summers ha recentemente parlato della fine della secular stagnation, un termine che ha contribuito a rendere popolare, e che ritiene che questo periodo di “r – g” negativo sia finito.
E lei non è d’accordo?
No, non sono d’accordo. Per rispondere a questa domanda, dobbiamo riflettere sui fattori che hanno determinato il calo dei tassi di interesse negli ultimi 40 anni e se questi cambieranno in futuro.
Prima di tutto, dobbiamo smentire una frottola, quella che accusa le banche centrali di aver scelto questi tassi bassi. Sì, i tassi sono scelti dalle banche centrali, ma riflettono solo, nel miglior modo possibile, le variazioni dei tassi necessarie per mantenere l’attività al giusto livello. Ciò che determina fondamentalmente i tassi di interesse a medio termine sono i risparmi, gli investimenti e la domanda di beni sicuri. Il risparmio e l’investimento determinano insieme l’evoluzione dello stock di capitale e, di conseguenza, la produttività marginale del capitale; la domanda di attività sicure determina il tasso privo di rischio rispetto alla produttività marginale del capitale.
Il motivo per cui ritengo che i tassi d’interesse rimarranno bassi è che le forze che hanno fatto scendere i tassi, ovvero l’elevato risparmio, i bassi investimenti e l’elevata domanda di asset sicuri, credo rimarranno dominanti. Osserviamo l’evoluzione del risparmio: deriva in gran parte da due fattori, l’aumento dell’aspettativa di vita e il livello generale del reddito. L’aumento dell’aspettativa di vita implica che le persone hanno una pensione più lunga e quindi devono risparmiare per la loro pensione (oltre a quanto ricevono dalla previdenza sociale). Il livello di reddito: quando si ha un’economia con un basso tenore di vita, e gran parte della popolazione ha un reddito basso, risparmia poco o nulla. Man mano che l’economia si arricchisce, sempre più persone sono in grado di risparmiare. Per quanto riguarda la domanda di beni sicuri, non vedo alcun motivo per cui possa cambiare. Siamo in un mondo sempre più incerto e la regolamentazione finanziaria continuerà a richiedere alle istituzioni finanziarie di detenere asset sicuri.
Nel suo libro, lei spiega che una delle cause dei bassi tassi di interesse è il “global savings glut”, ovvero il fatto che i risparmi globali sono molto più alti degli investimenti. Pensa che gli investimenti nella transizione ecologica e digitale possano invertire questa situazione?
In effetti, l’unica ragione per cui potremmo avere un aumento sostenibile dei tassi di interesse sarebbe un forte aumento degli investimenti verdi, quelli necessari per una forte azione per il clima. Come dimostrato in particolare dai lavori di Jean Pisani-Ferry, se fossimo disposti a mobilitare le somme necessarie, la domanda di investimenti potrebbe aumentare e con essa il tasso di interesse di equilibrio. In questo caso, “r – g” potrebbe aumentare in modo significativo. Ma realisticamente, non credo che faremo quello che dobbiamo fare, ma meno. Ma è certamente lì che c’è la possibilità di un tasso di interesse di equilibrio più elevato. Sarei più che felice se ciò accadesse.
L’argomento della stagnazione secolare si basa su un presupposto piuttosto forte, ovvero la sua dimensione internazionale. Possiamo immaginare che uno dei principali cambiamenti che potrebbero verificarsi oggi sia una profonda modifica degli squilibri della bilancia dei pagamenti e che il global savings glut ne risenta.
Certamente parte del calo del tasso di interesse negli anni ’90 è derivato dall’aumento del risparmio e, di conseguenza, dal surplus dei conti correnti in Cina. Fu in quel momento che Ben Bernanke sviluppò il concetto di global savings glut. Ma oggi l’avanzo delle partite correnti cinesi è ridotto rispetto a quello che era. Possiamo immaginare scenari futuri in cui altri paesi si troveranno nella stessa situazione? Non credo. Per me questa è storia e per il momento non è fondamentale.
L’aspetto fondamentale, che descrivo nel libro, è che questa diminuzione del tasso di interesse è un fenomeno globale. Non sono solo gli Stati Uniti o il Giappone ad essere colpiti, ma tutti i Paesi ricchi. Quindi bisogna cercare le cause a livello globale, non nelle specificità di ciascun Paese.
La politica monetaria deve agire contro l’inflazione. Possiamo anche pensare che la politica fiscale abbia un ruolo da svolgere e che possa attuare qualcosa di controintuitivo, una politica fiscale espansiva ma disinflazionistica?
Ne ho scritto con Jean Pisani-Ferry. In Francia, ho insistito per limitare l’aumento dei prezzi dell’elettricità e del gas, non solo per proteggere le famiglie, ma anche per limitare l’inflazione. La Francia lo ha fatto e ha limitato l’inflazione al 2%, al di sotto della media della zona euro. Se lo avessero fatto anche gli altri Paesi della zona euro, ci sarebbe stato un 2% di inflazione in meno, il che significa che la BCE non avrebbe dovuto reagire così tanto e che forse avremmo potuto evitare una recessione, il che oggi è ancora possibile.
Ci sono molti giocatori in questo gioco e il governo ha un ruolo da svolgere. Allo stesso tempo, proteggere le famiglie non significa necessariamente avere un deficit più elevato. Questa spesa può essere finanziata tassando i profitti eccezionali delle società energetiche. Si sarebbe potuto fare.
Questo ci porta a un’importante questione che è un po’ il filo conduttore del suo libro: l’interazione tra politica fiscale e monetaria. In questo nuovo mondo che lei descrive, ci stiamo allontanando da un quadro di dominanza monetaria verso un quadro di dominanza fiscale, c’è qualche ragione per tornare all’indipendenza delle banche centrali?
È una questione di coordinamento. Non si può avere la politica monetaria da una parte e la politica fiscale dall’altra, le due cose non si parlano, come vediamo troppo spesso. Oggi il coordinamento è molto scarso, ma è chiaro che ci sono due braccia e che dobbiamo usarle entrambe.
Ci sono rischi da evitare. Può darsi che il governo insista affinché le banche centrali mantengano i tassi molto bassi in modo da non dover pagare troppo sul proprio debito, il cosiddetto problema della dominanza fiscale. Ma non credo che questo pericolo sia presente nei Paesi ricchi. Le banche centrali sono indipendenti e rimarranno tali. L’indipendenza non impedisce il coordinamento con la politica fiscale, ad esempio in caso di recessione. In un contesto in cui i tassi di interesse sono già molto bassi, il margine di manovra della politica monetaria per abbassarli e rilanciare l’economia è limitato. La politica fiscale può e deve aiutare.
Lei difende l’idea che la politica fiscale possa essere più espansiva senza rischi per la sostenibilità del debito, ma è stato, insieme a Larry Summers, un critico della politica fiscale statunitense e del piano molto espansivo dell’amministrazione Biden. Come si inserisce questa posizione in questa visione più ampia?
Non credo che ci sia alcuna contraddizione. Al contrario, mi dà una certa credibilità nei confronti di chi dice che sto proponendo qualcosa in termini di politica fiscale e di aumento del debito…
Il piano di Biden era circa tre volte più grande del piano che ritenevo giustificato in termini di auspicabile aumento dell’attività. C’era già il piano Trump alla fine della sua presidenza, 900 miliardi di dollari. Il Presidente Biden ne ha proposto uno nuovo, di 1.900 miliardi di dollari, che mi è sembrato enorme viste le possibilità di ripresa, di spazio per aumentare la produzione. Per me è stato un errore… La mia posizione era che il volume era troppo alto e che avrebbe prodotto surriscaldamento e inflazione – ed è esattamente quello che abbiamo visto, e questo è un grande problema oggi.
Ritorniamo sull’inflazione attuale. In un suo tweet recente sul rapporto tra inflazione e ridistribuzione. Può sviluppare il suo ragionamento?
La mia osservazione si basava su una semplice domanda: quando e come aumenta l’inflazione? La prima possibilità è che la domanda di beni sia troppo alta – ad esempio, quando c’è un’espansione fiscale eccessiva, o la banca centrale ha scelto tassi di interesse troppo bassi, o per qualche motivo le famiglie e le imprese diventano molto ottimiste e spendono molto. Poi si ha un tasso di disoccupazione in calo e a un certo punto il mercato del lavoro si surriscalda. I dipendenti vogliono salari più alti. Le aziende vogliono aumentare o mantenere i propri margini. Questi due desideri sono incompatibili: i salari aumentano, causando un aumento dei costi e dei prezzi; i prezzi aumentano, causando la richiesta di aumento dei salari da parte dei lavoratori, ecc. Il risultato è l’inflazione.
Lo stesso accade quando si verifica un aumento del prezzo dell’energia, ad esempio del petrolio. Le aziende che utilizzano il petrolio vedono aumentare i costi e i prezzi. I dipendenti che vedono diminuire il loro potere d’acquisto chiedono aumenti salariali. Gli aumenti salariali aumentano i costi e quindi i prezzi, ecc. Il mandato della banca centrale è quello di limitare l’inflazione e l’unico strumento di cui dispone è il tasso d’interesse, quindi aumenta il tasso d’interesse fino a quando il rallentamento dell’attività porta i dipendenti ad accettare salari reali più bassi e le imprese ad accettare margini più bassi.
In sostanza, l’inflazione riflette un conflitto tra lavoratori e imprese. Il conflitto può derivare da un surriscaldamento dell’economia o da un aumento, ad esempio, dei prezzi dell’energia. Oppure può essere la fonte stessa dell’inflazione, come nel caso dell’esplosione di rabbia del 1968 in Francia.
Come si dovrebbe pensare al ruolo della politica fiscale in Europa? Stiamo già vedendo come le misure adottate in diversi Stati membri per proteggere i consumatori dall’aumento dei prezzi dell’energia sollevino questioni legate, tra l’altro, all’integrità del mercato unico.
Non si tratta di un problema di fondo, ma di un problema di coordinamento. Ci sono casi in cui i governi devono fare cose che, dal loro punto di vista, sono nel loro interesse, ma in cui gli interessi dei Paesi sono diversi. In questo caso, mi sembra che tutti gli Stati abbiano più o meno lo stesso obiettivo. Ognuno di essi si trova ad affrontare più o meno lo stesso problema: proteggere i consumatori e le piccole imprese. Quindi non c’è alcuna differenza fondamentale.
È vero che non c’è stato un coordinamento sufficiente. La polemica sul piano tedesco di 200 miliardi di euro è ipocrita, perché in realtà la Francia ha fatto in gran parte un anno prima quello che la Germania ha annunciato quest’anno. Abbiamo messo in atto uno scudo tariffario e abbiamo avuto ragione. Ma non sono assolutamente sicuro che abbiamo parlato con i tedeschi quando l’abbiamo messa in atto.
L’unica cosa è che i tedeschi lo hanno fatto con un anno di ritardo, annunciando una cifra molto grande e, per quanto ne so, senza coordinamento. Abbiamo rimproverato loro di dare un vantaggio alle aziende tedesche, ma in realtà avevamo già dato un vantaggio alle aziende francesi. Dovremmo coordinarci di più. Ma per me rimane un problema minore.
Anche la questione della legge statunitense sull’inflazione e il suo impatto sulla competitività dell’industria europea è una questione di coordinamento?
No, non si tratta affatto di un problema secondario.
L’Europa ha deciso di combattere il riscaldamento globale in gran parte attraverso la tassazione, sia attraverso il sistema di scambio di quote di emissione sia attraverso la carbon tax alle frontiere, che è l’approccio giusto. Gli Stati Uniti hanno deciso di utilizzare soprattutto i sussidi. Questo dà un enorme vantaggio competitivo alle aziende statunitensi. In generale, la politica degli Stati Uniti sta assumendo sempre più l’aspetto di una guerra commerciale, di sussidi alle aziende che producono negli Stati Uniti o che vi si trasferiscono, il che è inaccettabile per i suoi partner.
Tuttavia, è molto difficile immaginare un prezzo del carbonio negli Stati Uniti, semplicemente perché l’opinione pubblica non è affatto favorevole e non esiste una coalizione politica in grado di farlo passare al Congresso. Quindi spetta piuttosto agli europei coordinarsi sui sussidi?
La carbon tax è molto meglio dei sussidi. Permette alle aziende di prendere decisioni coerenti. I sussidi sono spesso troppo onerosi e costano allo Stato una fortuna.
È vero che in tutti i Paesi c’è una forte opposizione alle tasse sul carbonio e che è politicamente difficile per i governi implementarle. D’altra parte, i sondaggi mostrano che quando le entrate vengono ridistribuite alle persone che saranno maggiormente colpite dalla transizione, la tendenza si inverte e la maggioranza è quasi favorevole. A mio avviso, la porta non è chiusa e un governo coraggioso può riuscire ad approvare una carbon tax.
Per quanto riguarda la carbon tax alle frontiere, in teoria è facile. In pratica è difficile. In particolare, quando un altro Paese sovvenziona massicciamente la propria industria e quindi riesce a ridurre le proprie emissioni di CO2, cosa che gli Stati Uniti stanno cercando di fare, si crea un problema evidente: se le importazioni statunitensi rispettano gli impegni ambientali, non c’è bisogno di imporre una carbon tax alle frontiere; ma poiché l’approccio consiste principalmente in sussidi, le aziende esportatrici statunitensi ottengono un grande vantaggio competitivo.
Allo stesso tempo, non ci stiamo complicando la vita con un problema che, in un’economia aperta con un tasso di cambio flessibile, può essere risolto con il solo aggiustamento del tasso di cambio?
Sì, con l’adeguamento del tasso di cambio, alcune industrie diventeranno meno competitive e altre più competitive. Siamo soddisfatti del risultato? Sono queste le industrie che dovevamo e volevamo proteggere? In linea di principio, il tasso di cambio può aggiustarsi, ma lo farà con un forte effetto redistributivo che non è necessariamente quello desiderato.
La Commissione europea ha presentato le sue proposte di riforma del Patto di stabilità e crescita. Cosa ne pensa?
Le regole europee erano molto inadeguate per il semplice motivo che è impossibile giudicare la politica fiscale da semplici cifre come il deficit nominale o il debito, a causa del ruolo centrale di “r – g” nel decidere se il debito è sostenibile o meno. Il problema è diventato sempre più evidente con la riduzione dei tassi di interesse e quindi del costo del debito.
Ho quindi sostenuto con Jeromin Zettelmeyer e Alvaro Leandro l’idea di basarsi su uno studio delle possibili evoluzioni del debito, tenendo in conto, per ogni paese, della possibile evoluzione dei tassi di interesse, dei tassi di crescita, delle obbligazioni, ecc…, ciò che in gergo si chiama analisi stocastica della sostenibilità del debito e in seguito decidere sulla base di questo studio se si debbano operare dei cambi di rotta. Anche la Commissione ha adottato un principio molto simile nella sua proposta, pur mantenendo le regole del 60% e del 3%, il che è comprensibile, perché un cambiamento significherebbe aprire i trattati. Questo è un grande passo avanti. Ma per il momento si tratta solo di una proposta. Gli Stati devono accettarlo. Spero proprio che lo facciano.