Le scene di un’ incomprensione

Molti paesi del Sud si sono astenuti o non si sono presentati alla votazione 1 sull’”Aggressione contro l’Ucraina” all’Assemblea Generale dell’ONU il 24 Marzo scorso. Perché? E questo tanto più che l’aggressione russa va contro una serie di capisaldi difesi con insistenza da molti paesi del Sud, come il rispetto della sovranità’ nazionale. Per esempio, si noti che i paesi africani, una volta liberatisi del giogo coloniale, invece di modificare i confini che avevano loro imposto le potenze mondiali e di aprire conflitti incontrollabili, decisero di accettare quei confini e di cercare piuttosto forme di cooperazione tra stati e di integrazione regionale che usassero mezzi economici e politici 2 per far fronte ad una delle deprecabili eredita’ coloniali. Sarebbe dunque auspicabile che si indaghi al più presto ed in profondità le ragioni e le cause delle posizioni del cosiddetto “Sud”. Tanto più che non sono posizioni episodiche, sono state confermate ed hanno anzi riguardato un numero ben più’ vasto di paesi all’occasione del voto della risoluzione per sospendere la Russia dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite il 7 di Aprile.

Ma vi è un’altra domanda che sorge in parallelo: perché i paesi “occidentali” sembrano essere stati presi di sorpresa dalle posizioni del “Sud” 3? Perchè molti di loro avevano dato per scontato un esito diverso, salvo poi moltiplicare in extremis gli sforzi diplomatici per contenere il fatto che il “Sud” non si stava mettendo ordinatamente in fila dietro l’”occidente”? Che equivoci si celavano nelle aspettative? E perché lo stato reale e non fantasmatico delle relazioni “occidente” e “Sud” era rimasto a molti invisibile? Lo stupore in questione, in alcuni casi si e’ parlato addirittura di “sbalordimento”, testimonia forse di una serie di dinieghi con cui sarebbe bene fare i conti. Tanto più che nel corso del tempo diversi segnali hanno avvisato dei limiti delle narrative prevalenti in tema di relazioni tra “occidente” e “Sud”. Uno di questi segnali e’ persino apparso di recente, poco prima del voto alle Nazioni Unite.

Nel corso del tempo diversi segnali hanno avvisato dei limiti delle narrative prevalenti in tema di relazioni tra “Occidente” e “Sud”.

Mario pezzini

Infatti, il summit Unione Europea/Unione Africana tenutosi a Brussels in febbraio è stato il teatro di un dibattito per certi versi illuminante. Molti osservatori hanno riportato di un clima generale molto più’ favorevole al dialogo che nel passato e senz’altro più che ad Abidjan, dove si tenne il summit precedente nel 2017. Tra le varie ragioni di questo clima vi sarebbero non tanto ben note considerazioni di prossimita’ geografica e storica, che in verità’ sono ripetutamente ormai da decenni. Quanto dell’altro: interessi urgenti e convergenti, come per esempio il tentativo di ridisegnare le catene globali di valore a favore di una loro maggiore presenza e coordinazione in Africa ed in Europa, o la necessità condivisa di rispondere alle domande dei giovani africani che si affacciano in massa alla società 4, o ancora il ritardo insostenibile nell’affrontare le campagne vaccinali, che sono un bene pubblico globale. Va da se’ che l’invasione russa, cronologicamente successiva al summit di Brussels, ha moltiplicato la lista degli interessi convergenti 5.

Ora, un tale clima favorevole al dialogo ha permesso una discussione più’ franca del solito. Per esempio, sullo sviluppo dell’industria farmaceutica in Africa, sul modo di intraprendere la transizione ecologica o sulla valutazione del rischio che i paesi occidentali continuano a sovrastimare quando si tratta di investimenti in Africa e nei paesi del “Sud” 6. Gli esempi potrebbero continuare, ma vorrei sottolinearne in particolare uno, che mi pare cruciale per le questioni geopolitiche trattate qui: quello sulle “alleanze”. In chiusura del summit, la parte europea avrebbe voluto annunciare una “nuova alleanza” tra Europa ed Africa, mentre la parte africana ha preferito parlare solo di “un partenariato rinnovato”. SEM Macky Sall, Présidente in esercizio dell’Unione Africana, e’ stato esplicito in proposito: “Cette Afrique en pleine mutation veut des partenariats consensuels et mutuellement bénéfiques; des partenariats co-construits sur le fondement de priorites et valeurs partagees, sans injonction civilisationnelle, sans exclusion, ni exclusivite.”

Anche in questo caso, la reazione africana ha prodotto una sorpresa europea, tanto più’ significativa per il clima generale di dialogo. Infatti, non la si può’ liquidare di un rovescio della mano, pretendendo sia stata un espediente retorico o negoziale e tanto meno polemico e passeggero. Ma allora, perché’ i negoziatori europei hanno pensato che l’atto stesso di proporre “un’alleanza” avrebbe incontrato una facile adesione? Come e’ possibile che non abbiano visto arrivare una divergenza esplicita?

In questo caso, come in quello dei voti alle Nazioni Unite, la sorpresa e’ ad un tempo sorprendente ed utile, insomma da non sprecare. E’ un indizio che ci invita ad aprire un cantiere per rivedere la narrativa sul cosiddetto “Sud” e sulla sua posizione che gli assegnamo nelle carte geopolitiche. Si tratta di mettere in questione modi di pensare sedimentatisi nel tempo in credenze, opinioni, atteggiamenti e valori 7 che pretendono descrivere, spiegare e giustificare i giudizi occidentali sui paesi della “periferia”. Un tale cantiere e’ molto impegnativo e complicato: richiede più’ voci che interagiscano in uno spazio pubblico confortevole, come può’ essere per esempio Le Grand Continent 8. Ma e’ un cantiere indispensabile ed urgente, se l’intento di perseguire un’”autonomia strategica” europea va preso sul serio. Ad ogni modo va ben al di là’ di cio’ che e’ possibile fare in un solo articolo come questo dove mi limiterò’ ad alcuni spunti per continuare il dibattito lanciato dal Grand Continent sulle Politiche dell’Interregno. Dove “interregno” richiama evidentemente cio’ che Antonio Gramsci aveva descritto in carcere 9: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Una delle reazioni immediate nell’attuale interregno e’ stata quella di pronosticare un ritorno al bipolarismo, sotto forma di un mondo ad una dimensione dove si celebrerebbe un duello tra due “blocchi” che si pretendono esaustivi e contrapposti: il “mondo libero” che si presume condivida valori tradizionali e sia sempre più’ unito; contro l’altro blocco, sempre più’ autocrate e totalitario. Nel mezzo? Nulla o poco più di un residuo, perché’ nel mondo ad una dimensione non vi sono alternative ai blocchi.

mario pezzini

Figure di stile nelle “politiche dell’Interregno” 

Il ritorno al bipolarismo?

Una delle reazioni immediate nell’attuale interregno e’ stata quella di pronosticare un ritorno al bipolarismo, sotto forma di un mondo ad una dimensione dove si celebrerebbe un duello tra due “blocchi” che si pretendono esaustivi e contrapposti: il “mondo libero” che si presume condivida valori tradizionali e sia sempre più’ unito; contro l’altro blocco, sempre più’ autocrate e totalitario. Nel mezzo? Nulla o poco più di un residuo, perché’ nel mondo ad una dimensione non vi sono alternative ai blocchi. Si tratta di un’allusione a modi di pensare degli anni ‘30 che si era già’ manifestata prima della guerra in Ucraina, per esempio con l’idea di un Concerto delle Democrazie o di un Summit per la Democrazia, ma che l’invasione Russa ha rinvigorito.

La chiamata a raccolta del “mondo libero” evoca diverse questioni, alcune in principio condivisibili come quelle connesse alla lotta all’autoritarismo, alla domanda endogena e dal basso di partecipazione, alla condanna delle Fake News, alla sicurezza elettorale e soprattutto nazionale. Ma allo stesso tempo, in questa fase di interregno e di caos delle visioni, e’ un richiamo nostalgico ed ideologico ai rapporti di forza internazionali della guerra fredda, una narrazione memoriale molto ispirata dai conflitti domestici negli Stati Uniti e poco comprensibile in un quadro internazionale sempre più’ complesso, irriducibile a semplificazioni manichee ed all’essenzialismo morale. Insomma, sembra si voglia sempre più’ accelerare la storia, ma in realtà’ il movimento storico sembra avanzi sempre meno 10.

Ad ogni modo, sebbene l’aggressione russa sembri riportarci alla guerra fredda e ad un mondo Westphalliano con giochi a somma zero tra potenze che cercano di sottomettere gli altri paesi al loro volere e di perseguire i loro interessi senza ostacoli, essa ha prodotto reazioni diverse dal bipolarismo ed unexpected results.

In primo luogo, come si e’ detto in apertura di questo articolo, i paesi del “Sud” non sono confluiti in massa in uno dei presunti due blocchi, benche’ stiano gia’ pagando duramente le conseguenze indirette della guerra. L’appello al bipolarismo puo’ difficilmente convincerli, se non altro a causa delle incongruenze che lo caratterizzano. Oggi piu’ di ieri, e’ difficile disegnare a colpo d’occhio il bordo di ogni “blocco” ed escludere dalla comunità’ chi non vi appartenga o chi minaccerebbe gli interessi di uno dei suoi membri. Infatti, i paesi democratici intrattengono relazioni frequenti, ripetute ed anche dense con paesi ben meno democratici di loro 11. Gli uni e gli altri possono intendersi su alcune questioni, ma divergere su altre. Inoltre, le caratteristiche che prevalgono all’interno dei presunti blocchi sono meno omogenee e più’ sfumate di quanto a volte si voglia far credere. In particolare, vi e’ una certa erosione dei principi democratici, con alcuni paesi che adottano criteri di chiusura, offuscamento della trasparenza e limiti al pluralismo lontani dai cosiddetti valori condivisi 12. Infine, l’appello ideologico presume il ritorno immediato ad una missione egemonica per gli Stati Uniti, con responsabilità’ ed impegni internazionali che sono messi in dubbio dalle tensioni profonde nella società e politica statunitense: si pensi all’insofferrenza crescente negli USA sulle costrizioni esterne alla potenza americana e alle tendenze domestiche di tipo antidemocratico ed anche autoritario, incluso l’ epilogo violento dell’amministrazione Trump.

In secondo luogo, gli stessi paesi che costituiscano il preteso nocciolo duro dei due campi sono meno allineati di quanto si pretenda. Non vi e’ dubbio che la NATO sia stata rinforzata dalla guerra in corso rispetto alle critiche di cui era stata oggetto negli ultimi anni, ma anche lo spazio per un’autonomia strategica europea si e’ riaperto con straordinario ed inatteso vigore; si veda , per esempio la nuova posizione tedesca sulla difesa. E’ una tappa supplementare che, sommata al famoso “whatever it takes” del 2012 ed al piano Next Generation EU, rinforza l’autonomia e sovranità europea. Si ricordi che questi termini furono rifiutati seccamente non piu’ tardi di due anni fa 13 nonostante le crepe dell’incanto atlantista fossero aumentate sotto Donald Trump. Vi sono almeno due condizioni a che l’autonomia strategica si rafforzi ulteriormente. La prima e’ che gli europei se ne approprino con determinazione e che ognuno non solo spenda di più’, ma che spenda di più’ insieme, come ha sottolineato Josep Borrell: la capacità’ dei singoli stati membri di far faccia all’agenda attuale e’ insufficiente e ci si deve rendere conto che i costi di una soluzione europea sono molto più’ bassi dei costi di non averla. La seconda condizione e’ che l’Europa riconosca che non incarna spontaneamente la solidarietà del resto del mondo e deve investire nel partenariato (e non la carita’) con i paesi del Sud ed in priorità’ con l’Africa e l’America Latina. Si tratta di coltivare nel tempo una vera alleanza che, contrariamente alle convinzioni arroganti, non e’ gia’ acquisita, ma e’ piuttosto da costruire. Mi accingo a tornare su questo punto.

Ad ogni modo, sebbene l’aggressione russa sembri riportarci alla guerra fredda e ad un mondo Westphalliano con giochi a somma zero tra potenze che cercano di sottomettere gli altri paesi al loro volere e di perseguire i loro interessi senza ostacoli, essa ha prodotto reazioni diverse dal bipolarismo ed unexpected results.

Mario pezzini

Quanto alla Cina, sembra sia più’ una variabile che un dato del problema. La Cina non è ad oggi identificabile in un blocco. Si trova piuttosto in una situazione complessa il cui esito e’ meno scontato di quanto diversi attori vorrebbero far credere. Da un lato, per esempio, la Cina si confronta con la sua tradizionale e forte avversione all’incertezza e alla mancanza di stabilità’ nelle relazioni internazionali; non ha interessi diretti in gioco; tende a dare priorità’ in generale alla sovranità’ e integrita’ territoriale 14 nelle relazioni tra stati; tende a difendere la Carta delle Nazioni Unite quando sono minacciati i confini tra stati; si è astenuta ai recenti voti alle Nazione Unite. Dall’altro lato, per esempio, la Cina ha stretto un rapporto di partenariato con la Russia, con cui condivide confini lunghissimi; diffida degli Stati Uniti che l’hanno designata da tempo come l’avversario strategico; teme che il risultato finale del conflitto sia l’istaurazione di un nuovo ordine mondiale che le sia ostile e che miri alla sua destabilizzazione. I pesi e le interazioni di questi diversi fattori – e di altri visto che qui si sono fatti solo pochi esempi – sono ancora incerti e l’equazione non ha dunque ancora una soluzione. Non pare quindi ragionevole cercare di intimidire la Cina per presunti suoi cedimenti alle richieste russe e di spingerla ad un matrimonio prematuro e su procurazione con la Russia i cui esiti potrebbero essere tanto incontrollati che disastrosi. Sembra piuttosto auspicabile di lasciare al massimo aperte le possibilita’ di dialogo con la Cina e di non cedere ai piu’ o meno lusinghieri ritorni ad un mondo diviso in due blocchi contrapposti.

Il ritorno all’egemonia economica occidentale?

In questa fase di interregno, un altro Dinieghi appare nei modi prevalenti di vedere l’economia del Sud e nella presunta egemonia su quell’area geografica delle visioni occidentali. Non si prende atto fino in fondo che, a partire dalla fine del secolo scorso, potenti trasformazioni sono apparse nel Sud e si tende a considerarle come fenomeni passeggeri, incapaci di trasformare in modo durevole il paesaggio globale. La realtà’ e’ un’altra: unita alle conseguenze della decolonizzazione e della caduta della cortina di ferro, lo sviluppo del Sud ha modificato la geografia e disegnato un mondo diverso da quello del secondo dopoguerra. Per molti anni, circa 80 paesi non-OCSE hanno registrato una crescita spettacolare, piu’ del doppio di quella del cosiddetto occidente. Attorno al 2010, il PIL prodotto dai paesi non-OCSE ha sorpassato quello dei paesi OCSE, in parità di potere d’acquisto. Per chi avesse voluto analizzare questa trasformazione piu’ in dettaglio, sarebbe apparso gia’ allora chiaro che i cambiamenti andavano ben al di là’ della crescita del PIL 15 e riguardavano molteplici aspetti della struttura economica globale tra cui gli scambi commerciali, la produzione, la struttura sociale, la finanza internazionale. Inoltre, si poteva gia’ intuire che questa trasformazione avrebbe finito per modificare le relazioni internazionali e gli equilibri di potere, se non i nostri modi di pensare, vittime di ideologie straordinariamente conservatrici, convenzionali ed inerziali.

Attorno al 2010, il PIL prodotto dai paesi non-OCSE ha sorpassato quello dei paesi OCSE, in parità di potere d’acquisto.

Mario pezzini

La Cina divenne attorno a quegli anni il primo paese partner commerciale dell’Africa, dell’Asia emergente e di diversi paesi latino americani. E non fu solo questione di Cina. Benche’ quest’ultima fosse la principale locomotiva del cambiamento, si sommarono ad essa paesi come l’India, il Brasile, il Sud Africa, la Turchia, la stessa Russia, i dragoni asiatici ed altri ancora. Questi paesi influenzarono in modo profondo le catene globali di valore. La manifattura si rilocalizzo’ nel Sud in proporzioni piu’ che significative e la domanda di risorse naturali crebbe considerevolmente in volume e prezzi, offrendo una finestra di opportunità’ a molte economie in sviluppo 16. Sul piano sociale vi fu una straordinaria riduzione della povertà estrema (da 1.9 miliardi nel 1990 a 735 milioni nel 2015); una redistribuzione radicale delle ineguaglianze tra paesi, regioni ed individui; la formazione di una cospicua cosiddetta “nuova classe media”; lo slittamento delle riserve monetarie e degli assets finanziari verso l’Est ed in parte il Sud. Queste potenti trasformazioni si mossero nel tempo ad un passo relativamente lento, ma inesorabile: produssero cambiamenti epocali, come giganteschi movimenti geologici e contraddirono profondamente la narrative prevalenti, a cominciare da quella della fine della storia.

Tuttavia, tali cambiamenti rimasero a lungo invisibili. Per il loro stesso carattere geologico e di tendenza, tardarono ad essere registrati dalle nuvole di tweets, spesso governate dall’ansieta’ evenemenziale dell’oggi, o dalle pagine dei giornali, anch’esse scolpite sul quotidiano. Ma anche i più’ allenati “occhiali” degli osservatori e dei policy makers occidentali li percepirono a fatica. In conseguenza, le narrative geoeconomiche occidentali continuarono ad essere quasi esclusivamente costruite sui modelli tradizionali di modernizzazione. Ancora oggi in molte riflessioni in occidente lo sviluppo e’ concepito come l’evoluzione di paesi in “ritardo” lungo un sentiero unico, tracciato all’origine dai paesi occidentali. I “ritardatari”, i paesi del Sud, continuano ad essere visti come “impacciati” da “ostacoli” interni, da istituzioni arcaiche ed inadatte allo sviluppo, di cui sarebbero i soli responsabili e di cui dovrebbero sbarazzarsi al piu’ presto. Fatto cio’, ripulite le scorie del passato, i meccanismi di mercato porterebbero stabilmente la popolazione fuori dalla povertà’ estrema e produrrebbero una convergenza economica quasi automatica nel medio-lungo termine.

La congettura circa un’unico sentiero di sviluppo avrebbe dovuto apparire già’ all’origine come assai discutibile e riduzionista. Pur tuttavia si e’ mantenuta con vigore ed e’ tutt’oggi un ostacolo alla percezione del cambiamento. Pertanto, non mancano casi di paesi emergenti cresciuti in modo spettacolare, ma non “ortodosso”. Questi paesi possono aver considerato alcune delle lessons learned dell’occidente, non necessariamente sempre le stesse; ma le hanno in genere adattate al loro contesto. Hanno spesso preso in conto l’asimmetria delle proprie strutture produttive rispetto a quelle dei paesi gia’ sviluppati, la difficoltà’ che quell’asimmetria induce per la loro trasformazione produttiva ulteriore, ed hanno elaborato delle politiche industriali conseguenti, benche’ il pensiero ortodosso le bandisse 17. Ne’ mancano casi di paesi “diligenti” che non hanno tratto un beneficio significativo dalle raccomandazioni “ortodosse”. Per esempio, che hanno seguito la raccomandazione di integrarsi nelle reti del commercio internazionale e tuttavia rimangono poveri, o addirittura si sono impoveriti. Senza contare che in molti casi gli stessi paesi occidentali hanno seguito pratiche diverse nel passato da cio’ che predicano come prerequisiti indispensabili allo sviluppo nel presente.

Quindi, perchè pensare che l’offerta di un’alleanza economica esclusiva con i paesi occidentali debba essere salutata dai paesi del Sud come il piu’ invidiabile dei tesori, al punto da aderirvi di slancio? La risposta non e’ evidente, eppure spesso i paesi occidentali, in quanto first comers dello sviluppo, continuano a pretendere di essere i più’ legittimi a prescrivere raccomandazioni e disseminare standards e Best Practices ai paesi del Sud. In tema di politiche economiche o in tema di democrazia, visto che pretendono vi sia una relazione biunivoca tra successo in economia e democrazia, non meglio definita. E visto che insitono sui loro standards come una condizione necessaria e sufficiente allo sviluppo e non, per esempio, come un suo effetto o la traduzione dei loro interessi. Questa narrativa si e’ tradotta in varie forme che vanno dalla propaganda, alla condizionalita’, all’applicazione di consensi come quello di Washington, a programmi per la diffusione di standards nei paesi del Sud ed ha avuto un forte carattere normativo. Ai paesi del Sud e’ stato spesso chiesto di modificare in modo accelerato la loro legislazione, le loro politiche e i loro calendari. Ma per quanto questi ultimi possano aver acconsentito, vivono un’insofferenza crescente, almeno della loro opinione pubblica, verso l’eterodeterminazione.

Perchè pensare che l’offerta di un’alleanza economica esclusiva con i paesi occidentali debba essere salutata dai paesi del Sud come il piu’ invidiabile dei tesori, al punto da aderirvi di slancio?

mario pezzini

In alcuni casi, tuttavia, si e’ provato ad andar oltre la logica normativa ed a tentare esperimenti multilaterali innovatori che inizino con una logica interpretativa. Per esempio, reti di paesi che si riuniscono regolarmente per condividere informazioni ed esperienze e, se possibile, per costruire comprensioni condivise delle tendenze economiche e delle politiche. Questi tavoli, in teoria, potrebbero elaborare un setting, la cornice strutturata di un dialogo tra “pari” con i paesi del Sud ed ingaggiare una revisione delle narrative tradizionali, del Nord come del Sud. Purtroppo, oggi attorno ad essi i paesi del Sud sono invitati con parsimonia o, ancora più’ spesso, continuano ad essere esclusi 18; su questi tavoli asimmetrici prevale una logica normativa; ed i contenuti della cooperazione continuano, salvo poche eccezioni, a concentrarsi sulle “riforme di mercato”, sull’apertura al commercio, sull’adozione di standards in tema di istituzioni, corruzione, privatizzazioni, tasse ed aiuti finanziari. Molto poco sui temi dell’inclusione sociale, dei diritti dei lavoratori e dello sviluppo territoriale, degli investimenti pubblici che pure sono stati cruciali, per esempio, nella costruzione europea. Ancor meno delle caratteristiche sui generis dello sviluppo nei paesi del Sud. Cosi’, parole come “sviluppo” e “cooperazione” si sono trasformate in sinonimi di “crescita economica” ed “assistenza” o “aiuti”.

La solitudine della potenza senza egemonia?

In questa fase di interregno, si incontra spesso un terzo diniego. Questa volta legato alle “alleanze” e, più’ in generale, a questioni che hanno a che fare direttamente con la solidarietà’ e la cooperazione con i paesi del Sud. Limitiamo l’osservazione su questo punto allo scenario europeo, per ragioni di semplicita’.

Di questi tempi, si sottolineano spesso i rischi che l’Europa perda lo statuto di attore pertinente nello scenario internazionale. A questo riguardo si cita Angela Merkel nel ribadire che “dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”. Si discute allora in particolare 19 del fatto che l’Europa dovrebbe accettarsi come “potenza” e si argomenta sul linguaggio del potere, sulla sovranità’ europea e sulla necessità’ di costruire ed usare un hard power; sulla difesa che soffre di un divario tra aspettative e risultati e che rischia di essere orientata dagli eventi, invece che di scolpirli; sulle risorse, gli impegni e l’implementazione di una politica di difesa. Allo stesso tempo, si sottolinea anche come sia necessario costruire una nuova narrativa che accompagni la metamorfosi europea e legittimi le non facili scelte politiche dei mesi a venire che saranno connesse alle conseguenze della guerra, della pandemia e dei nuovi assetti mondiali.

Ma che includere in una tale narrativa? Non vi e’ dubbio che si tratti di modellare strategie di sviluppo europeo costruite su di una geografia ed una storia comuni che possano orientare il futuro di un “noi” 20, per se’. Certo, non si tratta di un compito semplice, dati i buchi da coprire e i cambi da approvare per il declino auspicabile di una serie di ideologie purtroppo dominanti nel continente – come quella della fine della storia o dell’ortodossia economica. Ma forse su questo fronte siamo un po’ piu’ allenati. L’Europa nel tempo ha discusso la sua integrazione economica e sociale, occupandosi si’ di mercati, ma anche di coesione sociale e territoriale che ha ispirato une delle principali politiche attive dell’Unione 21, benche’ non appieno compresa. A lungo ha poi discusso della propria integrazione politica, e della costruzione delle proprie istituzioni e di chi dovesse fare parte dell’Unione 22, del noi. Si pensi alla questione del rapporto con i paesi dell’est ed alla loro adesione. Infine, i conflitti tra gli stati partecipanti e fra alcuni attori sociali, il noi, sono stati veicolati da varie forme di dialogo, istituzioni e procedure legali ed amministrative che hanno permesso di evitare il ricorso alla forza ed alla potenza tra stati membri con l’intento di produrre forme, piu’ o meno riuscite, di fiducia ed apprendimento reciproco.

Il fronte menzionato piu’ volte in questi giorni per la costruzione della narrativa e’ invece quello della relazione con l’”altro” e delle strategie che ne conseguono. Certo, le relazioni tra potenze mondiali, che sono particolarmente complesse e conflittuali, e ovviamente la guerra in corso, concorrono a spiegare perche’ la relazione con l’altro sia convocata con insistenza. Non sorprende dunque che il potere e la potenza siano termini spesso evocati e che si invitino i paesi dell’Unione a costruire un’Europa della difesa, modificando convinzioni che ristagnavano da tempo. Tuttavia, vi e’ una questione che mi pare fondamentale e che invece e’ ancora purtroppo poco presente nel dibattito, salvo quando ci si sorprende dinnanzi all’altro, come segnalato all’inizio di questo articolo: Di chi l’altro e’ il nome? E’ solo il “nemico” o il “suddito”? E’ solo colui o colei che vorrebbe imporre con la potenza e la forza la sua “differenza” alla nostra “identita’” o che e’ disposto a chinare il capo alla nostra pre-potenza? Siamo cioe’ destinati a costruire la nostra narrativa come quella di un’isola sempre più’ assediata e priva di interazioni e legami, che non siano la dipendenza altrui o nostra o il puro interesse di mercato?

Di chi l’altro e’ il nome? E’ solo il “nemico” o il “suddito”? E’ solo colui o colei che vorrebbe imporre con la potenza e la forza la sua “differenza” alla nostra “identita’” o che e’ disposto a chinare il capo alla nostra pre-potenza?

mario pezzini

Al di là’ della retorica, e’ evidente che gli altri hanno profili differenti che la narrativa non può’ eludere; cosi’ come non può’ sottovalutare la natura delle relazioni che tessiamo con loro. A fianco dei nemici o dei clienti vi sono i potenziali alleati con cui dovremmo costruire e poi coltivare, a diversi gradi e con diverse modalità’, strategie di solidarieta’/lealtà’/reciprocita’ e non solo di legge/mercato/potere 23. L’affermazione di se’ e della propria potenza e’ probabilmente una componente della costruzione comunitaria nell’attuale fase di interrregno, ma non può’ costituirne l’essenza. Vi sono giochi a somma positiva e non solo negativa 24 che sono indispensabili per le future strategie di sviluppo. Non e’ ragionevole pensare che la solidarietà’ abiti solo all’interno dei confini dell’Europa o della NATO, per quanto riaggiustati, e sia sinonimo di fusionalita’ . Insomma, sono persuaso che si debba riflettere in profondità’ alle interazioni con gli altri, pensando anche al policentrismo, al pluralismo ed allo sviluppo. Mi conforta in questo il fatto che un importante pensiero politico come quello di Antonio Gramsci considera che l’egemonia richieda sia la forza per imporsi che le alleanze per durare.

A ben riflettere, l’autonomia strategica europea pone il problema di come concepire autonomamente i conflitti e la solidarietà’ con gli altri e richiede un’accorta e trasparente politica di alleanze. Principalmente con l’Africa e l’America Latina. Va da se’, per esempio, che l’Europa ha ed avra’ bisogno di mantenere il dialogo e la cooperazione anche con paesi che non hanno votato le dichiarazioni delle Nazioni Unite, ma con cui e’ necessario affrontare le sfide dei cosiddetti “beni pubblici globali” 25. E’ ugualmente chiaro che la maggior parte di noi ha sottovalutato la profondità’ della nuova geografia globale e l’importanza di una rinnovata ed anche forse rivoluzionata natura delle relazioni Europee con i paesi e le regioni del Sud, che sia orientata allo sviluppo invece che alla carita’ o alla preservazione dell’influenza del passato coloniale; che sappia ascoltare la voce del Sud; che usi l’intera gamma degli strumenti disponibili per consolidare un partenariato che si e’ rivelato piu’ debole di quanto si pensasse 26 e soprattutto non esclusivo.

L’affermazione di se’ e della propria potenza e’ probabilmente una componente della costruzione comunitaria nell’attuale fase di interrregno, ma non può’ costituirne l’essenza. Vi sono giochi a somma positiva e non solo negativa

mario pezzini

In conclusione

Dobbiamo costruire uno spazio pubblico rinnovato per dialogare da pari con i paesi del Sud se, come si e’ cercato di argomentare, il richiamo al vecchio bipolarismo non pare convincente, se i nostri antichi pregiudizi circa la situazione geopolitica globale sono desueti, se l’Europa potenza e’ forse indispensabile, ma non sufficiente a definire le nostre posizioni nel mondo e come desueti sono gli strumenti di cooperazione a disposizione.

Dovremo in futuro ripensare con piu’ calma anche ai nostri strumenti concettuali. Sant’Agostino, come e’ noto, condanno’ le passioni dell’uomo con la sola attenuante della libido dominandi se congiunta ad un forte desiderio di encomio e gloria, ugualmente esaltati in seguito dall’ethos cavalleresco. Ma le conseguenze distruttive della libido dominandi, evidenti tra l’altro nelle guerre, spinsero a cercare nuove soluzioni al di là’ della morale filosofica e dei precetti religiosi. Per esempio nella coercizione del sovrano, tuttavia a rischio di eccesso di crudelta’ o di clemenza (meno). Oppure nell’imbrigliare le passioni, piuttosto che limitarsi a reprimerle, e trasformarle in pubbliche virtù’. Cosi’ Adam Smith, filosofo morale, tento’ di promuovere una categoria di passioni – gli interessi – relativamente innocue, a suo avviso, per neutralizzare le altre piu pericolose e distruttive. L’interesse economico e la cupidigia furono presto assurti al rango di passione privilegiata col compito di domare le altre e dare un contributo all’arte di governo 27.

Alcuni secoli piu’ tardi, abbiamo sperimentato qualche decennio di ideologia neo-liberista e di un paradigma dominante che ha preteso esaltare l’interpretazione di tutte le azioni umane in termini di interesse personale. E’ debito riconoscere oggi che l’idea che l’interesse governi il mondo – dato che l’amore per il denaro assicurerebbe costanza, pertinacia ed immutabilita’ – ha perso molto della sua primitiva suggestione. Cosiccome l’idea che l’espansione dei traffici si accompagnerebbe alla diffusione dell’ ingentilimento e condurrebbe alla pace (la douceur di Montesquieu). Insomma, l’economia non può’ estromettere la politica. Ma e’ quindi inevitabile rassegnarsi ai disastri della potenza, della rapacita’ e della crudelta’ dei sovrani e dei loro grands coups d’autorite’? La risposta di Montesquieu e’ nota e rimanda alla separazione dei poteri e ad un governo pluralista alla ricerca di un potere equilibrante, per quanto riguarda la politica interna. Dato il discontento crescente, bisognerebbe tornare a pensare alla partecipazione.

Oltre ai meccanismi del mercato ed del potere varrebbe la pena di riconsiderare le logiche dell’azione collettiva, i processi sociali, gli spazi collettivi per la comunicazione come fattori ineludibili delle interazioni internazionali.

Mario pezzini

E nelle relazioni internazionali? Se si considera la logica geopolitica tradizionale dove il primum movens e’ la libido dominandi e in cui i giochi sono a somma zero, e’ probabile che non solo le relazioni tra potenze, ma anche quelle con i paesi in via di sviluppo sfocino nel conflitto, nel dominio o nella carita’. Viceversa, se si pensa che, assicurata una certa soglia di stabilità’ e sicurezza, si possa contenere la libido dominandi, allora altre piste divengono praticabili, e questo anche se i paesi del “Sud” mantengono sistemi politici ed economici almeno in parte differenti da quelli occidentali. Insomma, oltre ai meccanismi del mercato ed del potere varrebbe la pena di riconsiderare le logiche dell’azione collettiva, i processi sociali, gli spazi collettivi per la comunicazione come fattori ineludibili delle interazioni internazionali.

In questa seconda logica, sarebbe indispensabile rilanciare, a fianco di un hard power, un vero soft power, e non il vago simulacro a cui ci si riferisce usualmente. Uno spazio pubblico inclusivo per evitare i rischi di incomprensioni crescenti e circoli viziosi, dove discutere in dettaglio i singoli sentieri di sviluppo e le forme di cooperazione internazionale per accompagnarli. Si tratterebbe di rinvigorire una logica interpretativa rispetto alla sola logica normativa; di dialogare con e considerare la specificità dei paesi in via di sviluppo, invece di pretendere di conoscerli e considerarli destinatari di standards alla cui definizione non hanno partecipato. Ma il dibattito in proposito e’ ancora in corso e per ora la logica degli standards appare purtroppo dominante.

Resta il fatto che oggi vi sono diverse narrazioni che interpretano lo sviluppo ed il panorama geopolitico che ne risulta. L’Europa deve ripensare la sua e vedere come dialogare con le altre. Il rapporto tra queste narrazioni puo’ essere conflittuale, ma spesso si tratta del risultato di memorie differenti che riposano sue storie differenti, traumi differenti, sentieri di sviluppo e culture differenti, con i rispettivi silenzi e le rispettive rimozioni, ma anche con le rispettive visioni ed aspettative. Come dice giustamente Charles Michel sul Grand Continent :

“[…]il nostro discorso sui diritti umani e’ spesso percepito nei paesi terzi come uno strumento della dominazione occidentale. Nel mezzo di una guerra di aggressione, Putin e’ il primo a sfruttare abilmente questo fenomeno attraverso la propaganda. Cercare di capire la storia e le storie, di misurare i traumi collettivi dei popoli del mondo, porta a una migliore comprensione delle posture politiche contemporanee. Ogni popolo, ogni paese si confronta con le proprie ferite. A volte vengono guarite, ma non sempre. I nostri discorsi che sostengono una nuova narrazione europea non devono quindi ignorare questa parte del nostro passato che spesso e’ ancora rimossa.”

Note
  1. Le popolazioni dei paesi che non hanno votato la dichiarazione rappresentano la maggioranza della popolazione mondiale. Tra l’altro la tempestiva carta preparata dal Grand Continent, sulla base di dati differenti, mostrava in modo più’ esplicito il non allineamento dei paesi del Sud. Molti degli ingenti sforzi diplomatici occidentali per il voto all’assemblea delle Nazioni Unite non avevano ancora dato i loro frutti. Le Grand Continent: “Trois cartes pour comprendre le bouleversement géopolitique que constitue la guerre en Ukraine” https://legrandcontinent.eu/fr/2022/04/08/trois-cartes-pour-comprendre-le-bouleversement-geopolitique-que-constitue-la-guerre-en-ukraine/
  2. Vedi il discorso dell’ambasciatore del Kenya.
  3. Una sorpresa molto diversa, ma contemporanea a quella nei confronti della guerra scatenata dalla Russia.
  4. La crescita demografica e’ senza precedenti ed il grande numero di giovani e’ un potenziale per la trasformazione economica africana. Tuttavia, puo’ trasformarsi in una turbolenza se quegli stessi giovani non dovessero trovare un posto in societa’.  Uno crescita dello scontento potrebbe portare, da un lato, a consistenti destabilizzazioni politiche in Africa e, dall’altro, ad accresciuti flussi migratori in Europa.
  5. David MacNeir “Promises Promises: what’s next for the Europe Africa Partnership?”
  6. Stephany Griffith-Jones and Moritz Kraemer “Credit rating agencies and developing economies” DESA Working Paper No. 175.
  7. Che poi e’ cio’ che in passato si chiamava un’ideologia, se non la si intendeva solo come un pensiero distorto. Ora, un’ideologia tende ad avere forte inerzia di fronte alle diverse confutazioni, incluso quelle piu’ farcite di evidenze empiriche. Da qui una delle difficoltà’ di rivedere la narrativa prevalente.
  8. E non a caso e’ sul Grand Continent che il Présidente Macron sottolineo’ la necessita’ di un nuovo consenso sullo sviluppo.
  9. “Passato e presente. L’aspetto della crisi moderna che viene lamentato come «ondata di materialismo» è collegato con ciò che si chiama «crisi di autorità». Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più « dirigente », ma unicamente « dominante », detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
  10. Le Grand Continent, Politiques de l’interrègne, Gallimard 2022
  11. Si pensi per esempio ai paesi del Golfo o al Pakistan o alle Filippine.
  12. Si pensi all’Ungheria o alla Polonia o alla Turchia membri della NATO, o si pensi ancora alle differenze tra l’alleanza che unisce l’UK, gli Stati Uniti, l’Australia ed il Canada, da un lato, e l’Unione Europea,  dall’altro.
  13. Pascal Lamy, Un plan de resilience pour l’Europe apres l’invasion de l’Ukraine, Le Grand Continent, https://legrandcontinent.eu/fr/2022/03/06/un-plan-de-resilience-pour-leurope-apres-linvasion-de-lukraine-une-conversation-avec-pascal-lamy/
  14. A differenza dell’Ucraina, Taiwan non e’ un paese membro delle Nazioni Unite.
  15. Un indicatore con diversi problemi quando pretende misurare da solo lo sviluppo.
  16. Che purtroppo in molti casi non seppero approfittarne.
  17. Salvo poi rimanere ceco rispetto alla loro adozione di fatto almeno in alcune potenze occidentali.
  18. Per esempio, le politiche di assistenza allo sviluppo sono discusse solo tra donatori tradizionali che si accordano su e misurano che spese siano classificabili come aiuti ufficiali allo sviluppo. Tra questi non vi e’ alcun paese BRICS, alcun paese emergente, alcun paese africano o latinoamericano. Simile e’ il tavolo sui rischi paese per i crediti alle esportazioni. Un caso a parte e’ stato quello del Centro di Sviluppo dell’OCSE che ha riconosciuto quanto stava accadendo ed e’ passato ai piu’ di 50 membri attuali, fra cui l’Africa del sud, l’Argentina, il Brasile, la Cina, l’India, l’Indonesia. Il Centro ha cercato di mantenere un’equilibrata distribuzione geografica e conta 14 paesi latino-americani, 11 africani, 8 asiatici, 21 europei, piu’ la Turchia ed Israele. L’obiettivo dichiarato non e’ l’universalità, dato che l’alto numero di partecipanti renderebbe complicato il dialogo tecnico, quanto piuttosto la rappresentatività. Il Club del Sahel ha seguito una prospettiva simile, e, per esempio, nel 2011 ha integrato l’insieme delle comunità dei paesi dell’Africa Orientale.
  19. Si veda per esempio molti articoli apparsi su Le Grand Continent.
  20. Un “noi” che non può’ tradursi in reductio ad unum, quanto piuttosto in una confederazione di anime con un io dominante che varia nel tempo, per citare Antonio Tabucchi.
  21. La cosiddetta Politica di Coesione ed il suo corollario rappresentato dai fondi strutturali.
  22. Si e’ posta qui la questione del “vicino”: colui con cui si ha una certa consuetudine e molte presunte similitudini, e che magari si osserva da lunga data in vista di un eventuale allargamento della famiglia o assimilazione nella famiglia.
  23. Il tiranno non può concepire che l’ordine e la seduzione.
  24. Come suppone una vecchia tradizione geopolitica ma non altri approcci delle scienze sociali.
  25. Che includono tra l’altro il riscaldamento del pianeta, la gestione dell’acqua, la salute, le migrazioni, il nucleare, la sicurezza, etc…
  26. Si veda il dibattito su “Development in Transition” o quello molto simile su “Global public investments”.
  27. Albert O. Hirschman The passions and the interests, 1977, Princeton University press.