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Come molti altri fenomeni umani e naturali la politica va a ondate. In economia si parla ormai da un secolo di questo andamento ondeggiante del ciclo economico, come teorizzato nelle “onde K” di 40-50 anni di cui parlava l’economista Nikolai Kondratiev. I cicli ideologici sembrano avere un andamento simile. Periodi storici lunghi all’incirca mezzo secolo associati con un determinato consenso ideologico si sono succeduti nella storia moderna, a partire dalla rivoluzione francese. Questi periodi tipicamente iniziano con una pars destruens che scardina gli assunti dell’era ideologica precedente, raggiungono un punto di massima egemonia e poi progressivamente vanno a scontrarsi con le proprie contraddizioni, aprendo lo spazio per un nuovo ciclo.
Gli esempi storici sono molteplici. All’era liberale di fine Ottocento e inizio Novecento è succeduta l’era social-democratica del dopoguerra. E infine, a partire dai tardi ’70 e inizio ’80, l’era neoliberista, segnata dal trionfo dell’ideologia del libero mercato sulle ceneri del socialismo reale. Il neoliberismo ha segnato l’era della globalizzazione ed è assorto a pensiero unico ampiamente accettato sia dal centro-sinistra che dal centro-destra. Ma ora anche quest’era ideologica sembra ormai destinata a volgere al termine.
Come sostenuto da economisti come Joseph Stiglitz1 e Thomas Piketty, il neoliberismo era di fatto già claudicante dopo la crisi del 2008; il mito del libero mercato era finito in frantumi il giorno in cui lo stato americano intervenne per salvare la finanza dalla bancarotta, sfatando l’idea del “mercato che si autoregola”. Quella che originariamente si presentava come una visione di prosperità e innovazione, è diventata sempre più vista come un’ideologia punitiva se non del tutto sadica, che lungi dall’auspicare la crescita ha portato a una fase di stagnazione economica senza precedenti dall’inizio dell’era industriale.
Gli anni 2010, segnati da rivolte populiste, movimenti di contestazione, nuovi leader e partiti di sinistra e – a partire dalla metà del decennio – anche da una nuova destra xenofoba, hanno messo in luce quanto fosse vasto lo scontento verso l’ordine dominante. La pandemia di coronavirus sembra avere inferto il colpo mortale. Gli effetti deleteri dei tagli alla sanità durante la Grande recessione e l’incapacità del mercato di soddisfare in maniera efficace la domanda di beni medici di urgenza (mascherine, ventilatori e poi vaccini) hanno minato la fiducia della popolazione nel neoliberismo.
Tuttavia questa non è solo la fine di un’era ideologica, ma anche l’inizio di una nuova epoca. Dal calderone dell’emergenza sta progressivamente emergendo una nuova cornice: il nemico giurato del neoliberismo, lo Stato interventista, si sta riaffacciando in tempi segnati da piani massici di investimento pubblico, spesa a deficit, programmi di vaccinazione di massa e pianificazione climatica. Se fino a poco tempo fa il discorso politico ruotava attorno alla domanda “cosa farà il mercato?” e i politici si presentavano come i gestori a livello nazionale di tendenze economiche inevitabili, ora il dilemma è diventata piuttosto “cosa deve fare lo Stato?”.
Un neo-statalismo, o neo-interventismo, sta sostituendo il neo-liberismo come cornice bipartisan, dentro cui si muovono con soluzioni diverse sia il nuovo centro-sinistra di Biden che il centro-destra di Johnson. Questo, contrariamente alle aspettative di buona parte della sinistra arrivata erroneamente ad equiparare lo statalismo al socialismo tout court, non significa che stiamo necessariamente andando verso un futuro più progressista e egualitario. Piuttosto, come sostengo nel mio nuovo libro The Great Recoil (il gran contraccolpo), ciò che è cambiato è l’orizzonte politico generale, il campo di battaglia sul quale nuove posizioni ideologiche “partisan” sia di sinistra che di destra lottano per definire il mondo post-pandemico.2
Paura del Trumpismo, paura della Cina
La manifestazione più evidente di questo cambio di paradigma viene dagli Stati Uniti, proprio il paese che con la scuola di economisti dell’università di Chicago e think-tank come l’American Enterprise Institute, the Heritage Foundation, the Project for the New American Century ha fatto più di tutti per sviluppare e poi esportare la dottrina neoliberista. Con grande sorpresa di molti, a partire dai socialisti che avevano sostenuto Bernie Sanders alle primarie, una volta eletto presidente Joe Biden ha intrapreso una svolta radicale alla politica economica. Il nuovo presidente ha messo in cantiere enormi piani di stimolo e recupero per un totale di 6 trillioni di dollari. È vero che buona parte di questi piani sono ancora in bilico a causa dell’esigua maggioranza al Senato e la resistenza di diversi centristi, e che rischiano di finire fortemente annacquati. Ma si tratta comunque del più grande piano di spesa pubblica e investimento nella storia degli Stati Uniti.
Quello che sorprende, oltre all’ammontare di questi piani, è la nuova logica che gli sta dietro. Biden non ha perduto occasione per demolire capisaldi dell’ideologia di mercato: ad esempio quando ha affermato nel suo primo discorso a una sessione congiunta del Congresso il 29 Aprile 2021 che la “trickle-down economics” (o economia dello sgocciolamento dai proventi dei ricchi a tutti gli altri) non ha mai funzionato. Nello stesso discorso Biden ha rivendicato un ruolo da protagonista dello Stato nella nuova economia. “Nel corso della nostra storia, gli investimenti pubblici nelle infrastrutture hanno letteralmente trasformato l’America” – ha affermato Biden, aggiungendo “questi sono investimenti che solo il governo era in grado di fare”. Inoltre Biden si è presentato come un presidente dei sindacati e dei lavoratori, sostenendo a più riprese la necessità di migliori salari per i lavoratori, sospirando agli imprenditori durante una conferenza stampa “pagateli di più”.
Nel loro insieme queste prese di posizione segnano una chiara rottura con l’adesione dei Democrats alla dottrina del libero mercato, intrapresa da Bill Clinton e poi continuata da Barack Obama. Si tratta di una svolta sorprendente, tanto più per la carriera precedente di Biden, che durante i 36 anni da senatore del Delaware ha contribuito allo smantellamento dello stato sociale e a politiche a favore delle multinazionali. Perché Biden sta facendo tutto questo?
La migliore spiegazione sul retroscena della Bidenomics può essere rinvenuta in un’intervista concessa nell’aprile scorso al giornalista Ezra Klein del New York Times dal capo dei consiglieri economici di Biden Brian Deese, già consigliere dell’amministrazione Obama, e passato poi a lavorare alla BlackRock la più grande società d’investimento al mondo, per cui si occupava di investimenti sostenibili.3
Nell’intervista Deese spiega che il cambiamento di linea da parte di Biden è un riflesso del cambiamento del dibattito economico, e del ricambio generazionale tra gli economisti, con consiglieri più giovani intenzionati a mandare in soffitta alcuni dogmi della generazione precedente. Deese afferma che dopo questa crisi non è più possibile continuare a ignorare gli effetti della diseguaglianza economica sulla società, e che “non ci sono soluzioni di mercato per affrontare alcune delle debolezze che si sono aperte nell’economia”.
Ma la svolta neo-interventista di Biden, come lascia trasparire Deese è anche – come spesso succede nella storia – un prodotto della paura, e in particolare di due preoccupazioni che attanagliano l’establishment liberal americano. Il primo è quello di un ritorno del trumpismo, dopo i 4 anni spericolati alla Casa Bianca e il trauma nazionale prodotto dall’insurrezione dei suoi sostenitori di estrema destra al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Quell’evento sembra avere seminato il panico nel Partito democratico e nell’intellighenzia liberal statunitense, fino al punto di spingere fautori del neoliberismo come Biden a convincersi che il libero mercato non è solo economicamente problematico – come dimostrato da un decennio di stagnazione – ma pure politicamente insostenibile: non si può mettere a repentaglio la fine della democrazia per dare retta alle ricette degli economisti ortodossi.
La seconda paura che guida la Bidenomics è la paura della Cina. Come spiega Deese, il nuovo corso di Biden fa i conti con il successo del sistema economico cinese, e il modo in cui ha garantito una crescita sostenuta, e evitato in buona parte le crisi finanziarie che secondo le cassandre avrebbero presto portato i cinesi ad abbattere il regime comunista. Al contrario, la Cina ha investito in infrastrutture e in ricerca e sviluppo preparandosi per competere nel settore delle tecnologie avanzate, delle rinnovabili e dell’intelligenza artificiale. Questo è avvenuto proprio mentre sotto Xi Jinping la Cina invertiva la rotta rispetto all’aperturismo degli ’90 e 2000.
Come sostiene il giornalista americano Joshua Kurlantzick, lo spartiacque fu la turbolenza finanziaria del biennio 2014-154. La rabbia dei piccoli risparmiatori cinesi spinse il governo cinese a mettere da parte le promesse di de-regulation del sistema finanziario e a ridare allo Stato un ruolo più attivo. Oggigiorno le aziende statali o partecipate controllano il 60% dell’economia cinese. In questo contesto, è come se gli Stati Uniti si fossero resi conto che non possono continuare a fare finta che l’economia globale si avvicini all’ideale del libero mercato, quando in realtà il loro principale competitor è il capitalismo di Stato. Il corollario strategico è che per fare i conti con una Cina baldanzosa, gli Stati Uniti devono diventare più simili ad essa, adottando alcuni meccanismi di intervento statale e politica industriale abbandonati dopo la crisi della stagflazione degli anni ’70.
Infrastrutture come paradigma
La paura del trumpismo e della Cina sono le ragioni alla base del riallineamento del centro-sinistra americano. Ma per capire la direzione di marcia del mondo post-neoliberale e la forma del nuovo interventismo statale è anche necessario esaminare il contenuto programmatico di questa nuova visione politica. Questo si può riassumere in due concetti: una visione dell’infrastruttura come nuova priorità essenziale e un’inversione topologica dell’idea di sviluppo del periodo neoliberista, in cui la ricetta elitista del gocciolamento verso il basso (trickle-down economics), viene sostituita da una visione che si focalizza sul rafforzamento della base economica e della domanda.
La misura più ambiziosa annunciata dall’amministrazione Biden è proprio il piano di investimenti infrastrutturali. Ridotto rispetto alle aspettative iniziali, il piano bipartisan da 1,2 trilioni di dollari al momento in discussione nel Congresso, punta non solo a riparare ponti, strade e linee ferroviarie, ma anche a mettere le basi per la transizione a un’economia post-petrolio, con energie rinnovabili e auto elettriche. Dare priorità a tali investimenti deriva dalla condizione precaria di buona parte delle infrastrutture essenziali (trasporti, energia, utilities, eccetera) a causa di decenni di progressivo disinvestimento.
Come notato da Deese nell’intervista precedentemente citata, una delle principali ragioni per la percezione di declino vissuta dagli Stati Uniti è proprio la condizione pietosa del suo sistema di trasporti. Mentre la Cina ha ormai decine di migliaia di chilometri di treni ad alta velocità, gli Stati Uniti non ne hanno neppure uno. E mentre tutte le città cinesi sono dotate di trasporti pubblici di ultima generazione, in città statunitensi come New York e San Francisco si usano metropolitane antiquate con treni risalenti agli anni ’70 e primi ‘80. Se un tempo si andava negli Stati Uniti per vedere il futuro adesso vi si va per vedere il passato, mentre l’opposto vale per la Cina.
Il ritardo infrastrutturale degli Stati Uniti è un problema noto ormai da tempo. Già Obama aveva promesso di metterci mano, ma gli investimenti ammontavano a appena un quarto di quanto messo in campo da Biden. Anche Trump, che aveva promesso di investire in infrastrutture, finì per fare interventi molto limitati, e c’è chi sostiene che la mancata realizzazione di questo piano, che avrebbe goduto di grande popolarità presso i lavoratori, gli sia costata la rielezione5. Biden sembra intenzionato a evitare gli errori dei suoi predecessori, ma resta da vedere cosa uscirà dai negoziati bipartisan.
Oltre a trasporti e rete elettrica, anche altre questioni – come la cura di malati e anziani – vengono spesso presentati come questioni infrastrutturali. Interventi a favore dei “lavoratori della cura” sono stati inseriti nel pacchetto sulle infrastrutture e i consiglieri economici di Biden spesso fanno riferimento al bisogno di rafforzare l’“infrastruttura sociale”. La logica è che il disinvestimento in servizi pubblici essenziali, come la cura, l’educazione e la salute, ha contribuito a minare le basi dell’economia, ad esempio rendendo difficile alle donne conciliare maternità e lavoro.
Questa enfasi su bisogno di investimenti in infrastrutture è estremamente rilevante anche nel contesto europeo. Se in diversi paesi la situazione dei sistemi di trasporto non è ancora così malconcia come negli Stati Uniti, negli ultimi anni si sono viste le conseguenze di decenni di disinvestimento pubblico. Ne è esempio il crollo del Ponte Morandi a Genova nell’agosto 2019, che ha causato la morte di 43 persone. La manutenzione era a carico della società privata Atlantis controllata dalla famiglia Benetton e l’evento è diventato una parabola sugli effetti nefasti delle privatizzazioni dissennate degli anni ’90 e l’incapacità del mercato nel garantire servizi essenziali.
La questione climatica rende ancora più urgenti interventi infrastrutturali, e questo spiega perché buona parte dei fondi di Next Generation EU siano finalizzati a questo scopo. La transizione verso un’economia “carbon neutral” richiederà enormi investimenti in nuove reti elettriche, in energie rinnovabili e in stazioni di ricarica per la mobilità elettrica. Inoltre, come reso tragicamente evidente dalle devastanti alluvioni in Germania di luglio 2021, saranno necessari enormi progetti di manutenzione del territorio, per fare fronte al dissesto idrogeologico, prepararsi all’innalzamento dei livelli dei mari e eventi meteorologici sempre più estremi.
Questa urgenza tuttavia cozza con il conservatorismo fiscale che continua a tenere banco in molti paesi – a partire proprio dalla Germania. Armin Laschet, il successore di Angela Merkel alla guida della CDU e governatore della regione Nord Reno Vestfalia, colpita duramente dalle inondazioni, vuole ritornare il prima possibile all’austerità e al cosiddetto “freno sul debito” (Schuldenbremse), costringendo gli altri paesi europei a seguire il capofila.
È vero che i sostenitori più fanatici dell’austerità sono oggi più isolati a livello europeo. Nel dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità e di Crescita sospeso a inizio pandemia e fino a fine 2022, si parla di non contabilizzare nel deficit la spesa per investimenti per la transizione ecologica e digitale come proposto dal Commissario all’economia Paolo Gentiloni. Tuttavia, bisogna aspettarsi forti resistenze dai cosiddetti paesi frugali e dai conservatori tedeschi, che alla visione dell’Unione Europea come mezzo di sviluppo preferiscono una UE votata alla disciplina dei paesi membri e in particolare quelli del Sud Europa accusati di pigrizia e sprechi. Insomma, se gli Stati Uniti sembrano proiettati verso l’orizzonte post-neoliberista, il vecchio continente arranca.
Dalla “corsa al ribasso” a “sollevare la base”
L’altro elemento caratterizzante del nuovo consenso bipartisan che si va profilando a livello internazionale è la promessa di prendere di petto la crescente diseguaglianza economica, vista ormai come un serio limite alla crescita e alla credibilità delle democrazia capitaliste occidentali. Lo scontro geopolitico e ideologico con la Cina sembra stia portando pezzi dell’establishment a più miti consigli, per il timore che i lavoratori comincino a simpatizzare per il modello cinese; una sorta di riproposizione dello schema della Guerra fredda, in cui i paesi occidentali fecero concessioni ai lavoratori al fine di pacificare il conflitto sociale.
È significativo che al vertice del G7 di quest’anno in Cornovaglia si sia sottolineato il bisogno di lottare contro “l’abbassamento degli standard lavorativi e ambientali per ottenere un vantaggio competitivo”. Venti anni fa, durante il G8 di Genova del 2001 finito in una “macelleria messicana”, come ammesso da un dirigente della polizia, quando si parlava di povertà ci si riferiva ai paesi del Terzo Mondo. Oggi la povertà è un problema che i paesi industrializzati vivono a casa propria. Se i neoliberisti della prima ora vedevano la diseguaglianza come un fatto potenzialmente positivo perché avrebbe messo in moto l’imprenditorialità, oggi essa è vista più come un rischio per la tenuta del capitalismo e un freno alla domanda.
Questo cambio di percezione aiuta a capire l’immaginario che sottende i nuovi slogan della politica post-pandemica. Negli Stati Uniti di Biden si parla molto della necessità di sollevare i livelli minimi o “raise the floor” (sollevare il pavimento), laddove fino a poco tempo fa l’urgenza sembrava essere solo quella di innalzare il “soffitto” delle aspirazioni imprenditoriali: “lift the ceiling”. Ne è esempio la promessa fatta da Biden – ma per il momento bloccata nel Congresso – di portare il salario minimo a $15 all’ora e favorire una spinta al rialzo degli stipendi anche grazie a un rafforzamento del sindacato. La risposta del centrodestra è ben rappresentata invece dallo slogan usato insistentemente da Boris Johnson: “levelling up”, ovvero un “appianamento verso l’alto”.6 Quello che condividono questi slogan è la convinzione che le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione sono ormai diventate dannose per il bene del capitalismo. Ma le soluzioni che propongono sono piuttosto diverse.
La promessa di Biden ha un sapore più universalista e punta a costringere gli imprenditori a mettere la mano al portafoglio. Quella di Johnson si focalizza invece sulla diseguaglianza territoriale e la divaricazione metropoli/periferie che ha alimentato molti movimenti populisti. Nel discorso pronunciato sul “levelling up” il 15 luglio 2021, Johnson ha fatto riferimento a “squilibri e disuguaglianza tra regioni del Regno Unito” nell’aspettativa di vita e nelle opportunità di carriera. Inoltre, Johnson ha rivendicato “un ruolo catalizzatore per il governo che deve fornire una guida strategica” all’economia. Un discorso molto diverso da quello di Margaret Thatcher.
Lo slogan di Johnson è legato alla strategia elettorale dei Conservatori e il loro desiderio di solidificare il loro controllo del cosiddetto “Red Wall”, un’area dell’Inghilterra che precedentemente sosteneva il Labour e che nelle ultime elezioni è passata ai Tories. Del resto la fabbrica di batterie elettriche per automobili in cui Johnson ha fatto il discorso sul “Levelling Up” è a Blyth, una cittadina vicino a Newcastle parte di una circoscrizione elettorale recentemente passata al suo partito. Il leader del Labour Keir Starmer ha accusato Johnson di fare politiche clientelari. Ma il problema del Labour è che, al contrario dei Democrats di Biden, invece di guardare avanti è tornato al blairismo, e sembra addirittura intenzionato a soffiare ai Tories il ruolo di partito della rettitudine fiscale.
Il ritardo con cui la socialdemocrazia europea sta affrontando questo cambio di fase dimostra che il cambiamento ideologico è molto preoccupante e rischia di spalancare le porte a una nuova ondata del populismo di destra. Il pericolo è che un capitalismo più statalizzato e nazionale possa essere messo a servizio dell’agenda reazionaria della nuova destra come sostenuto recentemente da James Meadway7. È significativo che, mentre abbandonano alcuni dogmi neoliberisti, i Tories stiano estremizzando le loro posizioni sull’immigrazione e alimentando la guerra culturali sui valori. Lo scenario da evitare è quello di una sorta di riproposizione post-globale dello stato corporativo in cui un’alleanza sempre più stretta tra governo e compagnie nazionali vada a spesa dei lavoratori e della democrazia.
Anche il piano di Biden, per quanto sia molto più ambizioso di quello delle sue controparti europee, rischia di essere insufficiente allo scopo di sollevare l’economia da una stagnazione che ormai sembra in fase cronica. Se investimenti pubblici e politica industriale sono un componente necessario di un neo-statalismo progressista, è anche necessario mettere in moto politiche redistributive radicali, minando il potere degli oligopoli e dei nuovi baroni dell’economia come Jeff Bezos e Elon Musk, e rimettendo in circolo risorse che possano stimolare la domanda. Una mancanza di coraggio su questo fronte potrebbe presto proiettarci in un decennio ancora più disperato dei 2010, aprendo le porte della Casa Bianca a Trump o a un suo successore. La pandemia sembra avere rimesso in moto la ruota della storia. Ma se la nuova epoca sarà di segno progressista o regressivo rimane in forse. Quello che appare certo è che il dibattito si incentrerà non tanto sul mercato, ma sul ruolo dello Stato nel contesto post-pandemico e su quale tipo di società debba essere ricostruita sulle macerie del neoliberismo; a partire dalle fondamenta o, per usare la retorica bidenista, dall’infrastruttura.
Note
- Joseph E. Stiglitz, The End of Neoliberalism and the Rebirth of History, Project Syndicate, 4 novembre 2019
- Paolo Gerbaudo, The Great Recoil : Politics After Populism and Pandemic, Verso Books, in pubblicazione ad agosto 2021
- The Ezra Klein Show, « The best explanation of Biden’s Thinking I’ve Heard », The New York Times, 9 aprile 2021.
- Joshua Kurlantzick, State Capitalism. How the Return of Statism if Transforming the World, Oxford University Press, 2016.
- Jeff Stein, « Trump’s 2016 campaign pledges on infrastructure have fallen short, creating opening for Biden », The Washington Post, 18 ottobre 2020.
- Ben Wright, « Levelling up : Boris Johnson promises more power for local leaders », BBC News, 16 luglio 2021.
- James Meadway, « Neoliberalism is Dead – and Something Even Worse is Taking Its Place », Novara Media, 29 giugno 2021.