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La lunga e felice storia dell’integrazione europea è stata caratterizzata per decenni dalla capacità di garantire a tutti i cittadini un crescente benessere, e quindi dal diffuso consenso che il progetto comune ne otteneva in cambio. Crescente benessere per tutti, legato all’indiscutibile effetto positivo dell’integrazione sullo sviluppo economico, grazie alla libera circolazione dei beni prima, e dei servizi, delle persone e dei capitali, poi e, in misura minore ma non irrilevante, agli effetti delle politiche comunitarie. Un benessere legato inoltre a una forte attenzione politica verso la riduzione delle disuguaglianze tra paesi, regioni, luoghi, persone, come cemento della costruzione europea. Fra le vicende simbolo di questa lunga storia vi sono le decisioni prese alla fine degli anni Ottanta: da un lato le grandi liberalizzazioni promosse dall’Atto Unico per stimolare la crescita; dall’altro le politiche comunitarie di coesione, volte ad impedire la polarizzazione delle attività economiche in alcune parti dell’Unione, e quindi a garantire che i benefici della maggiore crescita andassero a vantaggio di tutti i cittadini europei e non solo di alcuni. Un principio, quest’ultimo, inserito nei Trattati.

Ma dalla caduta del Muro di Berlino, e poi sempre di più con il XXI secolo, il quadro è progressivamente cambiato. Alla radice di queste dinamiche non vi è una sola causa, ma l’azione interconnessa di molti fattori dello scenario internazionale1. Di varia natura:

  • politica, come la crescente disattenzione nelle dinamiche di molti paesi europei al tema delle disuguaglianze
  • demografica, con la fine dell’aumento della popolazione del continente e il suo invecchiamento, e quindi con il ruolo molto maggiore giocato dalle migrazioni, interne ed esterne all’Unione, nel determinare il futuro delle regioni
  • economica, con la crescita della manifattura nelle economie emergenti e il suo impatto nel commercio internazionale
  • tecnologica, con la diffusione delle innovazioni a matrice digitale, e le conseguenti trasformazioni nella produzione di molti beni e servizi e nella connessa domanda di lavoro, più polarizzata su professionalità ad alta e bassa qualifica.

Infine, possiamo aggiungere, anche come combinazione degli ultimi fenomeni, la crescente riorganizzazione su scala internazionale di molte filiere produttive a cominciare da quella dell’automobile, che ha portato alla localizzazione in paesi e regioni diverse fasi di lavorazione, grazie all’aumento delle capacità produttive nei paesi a più basso livello salariale e dalla riduzione dei costi di coordinamento (e di trasporto). 

Per il tema che qui si affronta, una questione è cruciale: questi sviluppi economici e tecnologici hanno prodotto un impatto molto asimmetrico sulle regioni europee. Hanno reso assai più difficile il rafforzamento dell’economia nelle regioni più deboli, a sviluppo più “tardivo”. Hanno colpito in misura più intensa alcune delle aree a più vecchia industrializzazione, specializzate in settori e fasi produttive più esposte alla concorrenza internazionale. Hanno favorito, accelerando la terziarizzazione dell’economia europea, molte delle sue aree urbane.

A tutto questo, vanno aggiunti due grandi eventi comunitari. Il primo è il grande allargamento ad Est, che si è rivelato molto più importante di quanto si potesse immaginare all’inizio del secolo. Con l’allargamento sono entrati nell’Unione nuovi stati membri profondamente diversi dai vecchi, tanto per le loro condizioni economiche, quanto per le forme di regolazione politica delle loro economie e delle loro società; a differenza di quanto avvenuto con tutti gli allargamenti precedenti, ed in particolare con quelli mediterranei degli anni Ottanta, queste differenze si sono rivelate tenaci, permanenti. La nuova Europa a 28 (e poi a 27) ha visto spostarsi significativamente il proprio baricentro geopolitico, e geoeconomico, verso Nord-Est. Parallelamente, la risposta dell’Unione alla grande crisi del 2008 si è progressivamente incentrata sull’obbligo di politiche di austerità per gli Stati Membri con i maggiori problemi di finanza pubblica: politiche poco attente tanto alla crescita quanto all’inclusione sociale. Soprattutto negli anni Dieci, le economie del Sud Europa sono state caratterizzate da una caduta degli investimenti pubblici e privati e dalle politiche per l’inclusione sociale. Questo, proprio negli anni in cui erano più necessarie attenti e incisivi interventi pubblici per accompagnare la loro trasformazione.

La nuova Europa a 28 (e poi a 27) ha visto spostarsi significativamente il proprio baricentro geopolitico, e geoeconomico, verso Nord-Est.

gianfranco viesti

L’effetto combinato di questi profondi cambiamenti ha prodotto un’Europa segnata più che in passato da forme di polarizzazione geoeconomica e da crescenti disparità fra i suoi territori; e quindi dall’incapacità di assicurare, come in passato, che alla crescita d’insieme dell’Unione facesse riscontro un miglioramento di tutte le sue regioni, e quindi delle condizioni di tutti i suoi cittadini. Disparità territoriali vi sono sempre state, e sempre vi saranno, ma il nuovo secolo ha visto, in molti ambiti, il loro accentuarsi. La percezione da parte di molti cittadini europei di una crescente disuguaglianza di opportunità e di una scarsa attenzione da parte delle politiche pubbliche ha prodotto significativi effetti, a base territoriale, anche nelle dinamiche politico-elettorali. 

In passato la geografia economica dell’Unione poteva essere approssimata dalla differenza fra un’area centrale, anche geograficamente, che includeva le regioni e le città più forti del continente (la vecchia “banana blu” della Datar rivista e aggiornata2) e aree più periferiche, prevalentemente meridionali; la sua evoluzione era descritta dalle dinamiche della convergenza fra i Sud e i Nord. Nel nuovo secolo, questa geografia si è fatta assai più articolata.

Una prima faglia è quella che è venuta a dividere col nuovo secolo, e assai più intensamente con gli anni Dieci, l’Est dal Sud. Si badi, l’uso del termine Est per designare i nuovi stati membri ha una accezione più storica (gli ex-comunisti) che geografica, dato che diversi di essi sono saldamente collocati al centro del Continente. Dopo un lungo e difficile processo di adattamento politico, economico, istituzionale e sociale dopo la caduta del Muro di Berlino, parallelamente all’ingresso nell’UE i nuovi Stati Membri hanno conosciuto grandi trasformazioni e processi di crescita accelerati3, proprio negli anni in cui i Mediterranei hanno vissuto il periodo più difficile. I due fenomeni sono in parte connessi. Al centro dell’Europa si è creato un “cuore manifatturiero” dovuto alla repentina integrazione fra l’economia tedesca (e austriaca) e quelle in particolare dei quattro paesi Visegrad. Mentre diminuiva in tutto il resto d’Europa, l’attività manifatturiera è fortemente cresciuta ad Est; alcune regioni protagoniste dell’industria europea all’inizio del Novecento (dalla Slesia polacca ex tedesca alla Boemia e alla Moravia, ma anche al Banato romeno) sono tornate a giocare un ruolo di primo piano. Altre aree, specie in Ungheria e Slovacchia, hanno conosciuto una trasformazione strutturale delle loro economie. All’interno di questo “cuore” si sono ristrutturate le catene produttive tedesche nell’industria, ma sono anche arrivati nuovi investimenti extra-europei, specie asiatici4. Le nuove convenienze localizzative ad Est (costi del lavoro assai bassi, buon livello di istruzione delle forze di lavoro, bassa conflittualità sindacale, ma anche collocazione assai prossima alla Germania) hanno spiazzato quelle a Sud; specie in Spagna e Portogallo che al volgere del secolo erano le aree più promettenti per l’attrazione di capitali produttivi internazionali.

Ma anche la geografia dei Centri dell’Europa è divenuta meno compatta. Alla persistente forza manifatturiera della Germania ha fatto riscontro l’accelerazione del declino di altre regioni di antica industrializzazione, colpite dalla concorrenza internazionale e incapaci di mutare specializzazione. Queste regioni sono rimaste incastrate dalla “trappola dello sviluppo intermedio”5, più costose rispetto ai nuovi luoghi della produzione, ma meno innovative rispetto all’Europa delle regioni più competitive. Ciò è quanto avvenuto in diverse regioni, a somiglianza della “Rust Belt” del Midwest americano, accentuando dinamiche già in corso dalla fine del secolo precedente. Ad esempio nell’ampia fascia di confine fra il Nord-Est della Francia e il Sud del Belgio, protagonista sin dall’Ottocento della prima industrializzazione dell’Europa continentale; nel Nord dell’Inghilterra, ad accelerare un sensibile declino già evidente; in parti del Centro-Nord italiano, specie nel vecchio Nord-Ovest piemontese e nella fascia adriatica centrale; in alcune regioni industriali del Nord del Portogallo e del Nord-Ovest spagnolo. Persino in alcune aree tedesche, del Nord e dell’Ovest, come nella Saar. La trama dell’industria europea si è ricomposta nel cuore manifatturiero, ma si è sfrangiata altrove.

Ma nel centro dell’Europa ciò che sta facendo sempre più la differenza è il rafforzarsi di molte aree urbane, anche se non di tutte. Esse hanno conservato produzioni manifatturiere a più alta tecnologia, ma soprattutto sono state in grado nel corso del nuovo secolo di far crescere un nuovo tessuto di imprese di servizi, specie a matrice digitale, in grado di servire territori ben più vasti di quelli di prossimità. Aree urbane dense, fatte di città ben collegate fra loro grazie a infrastrutture e servizi di trasporto, con positivi fenomeni di specializzazione e integrazione fra le imprese, le università, i centri di ricerca, con una popolazione più giovane e più istruita del resto del Continente. Così è per la perdurante forza terziaria della grande Londra, Brexit permettendo, e della grande Parigi, ma anche della città multinazionale Copenhagen-Malmoe, del Randstadt olandese, di vaste aree della Germania, anche ad Est, come sull’asse Berlino-Dresda, o della regione francese del Rodano-Alpi. Così come per la grande Dublino, capitale di un paese con un reddito pro-capite ormai di molto superiore alle medie continentali, proprio grazie allo sviluppo di impieghi terziari dovuti alla localizzazione di imprese americane che usano la piccola isola come testa di ponte per l’Europa (anche per le sue politiche di tassazione di estremo favore). E così è per l’integrazione europea dei piccoli paesi baltici, tutta dovuta allo sviluppo di settori urbani di servizio, anche in connessione con quelli di Svezia e Finlandia. Anche a Sud, come per l’emergere dell’economia di Madrid all’interno della Spagna e per la vitalità dell’asse Milano-Bologna nel Nord Italia, che registra risultati migliori del resto del paese grazie ad una positiva integrazione tra industria e servizi, tra produzione fisica e immateriale. 

Queste nuove geografie europee si rafforzano grazie alle dinamiche demografiche, e in particolare grazie ai flussi migratori. In un panorama in cui il tasso di fecondità in tutti i paesi europei è inferiore a 2, cioè al valore di riproduzione della popolazione, è il movimento delle persone a fare la differenza. In particolare, il movimento di popolazione giovane tra paesi e all’interno dei paesi europei, alla ricerca di nuove opportunità di occupazione nei servizi, qualificati e meno qualificati, nelle sue aree urbane centrali, a cominciare da quelle scandinave e olandesi. Movimenti che rendono la loro popolazione non solo più ampia ma anche più giovane, e quindi maggiormente in grado di riprodursi, e a maggiore qualificazione, e quindi più in grado di contribuire alla crescita dei servizi avanzati. E che determinano effetti contrari, di indebolimento, nelle aree di provenienza. A ciò si aggiungono ampi movimenti di popolazione dall’esterno dell’Europa: forieri di non semplici problemi di adattamento e di integrazione, ma anche in grado di rafforzare sensibilmente le città e le regioni di destinazione. La popolazione nata all’estero è così un terzo del totale in Svizzera, un quinto in Svezia, un sesto in Germania: il paese che più ha contrastato il declino della popolazione autoctona con forti flussi in entrata.

Tutto ciò sta consolidando o aprendo nuove disuguaglianze anche all’interno dei paesi. Cresciute ovunque con i primi processi di industrializzazione, le differenze regionali interne nel Novecento avevano teso largamente a ridursi, grazie a processi di convergenza legati alla diffusione geografica delle attività industriali e terziarie. Esse presentano modalità e intensità diverse negli Stati Membri6: più legati a disparità fra grandi gruppi di regioni in Germania, Polonia, Italia, Spagna; connesse alla prevalenza delle aree urbane ed in particolare delle capitali in Francia, Portogallo, Grecia e in tutti i nuovi Stati Membri; frutto di entrambe le circostanze in Inghilterra. Complessivamente, i processi di convergenza regionale interni ai paesi sono molto rallentati, si sono arrestati, e poi sono tornati a crescere. E’ il caso paradigmatico dell’Inghilterra, dove il nuovo secolo ha ulteriormente acuito le distanze fra la prospera area del Sud-Est intorno a Londra e vaste aree del Nord (e del Galles) deindustrializzato e intristito, incapace di fronteggiare il declino dell’occupazione dei suoi colletti blu dell’industria con nuovi colletti bianchi nel terziario. E’ anche il caso dell’Italia, dove le distanze fra il Nord e il Sud rimangono assai ampie, e tendono ad accrescersi anche per effetto dei fenomeni demografici, con l’immigrazione interna ed internazionale che si concentra nelle aree già più prospere e le rafforza. E’, ancora, il caso della Francia, dove al declino delle vecchie produzioni industriali del Nord-Est si somma un accrescersi del ruolo di Parigi nell’economia del paese e si approfondiscono la distanze fra le tante aree urbane prospere e la Francia profonda, rurale. E’ infine il caso del Belgio, dove è netta la distanza fra le Fiandre inserite nei grandi flussi commerciali intercontinentali grazie ad Anversa e con una significativa presenza industriale a base multinazionale, la cosmopolita e terziaria Bruxelles e  una decaduta Vallonia. Anche in Germania, dove le distanze fra Ovest e Est hanno continuato a ridursi, ma non certo ad annullarsi, sembrano aprirsi nuove fratture all’interno dei Länder Orientali, fra alcune vibranti città, a cominciare da Berlino, e i territori rurali dell’estremo Nord. In tutti i paesi europei più avanzati, poi, si notano significative disparità anche all’interno delle aree urbane più vaste, collegate alla polarizzazione in corso sul mercato del lavoro, indotta tanto dalle nuove tecnologie quanto, soprattutto, dalle scelte politiche per la sua regolazione e dall’indebolimento delle rappresentanze dei lavoratori. Così che molte grandi città europee sono al tempo stesso luoghi dell’innovazione dove si concentra la forza lavoro più giovane e a maggior qualifica e luoghi di profonde disparità sociali nelle loro periferie. 

In tutti i paesi europei più avanzati si notano significative disparità anche all’interno delle aree urbane più vaste, collegate alla polarizzazione in corso sul mercato del lavoro, indotta tanto dalle nuove tecnologie quanto, soprattutto, dalle scelte politiche per la sua regolazione e dall’indebolimento delle rappresentanze dei lavoratori.

gianfranco viesti

Molto nette sono le disparità che si sono aperte nei nuovi Stati Membri, a vantaggio delle regioni più occidentali e soprattutto delle capitali. Il loro indiscutibile successo economico va letto anche alla luce di questa forte polarizzazione, con l’industria e i servizi che si concentrano e la popolazione delle regioni più deboli che si sposta, all’interno dei paesi e su scala internazionale in cerca di nuove opportunità. Il reddito cresce ovunque, ma in alcune aree dei paesi baltici e di Romania e Bulgaria, la diminuzione della popolazione è assai accentuata, come effetto combinato di una natalità molto bassa e di una fortissima emigrazione, tanto da far perdere loro un decimo della popolazione totale nell’ultimo decennio. Tendenze simili, frutto della gravissima crisi degli ultimi anni, sono leggibili anche in alcune regioni della Grecia continentale. 

Queste dinamiche sono chiare non solo agli analisti ma anche agli europei che vivono nei luoghi in maggiore difficoltà: nelle regioni in ritardo storico essi percepiscono una ridotta possibilità di agganciare i processi di crescita continentali; in quelle già sviluppate ma in declino soffrono di una condizione in parte nuova di ripiegamento delle opportunità. In entrambi i casi, sperimentano una “carenza di futuro”, registrano l’incapacità delle autorità locali, nazionali, ed europee di modificare la situazione, lamentano una carenza di attenzione rispetto ai cittadini dei luoghi più forti7. Esprimono questo disagio, questa disillusione, emigrando, ma anche con il voto. E’ molto difficile formulare interpretazioni valide per l’intero Continente, dato che sono assai diverse le condizioni nazionali. E tuttavia molte analisi mostrano che nell’ultimo quinquennio è cresciuta l’importanza dei luoghi di residenza come determinante dei comportamenti elettorali8. A partire dalle clamorose disparità territoriali nel voto del 2016 per la Brexit, con il Nord dell’Inghilterra compatto nel “punire” quell’Europa da essi ritenuta corresponsabile delle loro sorti, all’avanzata della destra francese nel Nord-Est (e alla protesta per molti versi “anti-urbana” dei gilet jaunes) e di quella italiana nelle aree più lontane dalle città, fino al rilevante sostegno per la destra tedesca dei cittadini dei Länder orientali – anche, cosa interessante, di quelli che vivono nelle città più dinamiche della Sassonia. Nella grande diversità delle situazioni sembra feconda un’interpretazione che vede i cittadini delle regioni “che non contano” rivolgere il loro consenso verso forze sovraniste ed identitarie, che siano maggiormente in grado di proteggerli contro i grandi cambiamenti del XXI secolo.

La questione territoriale europea è qui per restare. Queste crescenti e multiformi disparità fanno sì che, a differenza del passato, alla crescita del benessere europeo non corrisponda la crescita del benessere di tutti gli europei, o quantomeno della loro grande maggioranza; e che quindi il progetto comune non sembri in grado di essere il progetto per tutti gli europei. Le vicende del XXI secolo mostrano chiaramente che le dinamiche spontanee dei mercati non sono in grado di ridurle, e che possono invece acuirle. Sta alla politica degli stati membri, e al concerto comunitario, la responsabilità di politiche pubbliche in grado di contrastarle efficacemente e di rilanciare così anche il progetto di costruzione dell’Europa.

La questione territoriale europea è qui per restare. Queste crescenti e multiformi disparità fanno sì che, a differenza del passato, alla crescita del benessere europeo non corrisponda la crescita del benessere di tutti gli europei, o quantomeno della loro grande maggioranza; e che quindi il progetto comune non sembri in grado di essere il progetto per tutti gli europei.

gianfranco viesti

Non esiste un singolo strumento di politica economica in grado di invertire queste tendenze. Come si è detto, differenti ne sono le cause: azioni in grado di contrastarne gli effetti non possono che essere diversificate. E’ bene ricordare che alcune possono avere una diretta finalizzazione territoriale. Ma non va commesso l’errore di ritenere che le disparità territoriali possano essere contrastate da politiche esplicitamente “regionali”; altre politiche, ancora più importanti, possono raggiungere risultati indiretti di riduzione delle disparità territoriali, ad esempio intervenendo sulle disparità interpersonali: le disuguaglianze fra le persone e quelle fra i luoghi sono strettamente interconnesse9. Il quadro è quindi complesso.

Gran parte degli strumenti che possono essere utilizzati sono più nelle competenze degli Stati Membri che delle autorità comunitarie. E tuttavia, anche a livello dell’Unione ci sono possibilità importanti: e nella parte finale di questo scritto si concentrerà l’attenzione proprio sul livello comunitario, alla luce della circostanza che le dinamiche in corso, come si è provato ad argomentare, presentano problemi non solo per le economie e le società nazionali ma anche per la stessa costruzione europea. 

Il primo strumento, naturalmente, è quello delle politiche di coesione territoriale europee, confermate nelle loro caratteristiche anche nelle “prospettive finanziarie” europee per il 2021-27. Si tratta di risorse di dimensione contenuta (all’incirca lo 0,3% del PIL dell’UE-27) ma che se ben focalizzate possono fornire un primo contributo. Rispetto all’esperienza dei precedenti periodi di programmazione due sembrano gli elementi più importanti. In primo luogo, sembra opportuna un’attenzione molto maggiore all’effettiva addizionalità di queste risorse rispetto ai programmi di intervento e di investimento già previsti dagli Stati Membri: specie in paesi con sensibili disparità interne (come nel caso paradigmatico dell’Italia) queste risorse sono spesso utilizzate in sostituzione del finanziamento nazionale di interventi già programmati, perdendo la loro capacità di promozione addizionale dello sviluppo. In secondo luogo è auspicabile una maggiore attenzione e un più forte ruolo propositivo e di verifica delle autorità comunitarie rispetto alla scelta degli interventi da promuovere e ai loro effetti. Molto spesso in passato il ruolo della Commissione è stato concentrato nella verifica degli aspetti formali della costruzione degli Accordi di Partenariato che disciplinano l’impego di queste risorse più che all’indicazione, di concerto con le autorità degli Stati membri e delle Regioni, di specifiche priorità e modalità di intervento, anche alla luce delle valutazioni degli interventi già precedentemente effettuati; e il ruolo di controllo tende ad essere esercitato, daccapo, più sulla rispondenza formale della spesa effettuata alle regolamentazioni che sull’effettiva verifica della realizzazione degli investimenti e della loro entrata a regime.

Sin dal rafforzamento delle politiche di coesione comunitarie, alla fine degli anni Ottanta, si è creata una tensione fra questi interventi, volti principalmente a determinare condizioni di maggior favore (minor sfavore) nelle aree più deboli dell’Unione e le regole di concorrenza, volte proprio ad eliminare o prevenire condizioni che rendano squilibrata la competizione fra le imprese. Tensione sempre risolta soprattutto attraverso la definizione delle “Carte degli Aiuti di Stato”, che normano le possibili esenzioni su base territoriale dei generali divieti. Parallelamente, le normative comunitarie hanno sempre privilegiato la tutela della concorrenza rispetto a politiche, anche selettive, volte al rafforzamento e alla trasformazione delle strutture produttive degli Stati membri e delle Regioni; cioè delle “politiche industriali”. Hanno contrastato spesso, anche all’interno dei confini nazionali, interventi volti al riequilibrio territoriale. La vasta strumentazione disponibile fino agli anni Novanta, a partire dall’utilizzo della domanda pubblica come strumento per favorire lo sviluppo delle imprese, anche su base territoriale, è così rapidamente deperita. Tuttavia, negli anni più recenti, a partire dalla crisi finanziaria del 2008-09 e poi con la crisi del Covid del 2020-21, anche alla luce delle più modeste performance sotto il profilo delle capacità innovative dell’Unione rispetto a Stati Uniti e Cina (specie nelle tecnologie a matrice digitale) e degli intensi processi di de-industrializzazione di alcune aree, settoriali e geografiche dell’Unione, è in corso un profondo ripensamento. Vi sono state importanti eccezioni alle regole sugli Aiuti (come per l’industria automobilistica dopo la crisi finanziarie); e tutta la regolamentazione sugli Aiuti di Stato è stata sostituita all’inizio della crisi del Covid da un “Quadro Temporaneo” per consentire agli Stati membri di intervenire più facilmente e tempestivamente a sostegno delle imprese. Si è dunque creata una “finestra di opportunità”.

L’esperienza degli ultimi trent’anni ha mostrato che l’assoluta e ideologica fiducia nelle capacità del mercato e della concorrenza di allocare le risorse economiche in modo da favorire sviluppo e innovazione dei sistemi produttivi non ha prodotto i risultati sperati; come si è ricordato essa ha prodotto processi di polarizzazione. Specie in confronto alle esperienze di sistemi, come quello cinese ma ancor più quello statunitense, nei quali i poteri pubblici giocano un ruolo assai più importante nel promuovere e nell’indirizzare i capitali privati verso “missioni” di sviluppo. Prime esperienze, come quelle degli “Important Projects of Common European Interest” (IPCEI), sembrano mostrare approcci diversi. Per quel che si è qui argomentato, tuttavia, una rinnovata vitalità di politiche industriali e dell’innovazione europee non dovrebbe ignorare la dimensione territoriale: come nelle lontane esperienze italiane e inglese, incorporarla nelle politiche industriali può consentire di mirare contemporaneamente ad un complessivo rafforzamento dell’Unione e ad una riduzione delle sue fratture interne.

L’esperienza degli ultimi trent’anni ha mostrato che l’assoluta e ideologica fiducia nelle capacità del mercato e della concorrenza di allocare le risorse economiche in modo da favorire sviluppo e innovazione dei sistemi produttivi non ha prodotto i risultati sperati.

gianfranco viesti

In questi ambiti, particolarmente rilevante potrebbe essere il tema della transizione ecologica, energetica e ambientale dell’Unione. In molti ambiti economici, gli investimenti, tanto nella produzione quanto nella ricerca, tendono a concentrarsi nelle aree in cui è maggiore la preesistenza di imprese e la sedimentazione di conoscenze, proprio perché può essere così maggiore la loro produttività; questo vale per gli investimenti privati, ma queste condizioni spesso influenzano profondamente anche la localizzazione degli investimenti pubblici (che tendono così a “seguire” l’economia di mercato, più a creare le condizioni per il suo sviluppo dove è più debole). Questo potrebbe essere meno vero proprio nelle attività connesse alla transizione ecologica. Le condizioni per lo sviluppo delle produzioni di energie rinnovabili, e quindi anche per la localizzazione di attività di ricerca ad esse connesse, sono più favorevoli in molte aree periferiche, specie mediterranee; il rafforzamento dell’economia circolare, la costruzione di comunità energetiche locali, il rinnovamento del parco edilizio pubblico può essere particolarmente intenso proprio nelle aree periferiche, interne.

La possibilità di intervento su scala comunitaria è condizionata da un significativo ampliamento del bilancio comune grazie anche all’individuazione di nuove risorse proprie10. Lo stesso utilizzo di nuove fonti di finanziamento, ad esempio basate sulla tassazione delle transazioni finanziarie e digitali, potrebbe avere un impatto significativo sulle stesse disparità, dato che esse tendono a concentrarsi, anche geograficamente. Ed è opportuno ricordare che la stessa adozione di regole fiscali transnazionali sulla tassazione minima delle imprese, che cominci a contrastare i rilevantissimi fenomeni di legislazioni di favore per le imprese di alcuni stati membri ad alto reddito, anche se non collegata al bilancio comunitario può contrastare i fenomeni di polarizzazione economica territoriale. All’ampliamento delle dimensioni del bilancio può naturalmente affiancarsi la capacità di indebitamento comune, come nell’esperienza in corso del Next Generation EU.

Una maggiore capacità finanziaria dell’Unione potrebbe consentire di ampliare gli interventi comunitari in ambiti, come quello di strumenti assicurativi europei contro la disoccupazione, recentemente sperimentati su base provvisoria, con l’iniziativa Sure. E potrebbe, come già proposto, attraverso una permanente capacità di indebitamento sul mercato garantita proprio dai contributi per il bilancio comunitario, rendere permanente un programma coordinato di investimenti pubblici come quello finanziato, una tantum, dalla Resilience and Recovery Facility (RFF). Rispetto ai temi analizzati in questo scritto, è fondamentale ricordare che la distribuzione delle risorse della RFF non è direttamente correlata alla dimensione demografica o economica degli Stati membri, ma costruita su indicatori che tengono conto delle difficoltà strutturali (disoccupazione) e legate all’impatto della pandemia. In tal modo essa potrebbe svolgere un importante ruolo di contrasto delle disparità fra paesi all’interno dell’Unione. Più dubbio è quanto essa possa contrastare anche le disparità interne ai paesi: occorrerà verificare con attenzione quanto nella predisposizione dei Piani e nella loro attuazione gli Stati membri abbiano concretamente accolto l’indicazione generale, formulata dalla Commissione nel Regolamento del RFF, con un diretto richiamo nel Preambolo agli articoli 174 e 175 dei Trattati, della necessità di contribuire alla riduzione dei propri divari interni.  

Parallelamente, è alle prime mosse la discussione sul futuro delle regole europee di finanza pubblica per gli Stati membri, sospese anch’esse con l’esplosione della pandemia. Un ripristino delle regole vigenti in precedenza potrebbe naturalmente condizionare significativamente, come già avvenuto negli anni Dieci, l’azione di riequilibrio territoriale delle politiche pubbliche nazionali dei paesi con le maggiori difficoltà di finanza pubblica; l’introduzione di norme che escludano gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit potrebbe invece essere assai opportuna.

Un ruolo futuro più intenso delle politiche comunitarie nel contrastare con maggior successo le polarizzazioni territoriali è dunque possibile, ma certamente non garantito. Andrebbe tenuta maggiormente presente, nella discussione intorno a queste politiche, l’evidenza che l’intensificarsi delle linee territoriali di frattura avvenuta nel nuovo secolo è un processo preoccupante, che contrasta con il fondamentale obiettivo della costruzione comunitaria di migliorare nel tempo le condizioni di tutti gli Europei e che, orientando il consenso politico nei territori in maggiore difficoltà verso forze politiche sovraniste e protezioniste, può mettere a rischio il procedere della stessa Unione.

Note
  1. Una trattazione più estesa di questi fenomeni e delle conseguenze sulla localizzazione delle attività economiche in Europa è in G. Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, Roma-Bari, 2021
  2. Si veda R. Brunet, Les Villes Europeénnes. Rapport pour la Datar, Reclus, Montpellier, 1989
  3. Cfr. es. D. Bohle e B. Greskovits, Capitalist Diversity on Europe’s Periphery, Cornell U.P., Ithaca e New York, 2012 e P. Ther, Europe since 1989. A History. Princeton U.P., Princeton, 2016
  4. Si veda anche: R. Stollinger e altri, Global and Regional Value Chains: How Important, How Different, WIIW Research Report 427, Vienna, 2018
  5. Sul tema della trappola dello sviluppo intermedio, da ultimo: S. Iammarino, A. Rodriguez-Pose, M. Storper, A. Diemer, Falling into the middle-income trap? A study on the risks for EU regions to be caught in a middle-income trap, Rapporto finale per la DG Regio, 2020
  6. Per un’analisi più ampia, cfr. sempre Viesti (2021)
  7. Si veda A. Rodriguez-Pose, The revenge of the places that don’t matter (and what to do about it), Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 11, 1, 2017
  8. Cfr. L. Dijkstra, H. Poelman, A. Rodriguez-Pose, The geography of EU Discontent, European Commission Regional and Urban Policy WP 12, 2018
  9. Un’analisi quantitativa che consente di misurare queste connessioni nel caso degli Stati Uniti è R. A. Manduca, The Contribution of National Income Divergence to Regional Economic Divergence. Social Forces, 98, 2, 2019
  10. Su questi temi, molte importanti riflessioni sono in F. Saraceno, La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela, Luiss U.P., Roma, 2020