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Nei sei stati dei Balcani occidentali – Serbia, Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Kosovo e Montenegro – abitano circa 17,9 milioni di persone 1. Complessivamente, la regione ha quindi una popolazione comparabile a quella dei Paesi Bassi (17,3 milioni), che hanno però una superficie pari a circa la metà di quella della sola Serbia. Inoltre, i quattro Stati più popolosi – Serbia, Bosnia, Macedonia del Nord, Albania – figurano nell’elenco dei venti paesi al mondo destinati a spopolarsi di più in percentuale nei prossimi trent’anni, secondo le stime Onu elaborate da Business Insider 2.  

Alla taglia ridotta della loro popolazione corrisponde quella, ugualmente esigua, delle loro economie. Questi sei Stati, tutti candidati all’adesione all’Unione europea, producono un Pil di circa 99 miliardi di euro 3, solo una decina in più di quello prodotto dalla Sicilia. Anche aggiungendo Croazia e Slovenia, le uniche due repubbliche post-jugoslave già inserite nel Mercato Unico, la cifra quasi raddoppia (185 miliardi), ma resta comunque inferiore a quella del Lazio (201 miliardi). 

Considerando che, a fronte di numeri così bassi, interagire con i Balcani occidentali significa relazionarsi con sei governi, sei sistemi normativi, e in generale con sei Stati molto frammentati al loro interno sul piano etnico-nazionale e comunitario, si comprende facilmente quanto sia complicato per qualunque attore esterno operare in questa area. 

Le maggiori difficoltà le incontra il soggetto che avrebbe le maggiori aspettative: l’Ue. Fin dal “big bang” 4, l’accesso simultaneo di dieci nuovi membri nel 2004, il blocco comunitario è entrato in una spirale di “enlargement fatigue” 5 da cui stenta a disincagliarsi. I Balcani occidentali necessitano di attenzione costante e drenano una quantità di risorse finanziarie, politiche e diplomatiche che Bruxelles, impantanata in dossier molto più urgenti come il Recovery Fund, non pare al momento in grado di assicurare. Da qui lo stallo del processo di allargamento, riconosciuto dalla maggioranza degli osservatori 6

I Balcani occidentali necessitano di attenzione costante e drenano una quantità di risorse finanziarie, politiche e diplomatiche che Bruxelles, impantanata in dossier molto più urgenti come il Recovery Fund, non pare al momento in grado di assicurare.

SIMONE BENAZZO

La “stabilitocrazia”

Quando si guarda ai Balcani occidentali, ci si lascia spesso abbacinare da due miti, derivati dalla turbolenta storia recente di questa penisola europea.  

Il primo dipinge la regione come profondamente instabile, ancora preda delle pulsioni etniciste che l’hanno dilaniata negli anni ‘90.  

Oggi, i Balcani occidentali sono invece estremamente stabili, o perlomeno stabilizzati. Gli analisti regionali utilizzano un neologismo, “stabilitocrazia” 7, per classificare i regimi politici dell’area. La “stabilitocrazia” è un sistema politico interamente devoto alla stabilità (il congelamento di uno status quo artificialmente pacificato), che su questa premessa attrae supporto – finanziario, politico e materiale – da parte di attori esterni. 

Le élite balcaniche eccellono nell’arte di tenere sempre alta l’attenzione – e la tensione – dell’Ue, paventando crisi interetniche vere o presunte, non di rado ideate dagli stessi soggetti che poi se ne intestano la risoluzione. È successo ancora lo scorso maggio, quando il presidente serbo Aleksandar Vučić ha diffuso la voce infondata che la Nato stesse meditando il ritiro della missione Kfor, dislocata in Kosovo dal 1999 8. Una “catastrofe assoluta”, secondo Vučić, che avrebbe lasciato i serbo-kosovari alla mercé dei nazionalisti kosovaro-albanesi. La (non) notizia è stata smentita pressoché immediatamente dall’Alleanza atlantica, ma in un contesto fluido come quello post-jugoslavo simili esternazioni mettono sempre in allerta le cancellerie europee. Dall’ipotesi di scambio di territori tra Serbia e Kosovo 9 ventilata nel 2018 al famigerato “non paper” sulla spartizione della Bosnia 10 diffuso dalla Slovenia lo scorso marzo, gli esempi sono svariati. 

Poiché lo spettro degli anni ‘90, il fantasma della cruenta disgregazione della Jugoslavia titina 11, continua ad aleggiare, Ue ed Usa perseguono come primo obiettivo la stabilità, anche a scapito di quei processi di democratizzazione a cui, sulla base dei trattati, sarebbe   subordinata l’integrazione europei dei Balcani occidentali. 

Questi Stati vivono allora la situazione paradossale di una transizione immobile, una stasi perenne dove il progresso è solo simulato, inscenato nei vertici con l’Ue e celebrato in absentia nelle dichiarazioni congiunte. 

Così, proprio all’opposto di quanto preventivato (e tuttora enunciato nei documenti ufficiali), questi sei Stati non sono diventati più democratici. Secondo V-Dem (2020), nel decennio 2009-2019 Serbia, Montenegro e Bosnia hanno peggiorato la propria performance democratica: i primi due sono ormai considerati “regimi ibridi” da Freedom House 12. Albania, Macedonia del Nord e Kosovo hanno registrato miglioramenti, ma solo estremamente lievi. Allo stato attuale, soltanto Skopje sembra intenzionata ad attuare riforme democratiche, come richiesto da Bruxelles. Gli altri esecutivi proclamano, tergiversano, mischiano le carte. Gli uomini forti della regione non possono davvero permettersi di democratizzare e liberalizzare le società dei loro Stati: verrebbe meno la legittimità che si sono auto-attribuiti in quanto garanti della stabilità. 

Periferia di troppi imperi  

Il secondo mito identifica i Balcani occidentali come un quadrante di primaria importanza strategica, conteso tra potenze avversarie dalle agende inconciliabili. C’è un granello di verità in questo immaginario, ma nel complesso si tratta di una visione superata. 

La regione non è più ritenuta strategica come durante il XIX e il XX secolo. Con il Vecchio continente gradualmente divenuto marginale nelle partite geopolitiche più calde del globo, che infuriano ad altre latitudini (Sud-Est asiatico e Medio Oriente), anche l’appeal della regione balcanica è diminuita. Certamente, poiché in geopolitica il vuoto non esiste – e, quando esiste, è in attesa di essere riempito -, anche in questa regione attori esterni lottano per l’egemonia, ma lo fanno con meno vigore ed energia di quanto le appannate lenti eurocentriche riescano a cogliere. 

Certamente, poiché in geopolitica il vuoto non esiste – e, quando esiste, è in attesa di essere riempito -, anche in questa regione attori esterni lottano per l’egemonia, ma lo fanno con meno vigore ed energia di quanto le appannate lenti eurocentriche riescano a cogliere. 

simone benazzo

Inoltre, osservando la geometria variabile delle influenze e delle amicizie riscontrabile oggi nella regione, si palesano i limiti epistemologici delle accattivanti suggestioni post-imperiali che spesso informano le analisi di taglio geopolitico dedicate alla penisola. Mosca, vista classicamente come la protettrice di Belgrado, ha negli ultimi tempi tentato un avvicinamento a Zagabria 13 nell’ottica di seminare discordia nel blocco Ue. Similmente, con buona pace della retorica della fratellanza slavo-ortodossa, la Serbia è oggi molto più legata alla Cina di quanto lo sia alla Russia 14. Sempre in Serbia ha di recente trovato uno spazio importante anche la Turchia, che pure continua a porsi come paladina della Bosnia e delle popolazioni di fede musulmana che abitano la regione. Se alcune forme di continuità diacronica possono essere rintracciate, sono comunque le necessità contingenti a dettare avvicinamenti e distacchi. L’eredità storica è un patrimonio retorico-simbolico che si può attivare o obliare in base alle esigenze del momento.  

Nonostante i Balcani occidentali siano oggi solo uno dei ring secondari dove si scontrano i pesi massimi della geopolitica mondiale, restano naturalmente rilevanti per i loro vicini, in primis l’Ue (e l’Italia in particolare), condannati dalla geografia a doversene occupare.    

Un soft power latitante: l’Ue  

Un mantra che si ascolta di frequente nei vertici dedicati al processo di allargamento recita: sotto il profilo economico, il predominio dell’Ue nei Balcani occidentali è incontrastato. Lo confermano i dati: il 69% delle esportazioni di questi sei Stati è diretto in paesi Ue, da dove arriva anche anche il 54% delle loro importazioni. 

L’Ue è, inoltre, l’attore che più investe nell’area. Solo l’anno scorso ha annunciato un pacchetto di investimenti che dovrebbe raccogliere fino a 9 miliardi di euro 15 – una cifra quasi pari a un decimo del Pil generato da questi sei Stati. E nel budget pluriennale 2021-2027 dell’Unione sono stati allocati 14 miliardi di euro per gli Strumenti di assistenza preadesione 16 (IPA, nell’acronimo inglese), gran parte dei quali finiranno nei Balcani occidentali, essendo la Turchia ormai solo un candidato immaginario. 

L’Ue fatica, tuttavia, a tradurre questa egemonia economica in soft power. In una fase di ritirata del multilateralismo 17, il cosiddetto “principio di condizionalità”, ritenuto lo strumento principale con cui Bruxelles riusciva a influenzare i propri partner balcanici, ha perso il suo potenziale trasformativo e coercitivo.  

L’azione comunitaria verso questa regione resta azzoppata dalle divergenze tra gli Stati membri, restii a cedere a Bruxelles il timone della propria politica estera. Esempio eloquente: il fatto che cinque di loro – Spagna, Slovacchia, Romania, Cipro e Grecia – non riconoscano il Kosovo ostacola notevolmente l’interazione tra Bruxelles e Pristina. Similmente, la “nazionalizzazione del processo di allargamento” 18 – la tendenza da parte dei leader politici ad approcciare l’adesione dei nuovi membri prediligendo la cura dell’interesse nazionale del proprio paese e non adottando una visione d’insieme sovranazionale – di fatto esautora la Commissione europea.

In una fase di ritirata del multilateralismo, il cosiddetto “principio di condizionalità”, ritenuto lo strumento principale con cui Bruxelles riusciva a influenzare i propri partner balcanici, ha perso il suo potenziale trasformativo e coercitivo. L’azione comunitaria verso questa regione resta azzoppata dalle divergenze tra gli Stati membri, restii a cedere a Bruxelles il timone della propria politica estera.

SIMONE BENAZZO

In alcuni casi mosse miopi e solipsistiche hanno sconfessato platealmente l’azione di Bruxelles. Al Consiglio europeo dell’ottobre del 2019, la Francia ha posto il veto 19 sull’inizio dei negoziati di adesione con Macedonia del Nord e Albania, perché il presidente Emmanuel Macron temeva che ciò potesse avvantaggiare i propri rivali sovranisti in patria. A sua volta, lo scorso novembre la Bulgaria ha impedito il varo della negoziazione con la Macedonia del Nord 20, tornando a imporle il rispetto di condizioni onerose relative ad ambiti molto sensibili come identità nazionale e lingua 21. Facendo la voce grossa con Skopje, il governo di Boyko Borissov mirava a raggranellare qualche voto presso l’elettorato più nazionalista.

L’accoglienza di nuovi membri resta prerogativa del Consiglio europeo, dove siedono i capi di Stato dei 27, non della Commissione.  

Un altro elemento che ha contribuito a delegittimare l’Ue in questo quadrante è stata la lunga sequela di crisi, di intensità e durate differenti, che si è trovata ad affrontare negli ultimi turbolenti quindici anni. Alcune, come la crisi finanziaria del 2008-2009 e la conseguente crisi dell’euro, ne hanno offuscato l’auto-identificazione come sinonimo di progresso materiale e sociale. Altre, come le primavere arabe (2011), la crisi in Ucraina (2014) e l’emergenza rifugiati (2015) hanno squadernato le falle della sua politica estera. La Brexit, infine, ha per la prima volta confutato la narrazione dell’Ue come fine ultimo e irreversibile, dimostrando che dal blocco si può anche uscire, non soltanto entrare. Dopo aver sonnecchiato per un quarto di secolo al capolinea, lo Zeitgeist si è rimesso in moto.  

Tutte queste tensioni non nascono nei Balcani, ma nei Balcani riverberano, incentivando le élite locali a discostarsi – nei fatti, ma in parte anche nella retorica – da quella “prospettiva europea” che fin dal Consiglio di Salonicco (2003) viene costantemente evocata come futuro ineludibile per la regione. 

L’hard power incontestato: gli Usa

Se nei Balcani occidentali l’Ue sembra annaspare sotto il peso delle proprie contraddizioni, gli Usa mantengono ancora saldamente la propria supremazia nel campo che più conta: la sicurezza. Seppur a rilento, l’espansione della Nato è continuata 22. Nel 2009 è entrata la fedelissima Albania; nel 2017 il Montenegro, a lungo corteggiato vista la sua rilevanza strategica come ipotetica testa di ponte della Russia sull’Adriatico; nel 2020 la Macedonia del Nord. Nel 2018 è stato nel frattempo attivato il Membership Action Plan (MAP) con la Bosnia, nonostante l’ostruzionismo dei serbo-bosniaci. Il Kosovo, infine, è de facto un protettorato Usa. Dall’abbraccio transatlantico sfugge ancora solamente la Serbia, inflessibile nel rispetto di quel dogma della neutralità che le garantisce il sostegno di Russia e Cina sul dossier del non riconoscimento del Kosovo. 

Fino all’avvento di Donald Trump, Washington ha coordinato la propria azione nella regione con Bruxelles e pare che la presidenza democratica intenda ripristinare questa prassi 23, relegando la scorsa amministrazione repubblicana a parentesi. Contrariamente ai colleghi europei, gli americani non interferiscono quasi mai nelle vicende politiche balcaniche. Quando lo fanno, usano direttamente il bastone, come nei casi delle sanzioni imposte 24 all’irridentista serbo-bosniaco Milorad Dodik nel 2017 o della crisi di governo pilotata con cui, l’anno scorso, è stato abortito il governo di Albin Kurti dopo solo un mese di vita 25

Nei Balcani occidentali la presenza economica degli Usa è irrisoria, anche se le donazioni delle agenzie governative – prima fra tutte Usaid – restano ancora uno strumento efficace per indirizzare fondi copiosi negli ambiti di interesse per Washington, per esempio i media 26.   

In sintesi, gli Usa possono essere considerati la pietra angolare delle “stabilitocrazie” balcaniche: fin quando non vengono superate le linee rosse tracciate dalla Casa Bianca, i governi hanno mano libera. Vi sono però segnali che prefigurano un maggiore attivismo di Washington. Anche in questo caso, il motivo è esogeno: l’inasprimento della tensione tra Usa e la Cina. Questa montante animosità sta spingendo quasi tutte le capitali balcaniche a rivalutare i dossier su cui interloquire con Pechino.

Vi sono segnali che prefigurano un maggiore attivismo di Washington. Anche in questo caso, il motivo è esogeno: l’inasprimento della tensione tra Usa e la Cina. Questa montante animosità sta spingendo quasi tutte le capitali balcaniche a rivalutare i dossier su cui interloquire con Pechino.

SIMONE BENAZZO

Un discreto numero due: la Cina 

Anche se la potenza asiatica è l’unico attore esterno che non può vantare un legame storico con la regione, nell’ultimo decennio è riuscita a incrementare notevolmente la propria influenza tramite un paniere molto diversificato di attività, nei cinque paesi dei Balcani occidentali dove opera 27. Non riconoscendo il Kosovo, Pechino non ha praticamente relazioni con Pristina.  

Il campo prediletto dalla penetrazione cinese è, notoriamente, l’economia. Stando ai dati della Banca mondiale, tra 2008 e 2018 l’export cinese è cresciuto in tutta la regione: Bosnia (+44%), Montenegro (+40%), Macedonia del Nord (+40%), Albania (+22%) e Serbia (+16%). Al contempo è rimasto molto basso, nonostante i proclami, il livello di apertura del mercato interno cinese alle aziende balcaniche, come implicitamente ammesso anche dal presidente cinese Xi Jinping all’ultimo fallimentare incontro del format 17+1 28, il forum con cui Pechino coordina i propri investimenti nell’Europa post-comunista.  

L’azione della Cina finita più spesso sotto i riflettori è stata la costruzione di infrastrutture strategiche. I cinesi interpretano i Balcani occidentali come un corridoio per il progetto delle nuove vie della seta: avendo ormai occupato il porto ateniese del Pireo, mirano a rivitalizzare le arterie infrastrutturali che innervano il corridoio balcanico per trasportare le merci il più veloce possibile dallo scalo greco all’Europa centro-occidentale. 

L’emblema dell’incursione di Pechino è allora la ferrovia Belgrado-Budapest 29. I cinesi intendono sia modernizzare l’infrastruttura esistente che allestire una linea parallela ad alta velocità. Un’altra iniziativa, tornata alla ribalta di recente 30, è la costruzione dell’autostrada Bar-Boljare in Montenegro, che connetterebbe la costa adriatica con le direttrici commerciali che tagliano la Serbia 31

La Cina si è inserita anche in altri appalti, soprattutto in Bosnia, dove aziende cinesi si sono accaparrate la costruzione di alcuni tratti autostradali (fuori Sarajevo e nel nord del paese) e l’ampliamento della centrale termoelettrica di Tuzla, nella Bosnia orientale 32

Questi progetti illustrano bene il modus operandi della Cina e chiariscono perché così tanti governi balcanici ambiscano ad allacciare relazioni commerciali con Pechino. Queste infrastrutture venendo costruite da aziende cinesi, che impiegano quasi solo manodopera cinese e utilizzano materie prime provenienti dalla Cina. I contratti di appalto sono stati secretati, probabilmente perché contengono clausole particolarmente onerose per i committenti. Per esempio, nel caso (probabile) di insolvenza del Montenegro, pare che la Cina potrebbe acquisire automaticamente la proprietà di porzioni del territorio montenegrino, nonché il diritto a gestire la stessa autostrada Bar-Boljare per cui Podgorica si sarebbe ridotta sul lastrico. La sigla di queste intese commerciali garantisce inoltre laute prebende ai leader locali, utili per irrorare le reti clientelari su cui fondano il loro potere. 

Tuttavia, come analizzato da Limes, la pandemia ha mostrato come l’incursione cinese non si limiti più solo a economia e infrastrutture. 

Le cosiddette “diplomazia delle mascherine” e “diplomazia del vaccino” della Cina sono state un trionfo in Serbia, il paese più importante della regione. Fin dall’inizio, Belgrado ha trasformato la pandemia in un’occasione ghiotta per consolidare l’asse con Pechino. Un’operazione puntellata da potenti gesti simbolici. A marzo 2020 il presidente Vučić, che aveva aspramente criticato l’Ue per non aver assistito prontamente i Balcani occidentali travolti dal Covid-19, ha accolto all’aeroporto di Belgrado un contingente di infermieri cinesi baciando la bandiera cinese 33. Lo scorso aprile invece, sempre Vučić si è vaccinato con il vaccino cinese Sinovac in diretta Instagram 34

Il coronavirus non ha però inventato nulla ex novo: ha solo permesso ai cinesi e ai loro partner di raccogliere i frutti di una tattica condotta dietro le quinte da almeno un decennio. La caratteristica primaria della penetrazione cinese nella regione è l’informalità. A differenza di Ue e Usa, la Cina non anela a influenzare apertamente l’attore politico né a conquistare i cuori delle masse. La diplomazia cinese agisce per intessere rapporti informali con personalità chiave (rappresentanti delle istituzioni e opinion leader), ritagliandosi al contempo un posto privilegiato in settori strategici come l’accademia e i media, grazie a network come CGTN e Xinhua.net.

La caratteristica primaria della penetrazione cinese nella regione è l’informalità. A differenza di Ue e Usa, la Cina non anela a influenzare apertamente l’attore politico né a conquistare i cuori delle masse.

simone benazzo

La crescente cooperazione con la Serbia in ambito tecnologico 35 e addirittura militare 36 dimostra che la Cina non è più solo un partner commerciale. Anche nel cortile di casa dell’Occidente, Pechino esige di essere riconosciuta come potenza globale.

Nobili decadute: la Russia e la Turchia 

Se Pechino non può sfruttare alcun legame storico-affettivo nei Balcani occidentali ma pare avere la caratura per contestare la primazia del connubio Ue-Usa, per Mosca e Ankara vale l’opposto. 

A differenza del periodo della Guerra fredda, oggi la Russia si può solo limitare ad agire da “spoiler” 37, ostacolando e danneggiando l’integrazione dell’area nell’impianto euroatlantico. Per farlo gioca sia carte tradizionali che nuovi strumenti, in una declinazione attenuata di quella “guerra ibrida” che porta avanti in altri contesti 38.  

Mosca viene ancora vista come la protettrice degli slavo-ortodossi, che formano la maggioranza in Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord e una folta minoranza in Bosnia. Specialmente in Serbia, il presidente russo Vladimir Putin gode di una popolarità da “rockstar” 39

Tuttavia, in società sempre più materialiste, consumistiche e individualistiche, l’influenza dei due vettori ideologici su cui si innestava l’influenza della Russia, ortodossia e panslavismo, è in declino. 

Anche in questo quadrante, il soft power russo è allora ancorato all’energia, da cui dipendono pressoché tutti i paesi della regione. La rilevanza di Gazprom, che controlla il gasdotto Turkstream e la sua diramazione locale, il Balkan Stream, è incontestabile. Nell’azione di disturbo praticata dalla Russia i media giocano un ruolo cruciale. La vulgata anti-occidentale diffusa da Russia Today e Sputnik 40 nel nome della contro-informazione trova un terreno fertile in Stati come Serbia, Bosnia e Montenegro, dove persistono sacche visceralmente ostili al tandem Ue-Nato. 

Affetto popolare, energia e media non bastano però per avere voce in capitolo. L’incapacità dei russi di influenzare le vicende balcaniche è stata certificata da alcuni recenti fallimenti. Il più bruciante è stata la risoluzione della controversia tra Skopje ed Atene, che dopo quasi tre decenni nel 2018 sono riuscite ad accordarsi su un nome condiviso (Macedonia del Nord), sbloccando così l’adesione dell’ex repubblica jugoslava alla Nato. Mosca, cui l’ex premier macedone Nikola Gruevski si era molto avvicinato nel tentativo di instaurare un’autocrazia nel paese, aveva cercato in vari modi di sabotare la distensione tra l’ex repubblica jugoslava a il vicino meridionale. 

In modo speculare a quanto fa la Russia, la Turchia agisce come faro delle comunità musulmane, maggioranza in Bosnia, Albania e Kosovo, minoranza in Serbia, Macedonia del Nord e Montenegro. A queste comunità la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan offre un modello sostenibile di Islam politico, che molti soggetti politici ambirebbero a replicare nella penisola balcanica. Presso questi gruppi politico-sociali il presidente turco riscuote un favore simile a quella di Putin presso gli slavo-ortodossi. 

Al netto delle retoriche, tuttavia, Ankara è oggi molto più vicina a Belgrado di quanto sia alle capitali degli Stati a maggioranza musulmana. Per taglia, popolazione e posizione geografica, la Serbia è un amico molto più conveniente di quanto siano Albania o Bosnia. E la dirigenza serba, come da prassi, si presta volentieri a questa interazione, anche per scopi di consenso interno: come osservato nel 2017, quando Vučić ed Erdoğan hanno effettuato una pomposa visita congiunta nel Sangiaccato, regione serba a maggioranza musulmana 41

In modo speculare a quanto fa la Russia, la Turchia agisce come faro delle comunità musulmane, maggioranza in Bosnia, Albania e Kosovo, minoranza in Serbia, Macedonia del Nord e Montenegro. A queste comunità la Turchia di Erdoğan offre un modello sostenibile di Islam politico, che molti soggetti politici ambirebbero a replicare nella penisola balcanica.

simone benazzo

Globalmente, nei Balcani occidentali l’azione di Ankara è imperniata alla rivitalizzazione dei legami storici e religiosi. La longa manus turca opera nel campo della diplomazia culturale tramite l’agenzia governativa Tika, nel settore educativo tramite le sedi distaccate dell’Istituto Yunus Emre e in quello mediatico, dove alcuni media come Anadolu e Trt sono molto seguiti, così come le soap opera turche, amatissime nella regione 42

Un caso studio emblematico per comprendere l’azione della Turchia nei Balcani occidentali, e i suoi limiti, è l’Albania 43, sovente ritenuta uno dei soggetti più filo-turchi della regione. L’affiatamento tra Tirana e Ankara è effettivamente aumentato dalla fine della Guerra fredda, come confermano numerosi esempi. I turchi stanno costruendo nel centro della capitale albanese quella che diverrà la più grande moschea di tutti i Balcani occidentali; stanno edificando dei complessi abitativi per le popolazioni sfollate dal terremoto del 2019 e, addirittura, hanno inaugurato una stele per i “martiri” del tentato golpe del 2016 in un parco di Tirana. Mosse che hanno corroborato la liaison turco-albanese. 

Le difficoltà che Ankara ha però incontrato a farsi consegnare da Tirana dei sospetti gulenisti hanno tuttavia suggerito che l’influenza turca nel paese delle aquile sia molto meno incisiva di quanto a entrambi i partner convenga pubblicamente raccontare. 

Una variabile dipendente 

Il “ritorno della geopolitica” 44 sta investendo prepotentemente anche i Balcani occidentali, che, incagliati nel limbo del processo di allargamento, si erano abituati negli ultimi anni a dialogare liberamente con qualsiasi partner che potesse offrire soldi, protezione o prestigio. Il futuro di questa regione povera e poco popolosa verrà probabilmente deciso in altre sedi. Molto dipenderà dal ticket Washington-Bruxelles. Incalzati da una Pechino sempre più arrembante, potrebbero optare per riavviare il motore dell’integrazione della regione, concludendo un assillante “unfinished business” 45. Oppure, distratti da altri dossier più pressanti, potrebbero arroccarsi nella difesa di uno status quo tutto sommato accettabile, fin quando non degenera in scontri inter-comunitari su larga scala.

Note
  1. Eurostat, Western Balkans
  2. The 20 fastest-shrinking countries in the world, Business Insider, 16 luglio 2020
  3. Ministero Affari Esteri, Indicatori Economici, Balcani Occidentali
  4. BLOCKMANS Steven, How the EU’s ‘big bang’ enlargement changed foreign policy, EU Observer, 14 maggio 2014
  5. BONOMI Matteo, From EU Enlargement Fatigue to Ambiguity, IAI, 23 febbraio 2021
  6. BIEBER Florian, Why the EU’s enlargement process is running out of steam, LSE Blog, 12 ottobre 2020
  7. BIEBER Florian, What is a stabilitocracy?, BiEPAG, 5 maggio 2017
  8. BENAZZO Simone, Cose dell’altra Europa: la Nato via dal Kosovo e altre notizie importanti, Trieste News, 17 maggio 2021
  9. QUERCIA Paolo, Lo scambio di territori fra Serbia e Kosovo è una pessima idea, Limes, 17 settembre 2018
  10. GAISER Laris, Il “non documento” sloveno sulla spartizione della Bosnia-Erzegovina, Limes, 20 aprile 2021
  11. BENAZZO Simone, Come e quando si è disgregata la Jugoslavia, Limes, 27 novembre 2020
  12. STOJANOVIC Milica, Freedom House: Serbia, Montenegro, Hungary ‘No Longer Democracies’, Balkan Insight, 6 May
  13. Russia’s Foreign Minister Sergey Lavrov on official visit to Croatia, Croatiaweek, 16 dicembre 2020
  14. BENAZZO Simone, “La Serbia deve ancora risolvere i danni dell’era Milošević”. Vuk Vuksanović, esperto di geopolitica serba, Trieste News, 22 marzo 2021
  15. Commissione europea, Western Balkans: An Economic and Investment Plan to support the economic recovery and convergence, 6 ottobre 2020
  16. Dati della Commissione Europea
  17. VON DER BURCHARD Hans, Merkel: Retreat from multilateralism is world’s ‘biggest threat’, Politico, 20 aprile 2021
  18. HILLION Christoph, The Creeping Nationalisation of the EU Enlargement Policy, SIEPS, 2010
  19. BENAZZO Simone, Nei Balcani l’allargamento è fermo, la Russia no, Limes, 11 novembre 2019
  20. BENAZZO Simone, L’Unione europea combatte se stessa nei Balcani occidentali, Linkiesta, 21 novembre 2020
  21. BENAZZO Simone, Perché la Bulgaria non vuole fare entrare la Macedonia del Nord nell’Unione europea, Linkiesta, 3 dicembre 2020
  22. CANALI Laura, L’espansione verso Est della Nato, Limes, 4 dicembre 2019
  23. BENAZZO Simone, Usa-to garantito: Joe Biden e i Balcani, Limes, 25 novembre 2020
  24. U.S. imposes sanctions on Bosnian Serb nationalist leader Dodik, Reuters, 17 gennaio 2017
  25. BENAZZO Simone, Il‌ ‌Kosovo‌ ‌può‌ ‌essere‌ ‌solo americano‌ , Limes, 4 maggio 2020
  26. USAID, FACT SHEET: BALKAN MEDIA ASSISTANCE PROGRAM
  27. SHOPOV Vladimir, Decade of patience: How China became a power in the Western Balkans, ECFR, 2 febbraio 2021
  28. MARTINO Francesco, Cina ed Europa centro-orientale, il “17+1” al capolinea?, Osservatorio Balcani e Caucaso, 5 marzo 2021
  29. BRINZA Andreea, China and the Budapest-Belgrade Railway Saga, The Diplomat, 28 aprile 2020
  30. KAJOSEVIC Samir, Montenegro Hopes EU Will Help it Repay Chinese Highway Loan, Balkan Insight, 15 aprile 2021
  31. FRUSCIONE Giorgio, Montenegro: l’insostenibile leggerezza del debito, ISPI, 20 aprile 2021
  32. FACCHINI Marta, Il carbone della centrale di Tuzla in Bosnia e il ruolo di Intesa Sanpaolo, Altreconomica, 27 gennaio 2021
  33. Serbian president kisses Chinese flag as support team arrives, CGTN, 22 marzo 2020
  34. Serbian President Aleksandar Vucic gets Chinese-made COVID-19 jab, Euronews, 6 aprile 2021
  35. DRAGOJLO Sasa, China’s Huawei Opens Tech Centre, Consolidating Presence in Serbia, Balkan Insight, 15 settembre 2020
  36. VUKSANOVIC Vuk, Chinese Drones in Serbian Skies, RUSI, 5 gennaio 2021
  37. SAMORUKOV Maksim, A Spoiler in the Balkans? Russia and the Final Resolution of the Kosovo Conflict, Carnegie, 26 novembre 2019
  38. DOMINIONI Samuele, TAFURO AMBROSETTI Eleonora, Framing Russian Hybrid Warfare, ISPI, 4 luglio 2020
  39. HAIDARI Una, COLBORNE Michael, There’s One Country in Europe Where Putin Is a Rock Star, Foreign Policy, 25 gennaio 2019
  40. SUNTER Daniel, Disinformation in the Western Balkans, Nato Review, 21 dicembre 2020
  41. Turkey’s Erdogan Gets Warm Welcome In Serbia’s Mostly Muslim Sandzak Region, RFERL, 11 ottobre 2017
  42. ELY Nicole, Much-loved Soaps Polish Turkey’s Image in Balkans, Balkan Insight, 18 giugno 2019
  43. BENAZZO Simone, Tra Italia e Turchia, l’Albania sceglie l’America, Limes, 4 agosto 2020
  44. BIEBER Florian, The Return of Geopolitics in the Balkans, Florian Bieber’s Notes from Syldavia, 5 maggio 2017
  45. PEJIC Nenad, Unfinished Business In The Balkans, RFERL, 19 maggio 2019