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Si sente sempre più spesso – e con sempre maggiore urgenza – parlare di sviluppo sostenibile, nel quadro di una rinnovata attenzione per la transizione ecologica al cuore della politica europea, come testimonia la centralità del Green Deal. Ma che cos’è lo sviluppo sostenibile? Come si possono misurare i suoi obiettivi concreti? E a che punto sono l’Italia e l’Europa?
Tra le tante formulazioni che la sostenibilità e i suoi programmi hanno assunto nei decenni, lo stato dell’arte scientifico-politica sull’argomento è rappresentato dai Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite (SDGs). 169 obiettivi (targets) raggruppati in 17 macro-obiettivi (goals) compongono l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, adottata nel 2015, la summa di tutte le attività e gli sforzi dell’Onu.
Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, è nata nel 2016 per far crescere la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e per mobilitare allo scopo di realizzare i 17 Obiettivi. Tra i principali fondatori dell’associazione, e portavoce fin dalla nascita è Enrico Giovannini. Giovannini è stato Chief Statistician dell’Ocse dal 2001 all’agosto 2009, presidente dell’Istat dall’agosto 2009 all’aprile 2013. Dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014 è stato Ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta. È professore ordinario di statistica economica all’Università di Roma “Tor Vergata”, docente di Public management presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Luiss e membro di numerosi board di fondazioni e di organizzazioni nazionali e internazionali.
Pochi giorni fa ha giurato come Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nel neonato governo Draghi. Qualche giorno prima lo avevamo incontrato per quest’intervista.
SDGs e target, come sono messe l’Italia e l’Europa? Su cosa siamo bravi e su cosa lo siamo meno? A quali obiettivi dobbiamo dare priorità adesso?
L’Europa è il luogo più sostenibile al mondo. Qualità della vita complessiva, attenzione alle questioni ambientali, la presenza di un welfare diffuso: tutti i dati mostrano che l’Europa è la regione più vicina al conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Ciò detto, anch’essa non è attualmente su un sentiero di sostenibilità. Già da prima della crisi drammatica che stiamo vivendo, i trend che erano visibili in termini economici ma soprattutto sociali e ambientali, o di riduzione delle disuguaglianze di genere, non facevano prefigurare il raggiungimento degli obiettivi SDGs. Le crisi degli anni 2008-2009 e poi 2011-2012 hanno lasciato segni profondi sul fronte sociale e ambientale che mostrano un peggioramento continuo. Non a caso ci sono centinaia di migliaia di morti premature all’anno per malattie legate all’inquinamento.
L’Italia è in una situazione analoga. In qualche ambito siamo più avanti dei nostri vicini: in termini di speranza di vita e in generale di qualità della salute, o sull’economia circolare e le energie rinnovabili. Su questo siamo bravi, ma poi siamo drammaticamente indietro rispetto al tema delle disuguaglianze sociali, le disuguaglianze di genere, la distruzione degli ecosistemi in particolare terrestri, l’efficienza della pubblica amministrazione. Anche l’Italia non è su un sentiero di sviluppo sostenibile.
Andare oltre il PIL. Da decenni c’è un dibattito scientifico sul rimpiazzare, o quantomeno affiancare, il PIL con indicatori più “ricchi” e significativi per la vita di tutti. La pandemia sembra aver offerto la situazione ideale: ci siamo resi conto che la ricchezza non basta, perché “stare bene” è una funzione che dipende da molti fattori. Tuttavia, almeno a livello mediatico, il discorso stenta a decollare. Cosa rischiamo come società se non riusciamo ad allargare lo sguardo oltre il PIL?
Ormai la letteratura scientifica è molto chiara: nelle fasi iniziali dello sviluppo c’è effettivamente una correlazione forte tra la dinamica del PIL, cioè la produzione di beni e servizi, e il benessere della popolazione. Ma via via che lo sviluppo aumenta, il rapporto tra PIL e qualità della vita si riduce drasticamente. Il problema non è tanto questo, cioè il cosiddetto paradosso di Easterlin, quanto piuttosto il fatto che accanto a una crescita della produzione ormai sono associati elementi estremamente negativi: la distruzione dell’ambiente, il peggioramento della qualità della vita, in più la crescita della produzione non ci dice nulla sulla sua distribuzione. Quindi il capitalismo, che, come scriviamo nell’ultimo libro con Barca, ha prodotto certamente effetti molto significativi negli ultimi 40 anni tirando fuori dalla povertà miliardi di persone, adesso non è in grado di affrontare queste tematiche.
Dunque il PIL, la misura con cui si valuta il successo di un sistema chiuso al resto – tant’è vero che il resto è chiamato un’esternalità, cioè un problema di secondo ordine -, è sempre più una misura sbagliata per capire cosa succede. Non è soltanto insufficiente. Per esempio, come abbiamo scritto nel Rapporto Stiglitz del 2009, esistono già molti altri indicatori più completi che vengono aggiornati continuamente da Istat e dagli altri istituti di statistica, ma non vengono usati come dovrebbero. In questo c’è un elemento di pigrizia da parte degli economisti, e anche da parte dei media, che ancora non hanno colto veramente la necessità di questo salto di prospettiva. Da questo punto di vista l’UE sta facendo uno sforzo significativo, perché con la Commissione Von der Leyen gli SDGs sono diventati centrali nella valutazione delle politiche, e c’è la volontà di fare un ulteriore salto, come fu fatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, per stimolare una rifondazione nel sistema contabile su basi radicalmente diverse.
Lei torna spesso sui concetti di stock e flussi. In effetti, il vortice del dibattito ci abitua a pensare sempre e solo in termini di meri flussi, senza chiederci dove vadano a finire, o da cosa provengano. Esempio classico: la disputa generazionale tra spesa per pensioni vs. spesa per giovani. Introdurre nel discorso pubblico il concetto di stock potrebbe in qualche modo rappresentare il trait d’union tra generazioni, cioè per inquadrare in modo più armonioso e sistemico il problema? Su un piano leggermente diverso ma molto affine, lo stesso presidente Macron in una recente intervista al Grand Continent ha riconosciuto l’importanza del tema. Esiste una frame interpretativo per dirimere la controversia, apparentemente tragica, tra sostenere i diritti del nuovo mondo senza affogare quelli del vecchio?
Nel momento in cui ci si concentra sulla sostenibilità, economica, sociale e ambientale, si capisce che la sostenibilità ha a che fare con la quantità di capitale che una generazione trasmette alla successiva. Se noi potessimo aggregare tutte le misure di capitale economico, sociale, ambientale e umano, capiremmo immediatamente se siamo su una traiettoria sostenibile o meno. In altri termini, se il saldo tra capitale trasmesso alla generazione successiva è minore di quello preso dalla generazione di partenza, è chiaro che alla fine il capitale si esaurisce.
Il problema è che non siamo in grado di misurare questi aspetti così chiaramente, perché non esiste un’unica variabile con cui sommare il valore delle auto prodotte in un anno e il valore delle specie di farfalle perse in un anno. Ma anche all’interno delle misure già esistenti oggi possiamo usare molto meglio questi concetti. Basti pensare al fatto che a causa delle scelte europee (i cosiddetti parametri di Maastricht) tutti guardiamo al rapporto tra prodotto interno lordo e debito pubblico e non guardiamo gli attivi a cui corrisponde quel debito pubblico. Per cui, se noi ci vendiamo i gioielli di famiglia per ridurre il debito sembra che abbiamo fatto una grande operazione: peccato che abbiamo ridotto gli attivi e i passivi. Se poi ci vendiamo i gioielli di famiglia per andare in vacanza, abbiamo fatto un ulteriore disastro. Questo implica il collasso di una famiglia indebitata.
Già oggi noi potremmo usare molto meglio le misure di cui disponiamo. Il punto cruciale è che gli stock sono ancora più importanti nel momento in cui i sistemi subiscono delle variazioni violente, quasi da un anno all’altro. Se abbiamo quasi 500.000 disoccupati in più che rimangono per uno o due anni senza lavoro, è chiaro che il capitale umano incorporato in quelle persone si riduce rapidissimamente, soprattutto nel momento in cui l’innovazione tecnologica accelera. Quindi anche con le misure attuali avremmo la possibilità di ragionare su queste cose punto. D’altra parte la stupidità di questo dibattito ormai evidente: lei comprerebbe un’automobile che indica soltanto la velocità?
E perché stiamo riempiendo di sensori le nostre automobili così da avere tutte le possibili misurazioni, mentre quando parliamo di economia tutto quello che conta è il tachimetro? Raccontata così si vede come non abbia senso.
In un suo recente articolo con Andrea Boitani parla di un problema europeo sulla contabilità di spesa buona e spesa cattiva. Ci illustra di cosa si tratta?
Tutte le statistiche sono figlie di modelli interpretativi della realtà, dunque anche questo è un problema di convenzione. Cosa differenzia un investimento da una spesa corrente? L’obiettivo di entrambi dovrebbe essere il miglioramento nella qualità della vita delle persone e degli ecosistemi, cioè il benessere non solo umano, ma del pianeta. Se io costruisco un ospedale, quello è un investimento. Se assumo un certo numero di infermieri per farlo funzionare, quella è una spesa corrente. Quindi se io faccio un investimento che ha dei benefici anche nell’immaginario collettivo perché “spesa buona”, ma poi non assumo le persone che servono, dal punto di vista degli utenti non cambia niente: quella resta una cattedrale nel deserto.
Ha senso avere questa differenza di impostazione? Naturalmente no! Poteva avere senso nel vecchio modello fordista, in cui si costruivano impianti produttivi che avevano una lunga durata. Ma oggi sappiamo che gli investimenti hanno anche un’obsolescenza elevata, per cui hanno bisogno di manutenzione e innovazione. Però senza le persone che facciano funzionare questi luoghi (come nell’esempio dell’ospedale) non cambiamo la vita delle persone. Nel momento in cui l’Europa si dà un impegno importante, attraverso il Piano di ripresa e resilienza o altre iniziative, la suddivisione tra investimenti e spese correnti ha poco senso perché l’obiettivo finale è quello di curare le persone, non di costruire ospedali.
In una recente intervista ha dichiarato: “Il primo Ministro francese dispone di un centro di Analyse Stratégique, quello inglese dispone dell’Intelligence Unit, l’Italia non dispone di alcun istituto che abbia la funzione di anticipare il futuro ai fini della policy”. Facciamo un esperimento. Lei ha carta bianca: quali nuove istituzioni creerebbe, sia in Italia che a livello UE, per svolgere in maniera più sistematica e strutturata la missione “incubatrice” dell’Asvis?
A livello europeo non c’è bisogno di aggiungere nulla, perché la rete di istituzioni – non solo la Commissione europea ma anche tutte le altre agenzie, da quella sull’ambiente al Joint Research Centre – ha già le competenze e le funzioni per fare svolgere questo ruolo. Nell’ultimo rapporto su Strategic Foresight e resilienza, che risente molto dei lavori che ho fatto con il Joint Research Centre negli ultimi quattro anni, si dice che proprio che questi elementi devono diventare centrali nelle politiche. La presidente von der Leyen ha assegnato a uno dei vicepresidenti della commissione, lo slovacco Maroš Šefčovič, il ruolo di Strategic Foresight, elevandolo da un livello tecnico a un livello politico.
L’Italia non dispone di un istituto di questo tipo benché magari disponga di altrettanta conoscenza, tra Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), ENEA, l’Istituto italiano di tecnologia, il CNR e vari altri. Quello che manca è il luogo in cui tutta questa conoscenza venga messa a sistema con una visione a medio-lungo termine: un istituto di ricerca – non necessariamente grande perché non si tratta di duplicare quello che fanno già le altre istituzioni – che sappia mettere in rete i dati per supportare le decisioni politiche. Se noi avessimo avuto questo istituto, che io suggerisco da alcuni anni, la redazione del Piano Nazionale di ripresa e resilienza sarebbe stata molto più semplice, perché avremmo avuto qualcuno abituato a fare questi ragionamenti in modo strutturato.
Che ruolo ha svolto Asvis finora, e che ambizioni ha per il futuro prossimo, ad esempio sull’indirizzo dei fondi del Recovery Plan?
Asvis è stata una grande scommessa vinta perché, partiti con 60 aderenti, adesso siamo quasi a 300 dopo 5 anni. Non a caso è citata dall’ONU, dall’OCSE e dal Parlamento Europeo come un caso unico di successo a livello globale, in termini di ampiezza e di profondità delle attività svolte. Anche perché facciamo ancora molta supplenza del settore pubblico. Altri paesi in cui settore pubblico ha preso questi elementi molto seriamente non hanno avuto bisogno di una loro Asvis.
In cosa consiste questa supplenza?
A livello comunicativo, realizziamo i cartoni animati, gli spot, il festival dello sviluppo sostenibile; a livello formativo abbiamo portato la sostenibilità nell’educazione civica a scuola, abbiamo creato una rete delle università per lo sviluppo sostenibile che conta ormai 70 atenei, abbiamo fatto un corso di formazione online disponibile per tutti i giornalisti. A livello istituzionale, ci siamo concentrati su una ricerca non tanto statistica quanto legata all’analisi legislativa alla luce dell’Agenda 2030. Siamo riusciti a mettere a sistema tanti elementi della società e tante notizie che finora erano sparse: abbiamo dato una visione integrata e questo è il segreto di Asvis, perché è il segreto dell’Agenda 2030.
Crede sia possibile una transizione energetica sufficientemente rapida senza una tassa sul carbonio? L’Europa è già abbastanza forte (esternamente) e coesa (internamente) per promuovere unilateralmente un provvedimento del genere, o rischia di generare effetti marginali o addirittura controproducenti, ad esempio venendo aggirata nelle rotte del commercio?
Nel 1972 gli scienziati del club di Roma presentarono il rapporto sui limiti della crescita indicando la necessità di un profondo cambiamento nel sistema economico. Il sistema economico opera in gran parte nel disegno dei prezzi. Un cambiamento dei prezzi per segnalare la necessità di andare verso l’energia rinnovabile, o per disincentivare l’uso della plastica, è indispensabile. Anche il sistema di tassazione dovrebbe andare nella direzione di tassare di più che consuma beni non rinnovabili, e ridurre le imposte per chi genera reddito e benessere. Dunque fa bene all’Europa di andare in questa direzione, ormai raccomandata da tutte le organizzazioni internazionali.
L’idea di una tassa alle frontiere, che non tenga conto soltanto degli aspetti ambientali ma anche di tutti gli altri diritti, è una scelta importante che potrebbe aiutare anche le imprese europee a essere più competitive, e così facendo accelerare la transizione verso un’economia più circolare e sostenibile, preparandoci alle praterie che si apriranno già nei prossimi anni se tutto il mondo va in questa direzione. L’Europa ha già dei campioni di sviluppo sostenibile in termini di produzione a basso impatto ambientale. A questo punto, la possibilità di effetti boomerang credo sia molto limitata perché ovunque c’è un’attenzione crescente all’argomento.
D’altronde perché nel mondo si compra italiano? Perché parliamo una lingua romantica? No: perché siamo considerati i detentori di conoscenze incorporate nei prodotti che non hanno pari. Dobbiamo fare in modo che questa cosa possa avvenire anche per il tema della sostenibilità. Lo confermano chiaramente i documenti europei: per l’Europa il Green Deal non è una strategia ambientale, ma è una strategia di crescita economica e sviluppo.
Che ne pensa della proposta (ri)comparsa nelle scorse settimane, a firma di vari economisti europei, di cancellare il debito pubblico detenuto dalla BCE? Quali sarebbero i rischi e i benefici di un provvedimento del genere?
Detta così questa proposta non ha nessun senso, semplicemente perché da un lato è contraria ai trattati, dall’altro è scorretta. Diverso sarebbe il caso, tornando a quello che dicevamo prima, di un ragionamento complessivo sugli attivi e passivi, così come sui titoli detenuti dagli Stati. Cioè, il salto verso un debito e un PIL europei. Questo richiederebbe un sistema federale, con implicazioni profonde di cui si discute ancora poco: non è fattibile nel breve termine.
Io auspico una trasformazione dell’Unione Europea in senso federale. Quindi prima bisogna fare quella e poi si vedono le applicazioni, tra cui l’impatto sul debito. Soprattutto dopo le decisioni sul Next Generation abbiamo finalmente, anche se, colpevolmente, in ritardo, toccato i confini delle cose possibili all’interno di queste regole: la Commissione Europea emetterà debito comune per il Next Generation, la BCE sta acquistando titoli di Stato. Per andare oltre sarebbe richiesto un salto istituzionale molto grande.