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Scegliete le Barbie

Sono nata alla fine degli anni settanta del Novecento e ho avuto la possibilità – grazie alle mie due sorelle – di essere circondata da Barbie. È grazie alle Barbie, credo, che ho intuito come l’individualità non possa essere estetica. La mia di certo non poteva: non ho gli occhi viola di Liz Taylor, gli zigomi di Sharon Stone, il naso di Charlotte Rampling, le gambe di Naomi Campbell, per non parlare del resto. E d’altronde, a rifletterci, dacché esistono le maschere e i camuffamenti – cioè dalla mitologia in qua –, l’unicità non può dipendere da caratteristiche estetiche. Intuivo che per non essere intercambiabili bisognava possedere qualcosa che nessuno poteva copiare, riprodurre e commercializzare. Qualcosa di presente e invisibile. Detto così, somigliava però agli indovinelli che ascoltavo nelle favole raccontate dalle mie nonne – e che ho scoperto poi essere una rivisitazione del Cunto de li cunti di Giambattista Basile1 che tanto consola e tanto inquieta –, e lette da mamma – e che ho scoperto poi essere teogonie greche, norrene, e della Terra di Mezzo. Tutto ovviamente era semplificato e illuminato, sapevo delle cose senza averle imparate. 

Sono stata una bambina fortunata perché ho saputo cose senza averle dovute imparare, perché qualcuno – esseri umani, radio – semplificandole, me le aveva raccontate, senza interessarsi di quanto, cosa e come capissi. Il capire era qualcosa che apparteneva a me, in una relazione tra esseri umani e favole. Così come la racchetta è qualcosa che appartiene al giocatore in una partita a ping pong, o a tennis (le metafore – si capisce da questa – sono sempre eccessive, troppo o troppo poco.) Comunque, dicevo. 

Ho capito che cosa fosse quel qualcosa di invisibile e presente quando ho cominciato a leggere. Il libro potevano vederlo tutti, ma ciò che vedevo io nel libro non poteva essere visto da nessuno. La conoscenza, lo studio – e anche l’amore in fondo, tutti vediamo le persone insieme e passiamo il tempo a cercare di capire cosa le lega, a definire i rapporti tra loro, a immaginarli –, la conoscenza, lo studio sono invisibili e presenti.

Ho capito che cosa fosse quel qualcosa di invisibile e presente quando ho cominciato a leggere. Il libro potevano vederlo tutti, ma ciò che vedevo io nel libro non poteva essere visto da nessuno.

chiara valerio

Certamente esiste la scuola pubblica, che fino a un certo punto è obbligatoria, tutti la vediamo, addirittura ci entriamo. Ma ciò che impariamo, o non impariamo, non lo sa, in fondo, nessuno, nemmeno durante gli esami. Capita il giorno sbagliato, un’antipatia, una reticenza. Ecco, la cosa divertente delle cose che sai, è che puoi anche decidere di non dirle (anche se non mi piace, anzi, penso sia importante mettere a disposizione ciò che si conosce con precisione). La cosa divertente delle cose che sai, riprendo, è che se continui a ripensarci, studiarle, limarle, confutarle pure, non scompaiono, non si consumano. Il mio corpo, per esempio, è esposto, in quanto corpo e, a maggior ragione, in quanto corpo di donna. Del mio corpo, io stessa vedo che non è il corpo di un’atleta. Delle modificazioni subite dal cervello – perché ci saranno –, sinapsi e groppi, conseguenti a ciò che ho studiato a scuola, all’università e che ogni tanto ancora studio, a ciò che ho letto o ascoltato, non riesco a vedere niente e niente so. 

Scegliete le banconote

Da qualche anno, precisamente dalla cerimonia d’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino nel 2008, ho un’ossessione. Cerco di scacciarla, o sostituirla, ma non riesco, rimane lì e ogni tanto fa capolino. L’ossessione dipende da un errore di valutazione iniziale. Un errore mio. Avevo infatti pensato che i tasti, che si accendevano e si spegnevano, si accendevano e si spegnevano, sullo schermo della televisione durante la cerimonia, fossero quadri luminosi telecomandati. Pensavo appartenessero a una gigantesca scacchiera al neon che si accendeva e si spegneva, si accendeva si spegneva, a comando. Invece, con sconcerto, dopo qualche minuto, mi ero resa conto che la scacchiera non era né meccanica né digitale, non era fatta di sicilio, ma di carbonio: la scacchiera aveva tasti umani. Esseri umani venivano utilizzati come pixel. Una coreografia di esseri umani che mimavano la tastiera di un computer. Una dimostrazione di cosa? Che prima qui, come ha scritto Jeanette Winterson, erano tutti robot ma gli esseri umani costano meno? Forse. Ho cominciato a pensare, mentre mi alzavo per prendere una birra, che, in effetti, l’unica risorsa naturale ampiamente disponibile sul pianeta terra, non in esaurimento – ma che anzi esaurisce tutto il resto – sono gli esseri umani. Siamo noi. 

La risorsa naturale condivide col denaro una caratteristica affascinante, la fungibilità. Il termine fungibilità riferito a una banconota, significa che tutte le banconote da 10 euro sono interscambiabili. Non importa da dove venga l’acqua potabile, o il petrolio, o come accumuliamo e utilizziamo l’energia solare: un bicchiere d’acqua potabile è interscambiabile con un altro bicchiere d’acqua, un gallone di petrolio equivale a un altro gallone di petrolio, un chilo di rame pesa quanto un altro chilo di rame. Nemmeno dico dei raggi di sole. Diciamo che gli esseri umani – così come li conosciamo e li definiamo Sapiens Sapiens – sono stati per la stragrande maggioranza della loro esistenza sulla Terra fungibili, lo sono stati dagli albori fino all’abolizione della schiavitù e, successivamente, alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla scolarizzazione di massa. È solo negli ultimi due secoli, più o meno, che gli esseri umani hanno smesso di essere fungibili almeno nell’Occidente dal quale scrivo. Chiamo Occidente non un luogo geografico, ma uno stato di diritto dove l’istruzione e il benessere economico sono largamente accessibili. Ecco, in questo nostro tornare a essere una risorsa naturale stiamo perdendo il diritto – se è tale –, e di certo l’aspirazione – fino a quanto è lecita –, all’individualità. All’essere distinti l’uno dall’altro, il non essere più intercambiabili se non in quel romantico e fisico chiodo-scaccia-chiodo di turbolente parentesi sentimentali. 

Penso che gli esseri umani siano effettivamente una risorsa naturale, ma non nel senso dell’acqua potabile e del petrolio, lo sono perché pensano, riflettono, perché hanno aggiunto paesaggi urbani a paesaggi boschivi e marini, e dunque hanno ampliato la natura con la cultura. Sono nata in un mondo dove le piramidi, Alessandro Manzoni, la bomba atomica, Omero, Tanizaki2, l’energia nucleare, le scorie radioattive, la Tac, la cocaina, l’aspirina, Space Invaders e Barry Lindon il film, M.me de Stael e Virginia Woolf erano per me natura. Questo ampliamento, come gesto, non è né bene né male, è un fatto. Negli esiti invece – poiché ogni anno il giorno in cui esauriamo le risorse naturali disponibili per l’anno in corso arriva sempre prima abbiamo passato da più di tre settimane il giorno in cui abbiamo esaurito le risorse naturali disponibili per l’anno in corso –, negli esiti invece questo ampliamento culturale è male. Dunque, per essere una risorsa naturale, ma nel senso di natura umanizzata, natura d’antropocene, bisogna continuare a pensare, studiare, agire per la comunità. Essere fungibili per gli umani non è un pregio, è un disastro. Pensare insieme, pensare per la comunità, dovrebbe essere sempre più facile perché, come sottolinea il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, quando tra pochi anni, se il COVID non ci stermina, saremo 11 miliardi di persone, avremo 4 miliardi in più di cervelli che pensano e un’idea ci verrà. 

Penso che gli esseri umani siano effettivamente una risorsa naturale, ma non nel senso dell’acqua potabile e del petrolio, lo sono perché pensano, riflettono, perché hanno aggiunto paesaggi urbani a paesaggi boschivi e marini, e dunque hanno ampliato la natura con la cultura.

CHIARA VALERIO

Gli esseri umani sono considerati – mi chiedo da chi, e mi rispondo “da sé stessi” – alla stregua di una risorsa naturale tout-court, di merce, che ci sono Stati, alcuni col beneplacito della nostra democrazia, che guadagnano su stoccaggio e logistica di altri esseri umani, assecondando la connaturata possibilità della specie animale di spostarsi, andare altrove.  

Nel 2008, l’anno delle Olimpiadi di Pechino, ero già una donna adulta (così come statisticamente possono essere definiti gli adulti: provvedevo alle mie spese). Mi ero laureata, avevo finito un dottorato di ricerca in calcolo delle probabilità e mi avviavo a concludere una borsa di post-dottorato, avevo comprato una macchina a rate e avevo una relazione sentimentale stabile, soprattutto avevo già letto Bruno De Finetti (un grande, visionario, matematico italiano) che, con la sua teoria della Probabilità soggettiva, aveva chiarito che il primo errore di valutazione nelle cose siamo noi. Ogni volta che guardiamo, siamo l’errore di valutazione. Scrive De Finetti “la differenza fondamentale da rilevare è nell’attribuzione del «perché»: non certo perché il fatto che io prevedo accadrà ma perché io prevedo che il fatto accadrà”.

© Keita Miyazaki

Scegliete il sistema

L’incertezza – e queste cose le ho scritte in La matematica è politica3 – è ineludibile. E così il nostro incarnare l’errore. Dovrebbe essere complicato costruire, attraverso gli esseri umani, un sistema di regole, convenzioni anche, comuni e trasmissibili. E invece è più semplice di quanto sembri se, all’ineffabilità degli stati d’animo con i quali prendiamo le decisioni, riusciamo a sostituire un modello di individuo che supponiamo non avere incertezze. Un analogo logico della Barbie di prima. 

In effetti, le statue greche non rappresentano la realtà: rappresentano un modello, non affetto da imperfezioni estetiche, di una idea di uomo o di donna. Così come il modello logico di individuo che vogliamo costruire non è affetto dalle incertezze decisionali che ci caratterizzano. E dalle miserie da cui nessuno è immune. Attraverso questo individuo idealizzato e i suoi percorsi razionali, le sue scommesse, è possibile costruire un sistema logico indipendente dal valore da attribuire alle parole “vero” e “falso”. Giusto sbagliato. Bello brutto. Che sono questioni dipendenti dal tempo, dalla storia e dal potere. Forse pure dai soldi. La logica si rivela non una proprietà delle leggi del mondo e dell’universo ma un’estensione del dominio del ragionamento. E dunque la matematica, come si capisce anche abbastanza bene dal film Matrix, intuitivamente, è un esercizio per ampliare il ragionamento. Ma è utile anche in altri ambiti. Penso, per esempio, alla democrazia. 

La nostra democrazia è rappresentativa: i cittadini maggiorenni eleggono i loro rappresentanti. E questi rappresentanti agiscono, in accordo con i principi della Costituzione, per governare e far progredire spiritualmente e praticamente la nazione. I rappresentati sono cittadini, sono esseri umani, sono dunque fallibili. Tuttavia è successo che nella storia della nostra Repubblica, alcuni individui abbiano scelto di aderire, e abbiano in effetti aderito, a una sorta di cittadino modello in base al quale agire. Adesso questo non succede più, o assai più raramente, io credo, per mancanza di immaginazione. Se ci fosse immaginazione anche solo sufficiente, i nostri ministri si comporterebbero come ci si aspetta da un ministro, dunque in accordo con la nostra Costituzione, dunque per esempio in accordo con l’articolo 3 che recita «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 

La nostra democrazia è rappresentativa: i cittadini maggiorenni eleggono i loro rappresentanti. E questi agiscono, in accordo con i principi della Costituzione, per governare e far progredire spiritualmente e praticamente la nazione. I rappresentati sono cittadini, sono esseri umani, sono dunque fallibili.

chiara valerio

Non rispettare la Costituzione, calpestarla incitando, per esempio, all’odio razziale, culturale o sociale, mettendo, per esempio, il diritto alla salute in contrapposizione al diritto allo studio, non solo è un’offesa alla Repubblica – e a chi ha scritto la Costituzione pensando e ricordando il sacrificio di vite umane per riconquistare la dignità dell’Italia (ha scritto Calamandrei senza il timore di apparire sovranista), – ma è un comportamento che può essere corretto studiando matematica, cioè prendendo confidenza con sistemi nei quali per agire, muoversi, giudicare e soprattutto convivere e comunicare bisogna imparare a rispettare alcune regole. Una persona che studi i numeri naturali, i numeri complessi, le equazioni di primo grado o la teoria del caos, comincia sempre dalle definizioni. Definizioni che, come è utile imparare anche emotivamente, non sono regole preesistenti all’umano, ma punti fissati dagli esseri umani per costruire un mondo che vada oltre singole e vaghe sensazioni. 

Studiare matematica vuol dire esercitarsi a intravvedere, a supporre, a immaginare regole che non riguardino un individuo o un oggetto ma più individui e più oggetti e soprattutto le relazioni tra essi.

Studiare matematica significa introiettare l’idea che le regole esistano e che anche quando – giustamente talvolta – si infrangono, vengono sostituite da un altro sistema di regole (non avere regole, per esempio, è ancora una regola). La cosa interessante da chiedersi nel definire le regole è: Che mondo disegneranno? 

Così, quella cosa invisibile e presente grazie alla matematica riesce a diventare anche condivisa. 

Scegliete Azkaban

Per sfatare definitivamente il mito che studiare matematica implichi una predisposizione genetica vorrei confessare come è cominciato il mio rapporto con la matematica. Si capisce subito che per studiare matematica è utile avere, come nel resto della vita d’altronde, una intenzione. L’intenzione di fare una cosa e accettare, ma per questo ci vuole il tempo (anzi l’età), che ognuno arriva dove può, e non oltre. 

Non mi soffermo tuttavia, continuo invece sull’intenzione a partire da un formidabile episodio di Harry Potter. Sirius Black è incarcerato nell’oscuro carcere di Azkaban, i dissennatori, fantasmi sì, ma con denti aguzzi, gli girano intorno come zanzare nelle sere d’estate, da un momento all’altro potrebbero dargli l’esiziale bacio che conduce laddove la magia non giunge: nel regno dei morti. Sirius si guarda intorno e vede i colleghi auror sparire uno dopo l’altro. Sa che fuggire è difficile perché le mura di Azkaban succhiano, come sanguisughe, la voglia di vivere, ti deprivano di speranza, carità e prospettiva. Sentimenti che, invero, Sirius non prova più, sostituiti nel suo animo da altri sentimenti, alcuni per lui sconosciuti, che somigliano a intenzioni. Sirius Black odia il signore oscuro, Voldemort, colui che non può essere nominato, e vuole vendetta. Il carcere, abituato a riconoscere e spegnere i sentimenti buoni, non vede l’odio e  la vendetta, che prosperano nel cuore di Sirius tenendolo in vita. Ed è così, con quest’odio che Sirius ricorda di potersi trasformare in cane e riesce a fuggire. Il carcere, come tutte le carceri, è stupido, come tutti i regimi, trova solo ciò che cerca, vede solo ciò che vuole punire, come tutti i sistemi oppressivi funziona solo quando governa, occupandolo, il tempo di chi ci vive. 

Ecco, io non amavo la matematica, né credo ne fossi amata, ma mi ero innamorata della professoressa di matematica, e l’intenzione di voler essere ricambiata è stata tale che mi sono messa a studiarla. E quando, finito il liceo, ho provato a entrare nella classe di lettere alla Scuola Normale di Pisa, e non ci sono riuscita, quel rifiuto, quello smacco mi hanno messo davanti all’idea che la matematica potesse essere una rivincita. A quale rivincita pensassi, non so, ma so che ho incontrato la matematica per amore di un’altra e per ripicca. 

Scegliete Barbara Cartland o Liala4

Quando pensate – e tutti lo abbiamo fatto, – che la matematica sia quella disciplina meccanica, priva di immaginazione, ripetitiva, dove espressioni algebriche, calcolo letterale, equazioni fratte e disequazioni si susseguono per lasciar spazio all’infinita ripetizione degli studi di funzione, fermatevi a pensare agli esseri umani che non devono essere interscambiabili, altrimenti il disastro ambientale è certo, che stanno vivi dietro la cattedra e morti dietro formule e  teorie, e riflettete sul fatto che i cuori di quegli esseri umani hanno battuto e battono. Dunque qualcosa di invisibile, ma presente, qualcosa in comunque con voi, deve pur esserci.

Scegliete le Barbie. Scegliete le banconote. Scegliete il sistema. Scegliete Azkaban. Scegliete pure Barbara Cartland o Liala. Scegliete la matematica. Scegliete la vita.

Note
  1. Giambattista Basilio (Giugliano in Campania, 1566-1632) fu un poeta e cortigiano napoletano, noto per aver scritto il Cunto de li Cunti (o Pentamerone) che fu la prima raccolta di racconti popolari in Europa.
  2. Jun’ichirō Tanizaki (Tokyo 1886-1965) Scrittore giapponese autore di Libro d’Ombra, Bompiani, 2002
  3. Chiara Valerio, La matematica è politica, Giulio Einaudi, 2020
  4. Liala è lo pseudonimo di Amalia Odescalchi moglie Cambiasi (1897-1995), nota per aver scritto romanzi di appendice di successo.