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Fino all’impegno per la Regione Emilia-Romagna, la tua vocazione politica e la tua carriera ti hanno spesso portata a confrontarti con la gestione della cosa pubblica ad un livello sovranazionale e internazionale, in particolare come eurodeputata. Il rapporto tra la dimensione locale e la dimensione internazionale è forse una delle sfide più importanti del nostro secolo, nonché un asse centrale per pensare la politica tra l’iperglobalismo degli ultimi anni e le tensioni localistiche che hanno accompagnato, ad esempio, l’emergenza del Covid-19. Cosa vuol dire, oggi, riscoprire il dialogo e la complementarità tra questi due piani?
Ci troviamo in un momento cruciale per il futuro dell’Unione Europea. Jean Monnet diceva che l’Europa si sarebbe forgiata nelle crisi: forse questa drammatica pandemia ce lo sta dimostrando. A differenza della crisi del 2008-2009, che ha colpito soprattutto alcuni paesi europei, quella del Covid-19 è una crisi simmetrica. Proprio il fatto che la pandemia abbia colpito – seppur in maniera diversa – tutti gli Stati membri ha permesso di sbloccare un dibattito istituzionale soffocato da decenni di dogmi. Facciamo alcuni esempi concreti. Subito dopo lo scoppio della pandemia, si è proceduto in modo piuttosto rapido ad attivare la “General Escape clause” per sospendere temporaneamente il Patto di stabilità, permettendo agli Stati di reagire in fretta ad un’emergenza sanitaria senza precedenti che è presto diventata anche un’emergenza economica e sociale. Da questo punto di vista, dichiarando il lockdown dell’intero paese già l’8 marzo scorso, l’Italia ha fatto da apripista ed è stata poi seguita da molti Stati europei. In poco tempo, i criteri di utilizzo del Fondo di solidarietà europea sono stati estesi, è stato messo in campo un nuovo strumento di cento miliardi – lo SURE – sulle assicurazioni da disoccupazione, si è elaborato quel fondamentale piano di investimenti che è il Next Generation EU.
Tutto ciò ha rafforzato la consapevolezza che, di fronte a sfide comuni, servano risposte condivise che rimettano al centro il principio di solidarietà, un principio su cui l’Europa è stata fondata, ma che negli ultimi anni è stato troppo spesso calpestato da egoismi nazionali soprattutto in seno al Consiglio Europeo. Il Next Generation EU, in particolare, rappresenta una svolta davvero positiva: si tratta di un progetto che guarda al futuro, orientato verso alcune priorità strategiche fondamentali come la transizione ecologica, la trasformazione digitale e la coesione sociale, in linea con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dalle Nazioni Unite. Approvata nel 2015, l’Agenda ha compiuto un’operazione politica e culturale fondamentale perché ha intrecciato – in un orizzonte coerente e universale – il contrasto alle disuguaglianze con la sostenibilità ambientale e la transizione ecologica. Quello a cui oggi stiamo assistendo è senza dubbio un passaggio estremamente significativo, che ha accelerato il dibattito sulle risorse proprie dell’Unione. Tuttavia, la domanda che resta aperta e su cui i governi stanno ancora discutendo è: si sta facendo davvero l’Unione? In parte pare di sì, si sta progredendo verso una maggiore integrazione su alcuni temi fondamentali. È il caso della sanità – che solo con la pandemia è diventata un tema stringente nel dibattito europeo – così come della ricerca sui vaccini e delle assicurazioni sui corridoi verdi.
Nelle prime settimane di emergenza abbiamo assistito ad una pagina molto cupa a livello europeo: siamo tornati ad una logica centrata sui confini, al punto che i dispositivi di protezione individuale restavano fermi alle diverse frontiere o venivano addirittura requisiti. Dopo questa prima fase, la Commissione ha saputo svolgere un ruolo di coordinamento molto importante: è un momento di svolta per l’Unione e sta a noi far sì che sia una svolta positiva nel lungo termine, per quanto questi primi elementi vadano in una giusta direzione.
Un altro punto centrale, come dicevate, è il rapporto tra l’Unione ed i governi locali e regionali. Senza dubbio deve essere un rapporto sempre più stretto, l’Unione è forte del dialogo con i territori di cui è composta. In quanto autorità di gestione dei fondi europei, il ruolo delle regioni è fondamentale tanto nella fase di progettazione e programmazione, quanto nell’utilizzo concreto delle risorse dei fondi strutturali. In Emilia-Romagna, ad esempio, una legge regionale del 2008 ha permesso di dare una struttura alla vocazione europea del territorio, permettendo che questa regione sia una di quelle che hanno partecipato maggiormente – in fase ascendente – alla formazione degli atti legislativi dell’Unione Europea. Si tratta naturalmente di un processo bidirezionale strategico, di un’interlocuzione costante che deve essere costruita tra la Commissione e i territori: da un lato l’Unione deve darsi degli strumenti adeguati per ascoltare maggiormente la voce di chi vive sulla propria pelle le scelte normative compiute a livello comunitario, dall’altro i territori devono fare di tutto per approfittare delle opportunità di partecipazione europea, costruendo un rapporto diretto con la cittadinanza. Ad esempio, il Bando per la promozione della cittadinanza europea che, nonostante le difficoltà, abbiamo emesso anche quest’anno, ha avuto un riscontro estremamente interessante: partecipano enti locali, associazioni del terzo settore, della società civile. D’altro canto, un importante segnale di vicinanza ai territori – che sono in prima linea nell’affrontare la pandemia – è venuto dal fatto che l’Unione si sia rapidamente dotata di strumenti con maggiore flessibilità nell’utilizzo delle risorse europee, permettendo a molte regioni di riprogrammare celermente parte dei fondi per coprire spese dovute all’emergenza Covid-19.
Oltre al rapporto tra Unione Europea e territori, ci sono alcune costanti che – al di là degli slogan – sono un fil rouge nel tuo impegno politico. Vorrei quindi partire da quattro parole per parlare della tua visione della politica e delle sue principali sfide attuali, in un dialogo sul nostro tempo, le sue contraddizioni, le sue emergenze. Le parole sono: coraggio, ecologismo, progressismo e femminismo. Partendo dalla prima e da un’attenzione particolare all’Unione Europea, quali sono oggi le principali difficoltà con cui l’Unione si trova a fare i conti, sia in termini di specifici dossier che di questioni che potremmo definire esistenziali? A livello delle istituzioni europee, credi che si sia davvero creata l’occasione per un nuovo inizio, per una messa in discussione di quei paradigmi economici e sociali che hanno mostrato tutte le loro contraddizioni in questi mesi difficili? Le riforme che sono state intraprese sono, in questo, abbastanza “coraggiose”?
Questa è l’occasione per fare un passo avanti verso una maggiore integrazione europea: assolutamente sì. A ciò hanno contribuito molto fattori; ne cito alcuni mettendoli in relazione con quelle che ritengo essere le principali sfide che l’Unione deve affrontare, le sfide su cui ci giochiamo il futuro. Credo che ci siano cinque questioni principali: la sostenibilità della ripresa economica, l’emergenza climatica, la giustizia fiscale, la politica estera e di sicurezza comune e l’immigrazione.
In questi mesi complicati, è certamente una priorità far ripartire l’economia. Tuttavia, non dobbiamo tornare alla “normalità” a cui eravamo abituati: dobbiamo essere consapevoli che il modello che abbiamo adottato negli ultimi decenni ha rivelato tutta la sua insostenibilità. Dobbiamo cambiare completamente rotta rispetto all’ossessione per l’austerità che abbiamo visto con la crisi del 2008-2009: solo un grande piano di investimenti pubblici e privati nell’istruzione, nella formazione, nelle competenze e in un’economia verde può permetterci di rialzarci, puntando anche e soprattutto ad una occupazione di qualità. Troppo a lungo, in Unione Europea, abbiamo cercato delle scorciatoie per competere con i colossi che ci circondano tagliando sui costi e sulle tutele del lavoro: è un gioco a perdere per tutti, l’Europa può puntare soltanto alla qualificazione del lavoro e alla produzione di qualità, materiale ma anche immateriale. Penso al settore dei servizi, al tema del digitale e dei dati, definiti da qualcuno il “nuovo oro” per la loro crescente rilevanza. Non possiamo lasciare ad altri proprio quei settori sui quali l’Europa si è dotata degli strumenti più avanzati, come ad esempio il Regolamento GDPR a tutela dei dati e della privacy.
La sfida della ripresa economica è estremamente legata all’emergenza climatica, e questo ci porta alla seconda parola: ecologismo. L’Unione sta facendo importanti passi avanti in questa direzione. Credi che riusciremo ad arrivare ad una nuova alleanza ecologica che – forse anche con il sostegno della nuova Amministrazione statunitense – ci permetta di immaginare una ripresa autenticamente sostenibile?
Ed ecco infatti la seconda sfida: il Green Deal europeo deve essere centrale nella ripresa. Si tratta di un passo fondamentale, a cui siamo giunti anche grazie alla straordinaria mobilitazione delle nuove generazioni, nelle piazze di tutta Europa. Da Greta Thunberg ai Fridays for Future ed Extinction Rebellion, tali mobilitazioni sono state tanto più incisive quanto hanno saputo fin dall’inizio essere pronte ad attraversare le frontiere. Non abbiamo più tempo, la scienza ce lo sta dicendo molto chiaramente. Questi giovani ci stanno mostrando come cambiare l’Europa alzando il livello delle nostre battaglie: ci stanno mostrando l’urgenza della transizione ecologica, ma anche l’importanza di reagire per fermare dei progetti di legge che – in alcuni paesi europei – avrebbero calpestato i diritti delle donne. Dobbiamo alzare il livello del dibattito europeo, serve un’opinione pubblica più europea, capace di mobilitarsi in modo più trasversale. Servono quindi corpi intermedi più europei, partiti più europei: se falliamo, rischiamo paradossalmente di lasciare l’internazionalismo ai nazionalisti. Sulla base di una stessa retorica fatta di odio, muri e intolleranza, questi ultimi si presentano sempre più come un fronte compatto, sia a livello europeo che internazionale. Proprio quella retorica che li rende nemici gli uni agli altri finisce per rafforzarli, dando sostegno ad argomentazioni che non offrono risposte alle difficoltà concrete dei cittadini e delle cittadine europei, ma raccontano la confortevole illusione per cui si stava meglio quando si stava peggio, quando i confini erano più solidi.
La realtà, tuttavia, ci dimostra che tutte le sfide di cui sto parlando non possono essere risolte all’interno di stretti confini nazionali: al contrario, richiedono una maggiore integrazione e la predisposizione di strumenti e di risorse comuni, condivisi a livello europeo.
Il tema, quindi, è come accompagnare una transizione ecologica necessaria e improcrastinabile, per la quale servono sia volontà politica che risorse. È una sfida che nessuno può risolvere da solo. Pare che l’Unione, da parte sua, si stia impegnando in questa direzione: pensiamo al Green Deal, al Just Transition Fund, al Next Generation EU. Quest’ultimo – pur ridimensionato dagli egoismi nazionali – ha permesso di stanziare 750 miliardi per una ripresa fatta di mobilità sostenibile, efficientamento energetico volto alla riduzione delle emissioni, investimenti nelle energie rinnovabili, grandi piani di prevenzione del dissesto idrogeologico e cura del territorio attraverso cui dare alle persone un lavoro di qualità. Lavoro di qualità vuol dire contrasto alle disuguaglianze, significa accompagnare la conversione delle professionalità, per non lasciare indietro nessuno. Significa anche accompagnare le imprese nella transizione con i giusti incentivi, andare sempre più verso un’economia circolare che non solo è necessaria per il clima, ma è anche conveniente.
Da parte nostra, come Regione, stiamo per firmare un Patto per il Lavoro e per il Clima che intreccia questi obiettivi in un’unica visione del futuro: lo stiamo costruendo coinvolgendo tutte le parti sociali, le organizzazioni datoriali che devono promuovere questa svolta, il mondo agricolo, le organizzazioni sindacali, il terzo settore, i comuni, le università e – per la prima volta – le associazioni che si occupano di clima. Gli stessi obiettivi devono essere perseguiti a livello nazionale, ma sappiamo bene che neppure la migliore strategia di contrasto ai cambiamenti climatici sarebbe efficace se a livello europeo e globale non ci dotassimo di target vincolanti. Da questo punto di vista, l’Europa si è già dotata di strumenti adeguati che puntano ad obiettivi ambiziosi che, al di là dell’importantissimo Accordo di Parigi, mancano invece a livello internazionale. Su questo tema, una buona notizia viene dalla nuova Amministrazione americana, che nelle primissime dichiarazioni ha confermato il ritorno della centralità del multilateralismo, soprattutto su temi legati al clima.
La terza sfida è la giustizia fiscale: non si può parlare di diseguaglianze, se non si parla dell’enorme incongruenza di avere 27 sistemi fiscali così diversi. Soprattutto, non si può parlare di disuguaglianze se, come abbiamo visto con l’inchiesta su LuxLeaks e sui Panama Papers, tutto intorno a noi, nel cuore dell’Unione Europea, abbiamo dei paradisi fiscali senza palme. Ciò è inaccettabile perché sottrae risorse fondamentali per gli investimenti e per i servizi alle persone. La questione, quindi, è capire con quali strumenti l’Unione possa mettere fine a questa concorrenza fiscale spietata tra Stati membri della stessa Unione.
Esistono strumenti di cui ci potremmo dotare già domattina, che il Parlamento europeo ha già votato: tuttavia, sulla fiscalità vige ancora la regola dell’unanimità, per quanto essa andrebbe superata al più presto. Pur senza cambiare le regole in materia, ad oggi si potrebbe comunque fare molto adottando il Country-by Country-reporting (CbCR), uno schema di trasparenza attualmente in discussione tra i governi. Il CbCR chiede alle multinazionali che vogliono lavorare nel mercato europeo di indicare una serie di informazioni per ogni paese in cui operano, tra cui i profitti e le tasse pagate. È una banale questione di trasparenza: un sistema molto simile è stato adottato per le banche con una normativa del 2013, e non mi pare che nessuna banca abbia chiuso per questo. Il costo per le imprese è ridotto, ma è sufficiente per capire dove non tornano i conti: si tratta semplicemente di ristabilire il principio per cui le tasse si pagano dove si fanno i profitti, non dove si è raggiunto un accordo particolarmente vantaggioso con un governo che, così facendo, cerca di “fregare” gli altri. Sono noti i casi di Irlanda, Lussemburgo, Cipro e Malta, ma la lista è ben più lunga: una volta che uno Stato inizia ad accordare permessi di questo tipo, iniziano a farlo anche gli altri. Ci perdiamo tutti, sia Stati che cittadini. Gli unici che ci guadagnano sono coloro che non contribuiscono in maniera proporzionata al benessere di tutta la comunità. La buona notizia è senz’altro che, come ha dichiarato qualche giorno fa Dombrovskis (Commissario europeo per gli affari economici e monetari), ora potrebbero esserci i presupposti per lavorare ad una web tax, anche in collaborazione con gli Stati Uniti. Infine, esiste un altro strumento fondamentale per assicurare che le tasse vengano pagate dove si fanno i profitti, ma è bloccato da una quindicina d’anni al Consiglio: si tratta del CCCTB, una direttiva che permetterebbe di avere delle norme uniformi per le imprese di tutto il mercato europeo sul calcolo della base imponibile e di ripartire in modo equo i diritti di imposizione fiscale.
La quarta sfida riguarda la politica estera e di sicurezza comune, di cui sente ancora terribilmente la mancanza, soprattutto in uno scenario geopolitico globale sempre più imprevedibile e in cui non riusciamo a trovare una voce sola e forte con cui esprimerci. L’Europa può tornare ad essere un punto fermo solo nella misura in cui sarà in grado di incidere a livello internazionale come Unione Europea: finché ci saranno solo le voci dell’Italia, della Francia o della Germania a confrontarsi con le potenze mondiali, ci condanneremo all’irrilevanza, continuando a pagare le conseguenze della nostra assenza nel dibattito internazionale. Sulla base dei Trattati, l’Europa potrebbe invece contribuire in modo molto significativo alla risoluzione pacifica dei conflitti ma, invece – anche quando si parla di tensioni che ci sono geograficamente prossime e che ci riguardano direttamente – il vuoto lasciato dall’Europa viene colmato dagli interessi di altre grandi potenze. Pensiamo, ad esempio, alla Libia: il risultato delle visioni molto divergenti tra alcuni Stati membri dell’Unione è che non riusciamo a contribuire ad individuare – insieme alla Libia – delle soluzioni che possano andare a beneficio della pace mondiale. I governi tendono ad essere molto restii ad affrontare congiuntamente questioni di politica estera, dovremmo invece capire che senza una visione comune rischiamo di tagliarci fuori dai giochi, diventando dei semplici spettatori.
Per problemi molto simili, l’Unione e i suoi Stati membri si sono dimostrati in larga parte incapaci di gestire i fenomeni legati alle migrazioni, all’asilo e alla protezione internazionale, rendendosi responsabili in modo più o meno diretto di violazioni particolarmente odiose dei diritti umani. Come per quanto riguarda la politica estera e di difesa, ancora oggi, nel Common European Asylum System, di comune c’è ben poco. Lo si è visto anche nella difficoltà di approvare la riforma del Regolamento di Dublino – di cui sei stata shadow rapporteur per i Socialisti & Democratici – che, votata a larga maggioranza dal Parlamento nel 2017, non è mai stata discussa in Consiglio. Credi che il Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo possa essere una risposta sufficiente?
Arriviamo quindi all’ultima grande sfida, che è appunto quella dell’immigrazione. Su questo, con il Parlamento europeo abbiamo portato avanti un’importante battaglia per rivedere e riformare il Regolamento di Dublino, la madre di tutte le ipocrisie. L’obiettivo era stabilire un meccanismo di equa suddivisione delle responsabilità tra tutti gli Stati membri, che al contempo valorizzasse i legami dei richiedenti asilo con tutti i paesi europei. Siamo giunti ad una soluzione equilibrata, con importanti incentivi nei confronti degli Stati a non uscire dal sistema, e al contempo costruita sul coinvolgimento diretto delle persone nella scelta del paese di ricollocamento.
Questa proposta è stata votata dalla grande maggioranza del Parlamento Europeo, con il sostegno dei Verdi, dei Socialdemocratici e perfino di gran parte dei Popolari. Perché le stesse famiglie politiche che rappresentano le nazionalità che siedono al Consiglio riescono a trovare un compromesso, mentre il Consiglio non giunge a nessun accordo? Ciò è vergognoso perché l’assenza di una risposta comune ad un problema globale ha impedito che, nel 2015, i governi fossero in grado di condividere equamente gli sforzi per l’accoglienza dignitosa di 1.300.000 richiedenti asilo. Si tratta dello 0,25% della popolazione europea: non è di certo un fenomeno ingestibile. Dietro a questi numeri ci sono storie di persone verso le quali l’Europa deve avere il massimo rispetto: non può tradire se stessa e i diritti fondamentali che, con Nizza, ha reso importanti tanto quanto i Trattati. Sul tema migratorio, continuano ad esserci enormi difficoltà, basta vedere quello che succede nell’hotspot di Moira, a Lesbo, o in alcuni centri di accoglienza anche sul territorio italiano.
Il Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo mi sembra del resto un passo indietro, sia rispetto al voto del Parlamento Europeo, che alla proposta della Commissione Juncker, che prevedeva un obbligo di ricollocamento. L’idea della “solidarietà flessibile” proposta dal Nuovo Patto risale alla Presidenza slovacca di qualche anno fa: la volontarietà non ha mai avuto efficacia, e per di più tradisce l’Articolo 78 del TFUE per quanto riguarda la solidarietà e l’equa condivisione dell’accoglienza sull’asilo. Con la riforma di Dublino ci avevamo visto giusto nel vincolare lo sforzo al ricollocamento con conseguenze sui fondi strutturali: non si può scegliere à la carte una forma di solidarietà europea, rifiutandosi di prendere parte ad un’altra.
La questione dirimente resta capire se l’Unione Europea abbia o possa avere degli strumenti adeguati per far fronte alle sfide di cui hai parlato. Domanda non scontata, anche dal momento che sul territorio dell’Unione si verificano tutt’oggi delle situazioni che mettono in discussione diritti che parevano ormai consolidati – penso ad esempio alle aree LGBT-free in Polonia –, quando ad essere in gioco non è lo stesso stato di diritto.
In effetti, l’analisi di queste sfide non può che concludersi con quella che le racchiude tutte: la sfida istituzionale. Dovremmo di certo proseguire sulla strada di una maggiore integrazione; bisognerebbe dare ancor più forza al Parlamento europeo e superare il criterio dell’unanimità adottando ad esempio il voto a maggioranza, che ci permetterebbe di avanzare sui temi cruciali di cui abbiamo parlato. Si deve inoltre riaffermare la centralità dei valori che ci hanno permesso di costruire, passo dopo passo, l’Unione. In particolare, la discussione sullo stato di diritto è dirimente: se l’Europa fa un passo indietro sul rispetto dei diritti fondamentali, perde la sua identità e si sfalda.
Di certo non si tratta di una questione facile, ma voglio essere fiduciosa che avremo la capacità di superare questi ostacoli. Ci sono importanti segnali in questa direzione: l’Europa che non abbiamo visto nel voto su Dublino l’abbiamo vista nelle piazze, nei volontari che sono andati in prima persona a salvare i migranti in difficoltà nel Mediterraneo, peraltro rischiando di incorrere in procedimenti giudiziari. Questo spirito europeo c’è, sebbene nei momenti di crisi la risposta più facile sia sempre la chiusura, prendersela con il vicino che sta peggio di noi. È questo il carburante con cui in tutta Europa le forze nazionaliste di estrema destra mietono facili consensi. Dobbiamo sfidarle su questo terreno, mostrando che la chiusura dei confini non può in alcun modo risolvere il problema dei cambiamenti climatici, né quello della giustizia fiscale. Difendendo la sovranità nazionale, si sta difendendo il diritto dell’Irlanda a tassare una multinazionale allo 0,005%. Credo che la questione sia assumere una sovranità a livello europeo che passi per una democratizzazione ancora più profonda delle nostre istituzioni, per una maggiore condivisione delle politiche economiche e per il completamento dell’Unione bancaria. Senza questi pilastri fondamentali, non possiamo del resto pretendere che l’Unione cammini saldamente, pur su una gamba sola: costruendo quello che manca, bisogna metterla nelle condizioni di marciare verso un futuro migliore.
La sfida più urgente e trasversale, che interseca tutte quelle di cui abbiamo parlato, è la questione delle disuguaglianze, legata a doppio filo con il futuro della democrazia. La pandemia ne ha messo in luce le diverse dimensioni, che non si riducono a quella economica, riportando al centro del discorso politico il tema della vulnerabilità e della responsabilità. Passiamo dunque alla terza parola: progressismo. Quale credi possa essere, oggi, il ruolo della sinistra progressista europea per far fronte alla crescita delle disuguaglianze?
Le forze progressiste, ecologiste e della sinistra dovrebbero farsi forti di una visione e di obiettivi comuni che, pur essendoci già, hanno una dimensione prevalentemente nazionale. Se il muro di Orbán rafforza i porti chiusi di Salvini e la politica di Le Pen e Farage, la professionalità del portoghese Antonio Costa nel risollevare l’economia avendo cura di ridurre le disuguaglianze non ha rafforzato allo stesso modo la sinistra europea. Ciò, in parte, è anche nostra responsabilità: siamo ancora troppo incagliati in dibattiti nazionali e ombelicali. L’esperienza al Parlamento europeo mi ha lasciato una profonda consapevolezza che con tanti colleghi e colleghe condividiamo le stesse battaglie, le stesse preoccupazioni per il futuro, ma anche le stesse risposte alle nuove sfide che ci troviamo davanti. Una tra tutte: la redistribuzione della ricchezza, del sapere, del potere e del tempo. Guardo con interesse ad alcuni paesi che stanno ragionando sulla riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario. Si tratta naturalmente di un dibattito che deve essere affrontato con grande serietà, per capire ad esempio in quali settori tale progetto potrebbe funzionale: è interessante che siano prevalentemente le forze liberali a portare avanti questo discorso, ad esempio in Nuova Zelanda o in Finlandia.
Oltre alla redistribuzione della ricchezza – che resta centrale nel contrasto alle disuguaglianze – è fondamentale arginare la grande evasione fiscale delle multinazionali, adottando dei sistemi più progressivi. Inoltre, credo che la chiave sia ripensare in senso universalistico gli strumenti di welfare: il Parlamento si è già espresso a favore di schemi di sostegno al reddito commisurati ai bisogni. È di certo un bene che si cominci finalmente a parlare di un salario minimo europeo, con strumenti quanto più possibile armonizzati e condivisi per evitare fenomeni di dumping.
Credo che la politica abbia la responsabilità di non alimentare le tensioni sociali prodotte dalle disuguaglianze, ma di agire sulle loro cause profonde. In che modo? Con politiche redistributive, ascoltando i cittadini e non facendo mancare a nessuno una risposta commisurata al suo bisogno. Solo così si può evitare di prendersela con il vicino, che a volte sta pure peggio di noi.
Quando ero eurodeputata, sono stata in missione in Uganda con la Commissione per lo sviluppo (DEVE). Sono rimasta molto colpita da come un territorio martoriato da decenni di conflitti e che ospita centinaia di migliaia di rifugiati abbia deciso di aprire le porte a chi arrivava dal Congo e dal Sud Sudan, condividendo anche la propria terra. Naturalmente l’ampiezza del territorio lo permette, ma è interessante che ad ogni famiglia di rifugiati venga dato un appezzamento di terreno, in modo che le persone possano mirare all’autosostentamento. Il capo della comunità ugandese, che vive insieme ai rifugiati, ci disse che avevano aperto la porta ai loro fratelli e alle loro sorelle perché erano stati loro, una volta, a scappare e ad aver bisogno di accoglienza: domani, chi può dirlo? Non mi scorderò mai le sue parole quando disse che volevano insegnare loro un mestiere, perché un giorno potessero liberamente tornare nel loro paese d’origine, non da mendicanti ma con dignità (not as beggars but with dignity). Lo trovo un messaggio particolarmente forte, che ci riguarda direttamente perché viene da un territorio dove gli aiuti umanitari europei hanno avuta la cura di rivolgersi all’intera comunità, sia agli ugandesi che ai rifugiati. Ciò ha contribuito ad evitare il consolidarsi di tensioni sociali, a rifiutare l’idea di una separazione netta tra un “noi” e un “loro” costruita sulla base della religione, della nazionalità, dell’orientamento sessuale o del colore della pelle. Queste divisioni non esistono, l’unica che conta è la drammatica realtà di cui ci parla Oxfam: ventisei persone che detengono la stessa ricchezza dei tre miliardi e mezzo delle persone più povere della popolazione mondiale.
Un mondo del genere non può essere sostenibile. Le forze della sinistra progressista dovrebbero dare un contributo non solo sulla redistribuzione della ricchezza e del tempo, ma anche del sapere: ciò significa accessibilità, tutela dei dati, sviluppo di piattaforme digitali europee. Il legame con le disuguaglianze è diretto, la didattica a distanza ha scoperchiato ancor più il vaso di Pandora del digital divide. Non tutti hanno la possibilità di collegarsi, utilizzare dispositivi, avere uno spazio abitativo adeguato alla didattica. Si tratta di un tema assolutamente fondamentale per la sinistra europea, che non può prescindere dal dialogo con i territori. Non in tutte le aree ci sono le stesse possibilità di connessione. Naturalmente non è solo un problema di disuguaglianze territoriali: ci sono disuguaglianze sociali, economiche e di genere che con l’emergenza pandemica si stanno aggravando e vanno ad aggiungersi all’emergere di nuovi bisogni.
Cosa possiamo fare? Porto un paio di esempi concreti di cosa stiamo facendo in Emilia-Romagna. Innanzitutto, abbiamo messo in campo un fondo per l’affitto di 18 milioni, con contributi proporzionali al calo del reddito dovuto alla pandemia. Guardando oltre la prima fase dell’emergenza, abbiamo messo insieme due bisogni diversi: da un lato quelli degli inquilini che faticano a pagare l’affitto, e dall’altro quelli dei proprietari che hanno subito perdite importanti legate al calo del turismo. Concretamente, il contributo può essere chiesto direttamente dall’inquilino o dal proprietario che accetti di diminuire l’affitto del 20% per almeno sei mesi. Vi è inoltre la possibilità, per chi avesse una casa vuota, di affittarla ad una famiglia con un affitto calmierato, per cinque anni. Questo modo di fare politica pubblica significa guardare alla riduzione delle disuguaglianze mettendo insieme bisogni diversi, cercando di dare risposte commisurate ai bisogni di tutti.
Dalle disuguaglianze passiamo all’ultima parola, su cui vorrei proporti un discorso soprattutto in termini di politica internazionale: femminismo.
Sul tema del femminismo stiamo facendo dei passi in avanti molto importanti: le donne si stanno prendendo lo spazio che devono avere, senza aspettare che qualcuno glielo ceda. È ovvio che questo non succederà, viviamo ancora in una logica per cui ogni posto occupato da una donna significa innanzitutto un posto in meno occupato da un uomo. Non è vero che le donne sono una minoranza: siamo la maggioranza della popolazione mondiale. Il problema della sotto-rappresentazione nei luoghi dove si decide – in politica così come in economia – è un problema che riguarda tutti, per questo è importante coinvolgere anche gli uomini in questa sfida. Dato che la composizione della società è quella che conosciamo, in che modo si possono fare delle politiche capaci di rispondere ai bisogni della società, se teniamo un occhio chiuso? Manca una componente fondamentale. Assicurare la piena parità di genere è dunque cruciale.
Risolviamo subito un equivoco diffuso, per cui ci si oppone alle quote rose in forza del merito: non ho mai visto nessuno fare questo ragionamento davanti a decenni di governi di soli uomini. Non rivendichiamo solo il diritto alla parità di genere nei luoghi in cui si decide, in quei luoghi rivendichiamo anche il diritto di sbagliare. Nessuno è mai andato a chiedere conto ad un uomo che si trovasse una posizione di potere in quanto uomo, e non per suo merito. La strada è lunga, la società italiana è ancora imbevuta di cultura maschilista e patriarcale, la violenza di genere è solo la manifestazione estrema di un humus culturale in cui la violenza attecchisce. E questa violenza passa attraverso la cultura, il linguaggio, gli stereotipi di genere, le rappresentazioni mediatiche e – a volte – anche istituzionali. Per questo è fondamentale sostenere la formazione delle donne in tutte le discipline, comprese quelle STEM. Per questo è importante lavorare per la diffusione di un linguaggio esclusivo. Come ha detto una Professoressa dell’Accademia della Crusca, è giusto riferirsi alle donne parlando di ministra, assessora e avvocata perché quando nei documenti ufficiali rimarranno solo i nostri cognomi, è giusto che si ricordi che quella persona ha portato anche il suo essere donna nell’esercizio del potere.
Una politica femminista – spesso portata avanti da donne – si sta distinguendo sempre più per un modello specifico di leadership. Penso ad esempio ad Alexandria Ocasio-Cortez, o a Jacinda Ardern, che uniscono una visione femminista ad una politica progressista ed ecologista. Si tratta di uno sviluppo della sinistra particolarmente interessante, soprattutto in risposta alle sfide poste dal populismo. Come credi che si articoli la relazione tra leadership femminile e leadership femminista – spesso confuse nel dibattito pubblico – da questa parte dell’Oceano?
Leadership femminile e leadership femminista sono due cose radicalmente diverse. Non basta avere una donna leader per assicurarsi che abbia la capacità di “liberare” altre donne, soprattutto se la donna in questione è a capo di un partito che relega le donne ad un ruolo domestico, che non ne ha mai difeso i diritti, a partire dal diritto di scegliere sul proprio corpo e sul proprio futuro. Non abbiamo mai sentito queste leader spendersi sul tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro – un nodo essenziale per sostenere l’occupazione delle donne –, ma nemmeno per la loro partecipazione alla vita politica ed economica.
Per quanto leadership femminile e femminista siano due cose distinte, è bene però che ci sia la parità di genere: sono contenta quando ci sono donne parlamentari, assessore, consigliere e leader di partito con cui litigare perché abbiamo una visione diversa su come fare per emancipare la condizione delle donne e delle ragazze. Ci sono sempre più donne nelle sale dove si discute e si decide: vedo un miglioramento significativo.
Di certo un grande contributo è venuto dalla Squad, formata da Alexandria Ocasio-Cortez e dalle altre deputate progressiste dei Democratici. Stanno infatti proponendo un modello di leadership plurale: credo sia questo il più importante valore aggiunto di una leadership femminista, che si contrappone al modello dell’uomo solo al comando non tanto perché è uomo, ma proprio perché è solo al comando. Non basta, quindi, una donna sola al comando: serve un’idea di leadership diversa, un modo di fare politica diverso. Per citare Jacinda Ardern, la Prima Ministra neozelandese che ha ottenuto un risultato storico alle elezioni, “siamo troppo piccoli per prescindere dal punto di vista degli altri”.
Abbiamo passato in rassegna le principali battaglie del nostro tempo, che tuttavia rischiano spesso di restare aliene le une alle altre. La sfida più complicata di tutte è tessere un dialogo, costruire degli orizzonti comuni che possano articolarsi nella rappresentanza politica. Credi che il discorso sull’intersezionalità possa essere utile a questo scopo?
L’intersezionalità è fondamentale perché ci insegna che i diversi livelli di discriminazione non si elidono a vicenda, ma si sommano. Pensiamo alla condizione delle donne rifugiate, a cui il Parlamento europeo ha dedicato un’apposita risoluzione: ci sono almeno tre livelli di discriminazione che rischiano di intrecciarsi, economica, razziale e di genere. I diversi livelli di discriminazione sono infatti spesso frutto della stessa matrice oppressiva: è per cambiare questo modello che è necessario unire le lotte. Si tratta di un passaggio fondamentale.
Credo – e spero – che le nuove generazioni stiano maturando una sensibilità in grado di andare in questa direzione. Partecipando in punta di piedi alle straordinarie mobilitazioni che – prima del Covid – gremivano le piazze per difendere la parità di genere, per rispondere all’emergenza climatica, per mostrare solidarietà ai migranti e lottare per un lavoro degno, ho visto importanti aree di sovrapposizione. Di fronte a tali sovrapposizioni mi chiedo perché la politica sia così in ritardo, perché continui a cercare di dividere ciò che nella società, sempre più spesso, marcia insieme. Non si può chiedere a quelle piazze se si sentono più vicine a Greta Thunberg o a Carola Rackete. Poco dopo l’insediamento di Trump, alla London Women’s March le femministe marciavano fianco a fianco con i movimenti ambientalisti, con i movimenti di seconda generazione che si battono per la piena eguaglianza dei diritti, con i movimenti LGBT+: tutto questo, insieme, ci servirà a scrivere una pagina migliore.
A livello sociale, vedo maturare una sensibilità che tiene assieme questione sociale e questione ambientale, contrasto alle disuguaglianze e transizione ecologica. Il motivo per cui, con grande rammarico, ho rinunciato a ricandidarmi alle elezioni europee è che non è stato possibile unire le forze ecologiste della sinistra in un unico progetto per il futuro. Spero che la politica possa fare un passo avanti, superare le contraddizioni interne alle grandi famiglie europee e ai gruppi che siedono al Parlamento europeo. L’estrema frammentarietà dell’area della sinistra e degli ecologisti è un fenomeno presente in quasi tutta Europa: quale strada ci può far uscire da questa situazione? Forse quella che abbiamo percorso al Parlamento europeo, quando facemmo un progressive focus che metteva insieme deputati e deputate di tutte le forze politiche – Verdi, deputati della Sinistra unita, Socialisti – che la pensavano allo stesso modo sulle due sfide più cruciali: il contrasto alle diseguaglianze e la transizione ecologica. Come dico da tempo, dobbiamo fare qualcosa di simile anche a livello nazionale, dobbiamo costruire una rete capace di mettere insieme diverse forze politiche per porre al centro questi grandi temi e confrontarsi su proposte concrete, a partire dalle quali si può lavorare ad una visione condivisa del futuro, che migliori la vita delle persone e del pianeta. Se non ci riusciremo, la politica resterà incapace di ritrovare un dialogo, di ascoltare quello che già si sta muovendo nella società. Sono gli scioperi transnazionali per il clima e i movimenti femministi che si sono moltiplicati nelle piazze d’Europa per protestare insieme alle donne polacche che ci insegnano a cambiare l’Unione Europea.
Questa è la grande speranza: battaglie europee ad un livello più europeo, per sfidare gli interessi di chi vorrebbe lasciare le cose esattamente come stanno, siano essi nazionalisti o forze conservatrici legate al modello economico attuale e che riescono con tanta disinvoltura a stringere alleanze.
In conclusione: di fronte a sfide sempre più complesse, quali possono essere – in una parola – le potenzialità della politica, il suo ruolo principale?
Le piazze di cui parlavo sopra sono state fondamentali per spostare le assi del dibattito. Ma non basteranno. Se non ritroveranno una connessione con la politica e con la rappresentanza in un processo bidirezionale che coinvolga sia il livello locale che la dimensione europea, non si riuscirà a cambiare davvero le cose. Da un lato, le piazze hanno necessità di trovare un dialogo con la politica; dall’altro, la rappresentanza deve riuscire ad ascoltare quelle istanze che rischiano di restare fuori dai luoghi dove si decide. Se ciò non accade, la politica si chiude in se stessa in modo sempre più autoreferenziale. Proprio quando, invece, avrebbe più bisogno di umiltà, di rimettersi in discussione ed ascoltare, affinché la rappresentanza possa essere un percorso pienamente condiviso.