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Il XXI secolo si è aperto con una serie ininterrotta di manifestazioni popolari di scontento: i girotondi e i Vaffa Days in Italia, le primavere arabe nel Nord Africa e nel Medio Oriente, Occupy Wall Street negli Stati Uniti, gli indignados in Spagna, i forconi e gli arancioni in Italia, i gilet gialli in Francia e le gioiose manifestazioni dei giovanissimi sul clima (meno antagoniste delle precedenti e le prime di portata realmente globale), le rivolte popolari in Cile, in Libano, in Iran ed in altre regioni del mondo1. Eppure la parola “conflitto” è la cenerentola del linguaggio politico. Altri sono i termini usati per designare queste forme di azione collettiva: rabbia, odio, ribellione, sollevamento, rivolta.
Il conflitto è tradizionalmente associato a forme organizzate di contestazione che hanno una leadership nei partiti o nei sindacati e un andamento contrattuale, ovvero finalizzato a ottenere un risultato: prove di forza calcolate, che pongono il problema di fronte all’opinione pubblica, incaricano una rappresentanza di portarlo all’attenzione delle istituzioni, provocano rotture ricomponibili o con nuove elezioni, o con nuovi contratti di lavoro, oppure con la cancellazione o la riforma di determinate leggi. Il conflitto, nella società democratica di massa strutturata per partiti e sindacati, è come una strategia bellica che segnala all’avversario la forza potenziale di offesa o di resistenza, con l’intento di tenere aperta la possibilità di un accordo per ribilanciare le relazioni di potere tra due parti che, diversamente, sarebbero totalmente squilibrate e con scarsa, se non nulla possibilità di dialogo.
Scriveva Robert Michels più di un secolo fa che l’organizzazione è l’unica arma che “i molti” hanno nella loro lotta contro “i pochi”, i quali sono già organizzati strutturalmente (per interessi e, come vedremo meglio in seguito, anche per stili di vita e reciproco riconoscimento). Il paradosso, continuava Michels, è che l’organizzazione è anche lo stratagemma attraverso il quale “i pochi” si appropriano della direzione delle masse, le quali hanno a questo punto due avversari: “i pochi” della parte avversa, contro la quale si organizzano; e “i pochi” dentro la loro stessa organizzazione, ovvero le élites che li dirigono sia assumendo la leadership del movimento sia educando le masse2.
Ebbene, il XXI secolo si è inaugurato all’insegna della rivolta contro “i pochi” di entrambe le categorie: i ricchi e i potenti (l’oligarchia) e i leader di partito e, più in generale, i partiti stessi (l’establishment). Le manifestazioni popolari di scontento sopra elencate sono tutte quante, benché per ragioni e con intenti diversi, forme di ribellione alla tradizionale funzione dirigente che “i pochi” hanno preteso e che per alcuni decenni sono riusciti a conquistare e mantenere con il consenso generale.
Tuttavia, quelle manifestazioni segnalano anche un altro fatto spesso trascurato: la defezione delle élites socio-economiche, la loro secessione, per esempio dalla contribuzione progressiva (con una graduale politica di alleggerimento fiscale per i più ricchi) che significa interruzione di quel legame conflittuale che siglava una forma di complementare interazione con l’altra parte e, per questo, costituiva uno spazio aperto dove chi ha più potere si espone al controllo efficace di chi ne ha meno.
Conflitto e contrapposizione, conflitto e antagonismo non sono la stessa cosa, non sono termini equivalenti. In aggiunta a ciò, è importante prestare attenzione a un altro fatto che emerge dalle rivolte di questo nuovo secolo. Nonostante ripetiamo senza troppo riflettere che “i molti” si contrappongono ai “pochi”, tendiamo a non vedere questo scenario dal punto di vista opposto: in realtà, la contrapposizione oggi più radicale è quella dei “pochi” contro “i molti”, anche se questo aspetto non si manifesta con la stessa dirompente chiarezza, perché l’azione contrastante dei “pochi” opera generalmente in maniera indiretta e sottotraccia, e impiega la violenza solo in casi estremi (come i colpi di Stato).
Lo ha chiarito Jeffrey A. Winters in un libro sull’oligarchia, illustrando il modo di procedere dei “pochi”, che è più che altro indiretto e ricorre a leggi o cavilli da queste consentiti: quella dei “pochi” contro “i molti” è la più persistente e fatale delle lotte, molto più di quella di segno inverso, che avviene invece quasi sempre per reazione a una situazione di difficoltà creata da uno sbilanciamento del potere a favore dei “pochi”3. Esercitare il potere direttamente è una cosa che interessa assai più chi ha molto da perdere (e da proteggere) di chi ha meno, come ci insegna Niccolò Machiavelli.
La nascita delle istituzioni e della politica contemporanee, inclusa la democrazia costituzionale, non ha del resto mai eliminato gli oligarchi, né ha reso l’oligarchia politicamente obsoleta. Ciò è dovuto al fatto che nella democrazia elettorale non ci sono, in pratica, impedimenti che possano effettivamente limitare le forme materiali di potere detenute dagli oligarchi. La concentrazione del potere economico e finanziario può penetrare con estrema facilità le istituzioni che sono state originariamente pensate per consentire ai “molti” di avere il potere di influire sulle decisioni. Nonostante la divisione dei poteri, la stratificazione delle società contemporanee e lo Stato di diritto, l’oligarchia ha continuato ad esistere e operare pressoché indisturbata. Lo sciopero generale ad oltranza che ha segnato la Francia per settimane a partire dal mese di dicembre 2019 e ha coinvolto tutte le categorie lavorative ha avuto al centro la proposta di riforma pensionistica approntata dal governo Macron, intesa ad approdare a un «un sistema flessibile che consente di utilizzare le pensioni come variabile per l’aggiustamento delle finanze pubbliche» e che mette fine a ciò che rimane del welfare come spazio comune, assegnando allo “Stato sociale del XXI secolo” una forma squilibrata nel si partecipa non tutti insieme e in proporzione al reddito ma in ragione del bisogno di assistenza pubblica. Ha scritto Etienne Balibar che la premessa di questa logica è la manomissione dell’eguaglianza di cittadinanza, l’ammissione che le diseguaglianze sociali si traducono in diseguaglianze di potere rappresentativo e politico. La contrapposizione è in effetti quella dei “pochi” che usano i «dogmi di un’economia che incoraggia e invita a un consumo irragionevole; inventano alternative alle diseguaglianze sociali, razziali e di genere che troppo spesso vengono considerate parametri insuperabili; [istigano] i seminatori di odio e paura che vogliono fratturare la nostra società»4.
Alla consueta formula i molti contro i pochi, rappresentata con facilità dalle immagini ormai quotidiane di ribellioni, si dovrebbe affiancare pertanto quella meno consueta dei pochi contro i molti, che invece descrive comportamenti raramente plateali. Il divorzio interno alla cittadinanza democratica dovrebbe essere analizzato e giudicato da entrambe le prospettive.
Vergogna e altre emozioni
L’idea e la pratica del conflitto sociale che hanno accompagnato le ideologie politiche del Novecento presumevano una differenziazione per interessi economici dei soggetti collettivi insieme a un rifiuto esplicito di pensare la politica e la società secondo agglomerati indifferenziati come “i molti” e “i pochi”. Presumevano il riferimento a un corpo unitario di eguali nel diritto e nel suffragio (la nazione) e la fine della sovranità divisa tra “popolo” e “grandi”, in coerenza con quella che fu la grande ambizione coltivata dalla Rivoluzione francese. Il dibattito in seno all’Assemblea francese nell’estate del 1789 sull’aggettivo da attribuire all’assemblea – se «nazionale» o «popolare» – è illuminante sotto questo riguardo: mostra l’impossibilità di adattare il dualismo classico molti/pochi, patrizi/plebei o senato/popolo a un ordine politico (lo stato territoriale moderno) fondato sull’uguaglianza giuridica dei sudditi. Il senso teorico di quel dibattito fu che il repubblicanesimo classico non poteva essere adattato all’idea di uguaglianza politica e giuridica, né alla concezione moderna della sovranità popolare. L’Assemblea francese non avrebbe dovuto rappresentare una parte, ma l’intera nazione. Questa interpretazione monistica della sovranità, che si allineava con quanto era avvenuto negli Stati Uniti, cambiò per sempre il significato dell’idea di “regime misto” che avrebbe riguardato da allora le funzioni dello stato, non le classi sociali incaricate di svolgerle.
Con il nuovo secolo e la fine dei partiti ideologici che organizzavano la partecipazione e traducevano le emozioni in linguaggio politico, i conflitti hanno cambiato di pelle e di senso. Sono diventati un’altra cosa – una “cosa” difficile da denotare, che in effetti non ha un nome e comunque non viene designata (o lo viene molto raramente) con il termine “conflitto”. La “cosa” sono i movimenti “spontanei”, le azioni di sabotaggio, la democrazia insorgente, come viene anche chiamata, cioè soggettività orizzontali che sgorgano contemporaneamente, mosse quasi da una regia invisibile in reazione a un determinato stato di cose, che si autorappresentano attraverso le loro proteste, senza una strategia di lotta e una espressa volontà di mediare e contrattare. Si presentano come “esclusi” economici che manifestano disagio sociale denunciando la scarsità materiale di beni e soldi, e che sono designati in ragione delle emozioni che li hanno mobilitati: gli “scontenti”, gli “indignati”, i “frustrati”, gli “arrabbiati”.
Primi fra tutti furono i girotondi, che a partire dal 26 gennaio 2002 per diversi mesi riapparvero puntualmente nei luoghi dove la politica “ufficiale” si mostrava. Circondando il Senato (Palazzo Madama,) uno dei personaggi rappresentativi di quel movimento, il regista Nanni Moretti, gridò al megafono “Vergogna!” rivolgendosi a chi stava dentro il palazzo del Senato e si apprestava a votare una legge che consentiva la possibilità di ricusare il giudice naturale e di violare il principio costituzionale di eguaglianza del diritto. Quella norma avrebbe agevolato i politici accusati di corruzione. I girotondini volevano essere «un pungolo per la sinistra», la quale diede prova di poca vitalità reattiva e si dimostrò non proprio desiderosa di rappresentare quel «fiume carsico di scontenti» che circondavano simbolicamente i “palazzi del potere” romano. Puntando il dito contro il governo Berlusconi, i girotondi erano un j’accuse a un’opposizione politica che mostrava già tutti i segni della sua adesione conformista alla logica del mainstream: languida nelle parole d’ordine, incerta e banale nelle proposte, lontana dalla società. La sinistra aveva davanti a sé un potenziale di rinnovata vitalità che era estraneo alla sua tradizione ideologica, adatta a leggere e rappresentare solo le contestazioni incanalabili in “conflitto”, secondo lo schema che abbiamo esplicato in apertura. Lo spontaneismo della “gente”, la critica ai “palazzi del potere”, l’adozione di una terminologia genericamente antagonistica che parlava di “molti” e di “pochi” non aveva cittadinanza nella tradizione classista nella quale il conflitto politico e sociale è stato pensato, teorizzato e articolato per diversi decenni a partire dall’Ottocento e per tutto il Ventesimo secolo.
I girotondi prefiguravano quel sentimento di anti-establishment che è lo “spirito” della politica populista, ossigeno di altri movimenti di scontento che di lì a poco sarebbero nati, per convergere nella serie di Vaffa Days che Beppe Grillo lanciò a partire dal 2007 nelle piazze italiane, accompagnandoli con lunghi monologhi da predicatore evangelico in teatri gremitissimi, per denunciare l’assalto dei potenti all’ambiente, la loro occupazione delle istituzioni, la trasformazione di ogni bene in un business. Anche i grillini gridavano “Vergogna!”, come avevano fatto i girotondini , come più tardi avrebbero fatto gli indignados spagnoli contro le élites finanziarie globali e quelle politiche nazionali, e come fanno da più di un anno i gilets jaunes nelle città francesi contro il governo Macron.
Il grido “Vergogna!” sprigiona da un canovaccio di relazioni sociali mosse non da una riflessione sulle strutture economiche e di classe, ma da sentimenti morali. La vergogna dovrebbe essere un sentimento di autocontrizione atto a svolgere una funzione correttiva del comportamento dei singoli e, indirettamente, della società. Questo può succedere a condizione che chi dovrebbe vergognarsi riconosca un’autorità morale giudicante esterna: un amico o un genitore nel caso di attori privati, oppure il pubblico del quale si cerca e si teme il giudizio nel caso di attori politici. Il sentimento della vergogna ha una forza performativa unicamente se il vincolo sociale esiste e ha autorevolezza di giudizio sui singoli.
Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: «Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi»5. Per la sua capacità generativa di comportamento reattivo e di ribellione, il sentimento della vergogna mette in scena una fenomenologia doppia: nel protagonista (la persona colpevole) genera un’azione reattiva o di ritorno a sé quasi a voler cercare nascondimento (così nasce il senso di autocontrollo); nell’osservatore esterno (chi assiste e vede o sa) genera un’azione attiva o di indignata ripulsa (il potere giudicante dell’opinione). È a causa di questa doppia fenomenologia che poeti e filosofi hanno attribuito ad essa un ruolo non solo di fustigazione per contrizione e pentimento, ma anche liberatorio, sia per l’individuo sia per la collettività. La vergogna che si traduce in indignazione è un atto di accusa che può muovere le azioni collettive di chi denuncia e non ha o non esercita potere: a gridare “Vergogna!” è verosimilmente chi il potere non ce l’ha.
Non provare vergogna, e per converso non essere indignati, è da questo punto di vista segno di una frattura delle relazioni sociali per cui una parte non ha interesse alcuno al riconoscimento da parte dell’altra. È proprio contro questa eventualità che gli scrittori si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l’emozione della vergogna: a questo scopo è orientato lo spirito civico. E quest’opera della cultura dimostra ulteriormente come la vergogna possa essere segno della civiltà e agente di civilizzazione. La forza di questa emozione, come di tutte le emozioni, è certo irrazionale, ma la forma espressiva che prende dipende dall’ethos di una società e svolge una funzione che è razionalmente spiegabile e comprensibile. Dunque, gridare “Vergogna!” in una piazza contro chi sta nei palazzi del potere segnala due cose: l’estrema gravità di una condizione di immoralità pubblica, ovvero di corruzione; e la speranza che le persone alle quali quel grido è indirizzato temano il giudizio pubblico, non importa se per convenienza o per sincero sentimento di vergogna. A questa condizione l’indignazione popolare può avere effetto e innescare comportamenti e decisioni che hanno la forza di cambiare il corso degli eventi.
Su questa catena di fenomeni Karl Marx – non interessato a far leva sulle emozioni e i sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali – scrisse parole straordinarie in una lettera del 1843 scritta dall’Olanda ad Arnold Ruge sulle politiche illiberali del governo prussiano (che a Marx costarono la condanna e l’espatrio). Commenta Marx, senza cadere in un vuoto patriottismo, che sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero almeno provato vergogna, e aggiungeva: «la vergogna è già una rivoluzione […]. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccar il balzo»6.
Ma le emozioni non sono sempre adatte a guidare il conflitto verso trattative e soluzioni pragmatiche. Sono spesso energie di contestazione volte a segnalare prepotentemente uno stato di radicale scontento e che possono anche portare a una rottura delle relazioni sociali, a ostacolare la ricerca di possibili mediazioni per ricomporre le tensioni con la parte contestata. Quando ciò succede, come oggi, opinionisti, studiosi, intellettuali iniziano ad accorgersi che qualcosa non funziona più nelle relazioni sociali e mettono in circolo l’idea di una “crisi della democrazia” e perfino di una sua “agonia” e “morte”, l’ansia per il plebeismo, il timore dell’irrazionalità che sgorga della “pancia del paese”. L’assunto non detto di questi esercizi retorici di catastrofismo è che il termometro da consultare per comprendere lo stato di salute della democrazia sia o il grado di reverenza dei “molti” verso “i pochi” che sanno (il ruolo degli intellettuali guida), o la diffusione dell’apatia politica (occuparsi d’altro e lasciare la politica agli eletti), mentre le contestazioni segnalerebbero una “sofferenza” della democrazia.
La lotta condotta dai gilet gialli nella Francia di Macron ripropone questo schema: reazione, manifestazione, rifiuto di aprire una trattativa. Intervistato da un giornalista, un cittadino francese mobilitato ha offerto in poche parole una spiegazione eloquente della relazione tra “classi popolari” e politica delle élites nelle nostre democrazie consolidate: «abbiamo dovuto scegliere la strada della rivolta per farci sentire. Sono mesi, anni che cerchiamo di far capire le nostre esigenze, le nostre frustrazioni, di trasmettere le nostre preoccupazioni sul potere di acquisto, ma nessuno ci ascolta». Tuttavia, se l’ascolto e la visibilità sono lo scopo delle contestazioni, l’obiettivo non sembra essere quello di ottenere risultati specifici, ma piuttosto quello di tenere sotto tiro, se così si può dire, la classe politica e l’élite sociale. Creare, insomma, una condizione di imprevedibilità, di imponderabilità, di insicurezza dalla quale una passione sopra tutte deve emergere e governare gli animi: la paura. La paura che «un’intera nazione» sia come il leone accovacciato di cui parlava Marx, pronto a spiccare il balzo.
La divisione tra “i pochi” e “i molti” si manifesta in tutta la sua gravità non solo o non tanto nei contenuti (radicalizzati) delle rispettive posizioni, ma anche nella concezione della libertà politica: i primi rispondono ai secondi con una visione di agire pubblico del cittadino che segnala appieno il loro timore per l’insorgenza collettiva: la democrazia viene identificata con l’apatia (salvo l’esercizio ciclico del voto per autorizzare chi governa). I “pochi”, dopo essersi liberati da gran parte dei vincoli sociali che li mantenevano responsabilmente interattivi con i “molti”, hanno cessato di provare vergogna, mentre provano certamente paura. Ed è proprio sulla paura che le relazioni tra le parti sociali si strutturano nell’età della fine dei conflitti di classe e della politica della mediazione.
L’interpretazione minimalista della democrazia ha avuto un certo peso in questa incapacità che oggi abbiamo a nominare il conflitto politico; lo ha avuto l’idea, largamente condivisa tra gli scienziati politici, che ciò che designa la libertà politica sia essenzialmente il godere formale del diritto di suffragio, senza riferimento alle sostanza alla forma dell’agire politico. La democrazia viene in questo modo equiparata a plebiscito e referendum, a sì/no su persone e cose; essa è lo specchio di una società nella quale la relazione binaria tra “i pochi” e “i molti” domina la scena e lascia poco spazio al discorso, alla deliberazione, alla ricerca della mediazione, al conflitto.
Radicalità
Tra i movimenti autoconvocati di questo ultimo ventennio, solo Occupy Wall Street ha avuto uno spiccato profilo deliberativo, non meramente emotivo, nei mesi in cui ha stazionato nei centri finanziari delle città americane. Occupy aveva uno scopo molto preciso: mettere a nudo la contraddizione per cui mentre la democrazia è governo della maggioranza, nel presente stato di cose la maggioranza sociale non conta più nulla. I cittadini riuniti nelle piazze erano rappresentativi di quella maggioranza impotente. Non volevano proporre un’analisi socio-economica della composizione del loro movimento; non volevano distinguere al proprio interno in base alle numerose ed evidenti differenze – il 99% non era una massa omogenea e indistinta, e i cittadini che stazionavano a Zuccotti Park ne erano ben consapevoli. A queste persone premeva mostrare quel che le tante forme di precarietà e disagio sociale ed economico avevano in comune.
Volevano dimostrare che la rappresentazione visiva della maggioranza non coincideva con la rappresentanza istituzionale che sedeva nel Congresso e che governava il paese. Due maggioranze: una reale e una fittizia. La radicalità di Occupy stava nella chiamata a tirarsi fuori dalle procedure elettorali, e dunque dal lavoro istituzionale che avrebbe dovuto rispondere alle rivendicazioni e sedare la contestazione; che avrebbe dovuto trovare soluzioni e mediazioni attraverso i partiti e la rappresentanza politica.
Nell’età della fine dei partiti organizzati e delle politiche ispirate da narrative di riforma o di miglioramento possibile delle condizioni di lavoro e di vita dei “molti”, la rappresentanza cambia metodi e forme: è costruzione di parole d’ordine capaci di aggregare varie richieste insieme, denunce concrete come quelle contro l’aumento delle rette degli asili nido o degli affitti; i salari bassi che costringono al doppio e triplo lavoro (quando c’è); una sanità pubblica che impone lunghe file di attesa e in alcuni casi o aree del paese è scadente; i sistemi di trasporto indecenti per chi li usa quotidianamente per recarsi al lavoro; l’aumento delle tariffe dei beni primari (elettricità, gas o, appunto il trasporto) che rendono costoso lavorare.
La maggioranza sociale si descrive attraverso i bisogni insoddisfatti e la fatica quotidiana del vivere. Si rappresenta attraverso una comprovabile e misurabile scarsità di quel denaro che dovrebbe servire a formare quelle capacità che servono – ha scritto Amartya Sen – a svolgere le funzioni sociali basilari: andare al lavoro e in generale prendersi cura responsabilmente di sé stessi. Bisogni come capacità di operare, di scegliere e darsi obiettivi raggiungibili. La difficoltà a soddisfare questi bisogni strumentali – questi mezzi per vivere funzionalmente – a causa della loro crescente dispendiosità che progredisce insieme alla erosione dello Stato sociale, è all’origine di contestazioni che non sono rappresentate come conflitti volti a trovare soluzioni pragmatiche. Anche perché la loro dimensione temporale non è un futuro da raggiungere o costruire, ma è il presente, l’immediato vivere, il “qui e ora”. La precarietà delle condizioni di vita, il non poter contare su un futuro certo: questo stato di puro presente è ciò che annichila l’azione politica progettuale.
Quale eguaglianza?
E in effetti la storia moderna della democrazia è stata segnata proprio dalla dialettica tra due posizioni: il partito dell’eguaglianza sostanziale e il partito dell’eguaglianza politica. Ora, fino a quando la società è segnata da un benessere diffuso e non ci sono condizioni di disparità forti, numerose e visibili, i due partiti si intersecano, si danno vicendevole sostegno. Perché abbiamo certamente bisogno di eguaglianza sociale ma senza dover diventare assolutisti: il riformismo socialista democratico, i programmi pubblici a sostegno dei diritti sociali, hanno registrato il compromesso tra le due concezioni di eguaglianza. Questo è stato il tempo della ricostruzione postbellica per tutti i paesi europei, e anche per gli Stati Uniti, che hanno partecipato alla ricostruzione economica oltre che politica, e hanno accresciuto e diffuso il benessere sociale dei loro cittadini. Questo è stato il progetto tenuto insieme dal termine ossimorico “socialismo liberale”, tanto amato da una parte importante degli antifascisti italiani.
Il rischio del nostro tempo è contenuto tutto nel divorzio di questi due partiti. Che poi è divorzio fra coloro che pensano che sia sufficiente avere una democrazia elettorale o minima (elezioni libere) e coloro che pensano che senza aggredire le diseguaglianze economiche e sociali, senza cioè prendersi cura delle condizioni grazie alle quali i cittadini formano le loro capacità per operare proficuamente nella loro vita sociale, la democrazia diventi una pura finzione. Le regole del gioco funzionato se i giocatori sentono di potere aver convenienza nel rispettarle. Non hanno da sole una capacità magica di pacificare società che sono verticalmente divise.
La scienziata politica statunitense Theda Skocpol ha dimostrato una decina e oltre d’anni or sono con una accurata ricerca gli effetti della crescita della diseguaglianza economica sulla democrazia politica; e da allora una sequela impressionante di volumi e articoli giornalistici si sono succeduti a confermare l’inesorabile accompagnarsi di un’oligarchia sempre più libera di influenzare le leggi (pagando partiti e campagne elettorale, possedendo media televisivi e digitali) a una larga parte di popolazione che indirettamente favorisce quella libertà ritirandosi dal gioco politico o, come più recentemente ha mostrato Nonna Mayer, rientrandovi per favorire la parte più xenofoba e nazionalista7. Una parte che con un diversivo teorico sposta l’attenzione dei “molti” verso altri “molti” (gli immigrati, nazionali e non) scegliendo accuratamente di non menzionare mai “i pochi” economici e sociali, ma solo quelli politici appartenenti agli altri partiti.
È proprio perché la democrazia non appaia una parola morta o una finzione o una truffa che occuparsi delle condizioni sociali della libertà politica è d’obbligo. Come lo è rifiutare di pensare che la democrazia formale e quella sostanziale siano due cose diverse e la seconda sola o la prima sola sia quella vera: le regole sono sostanza. Importante è che esse siano usate correttamente, e senza barare (ma contro i bari viene in soccorso il codice penale) dal numero più alto di cittadini. Lo scopo di tutto ciò non è superare o risolvere o terminare una volta per tutte il conflitto con le forze che si oppongono all’eguaglianza politica e di considerazione sociale; lo scopo è, invece, tenere il conflitto sempre aperto. Infatti, il conflitto democratico non è né può essere mai a somma zero: non appena una parte vince tutto, impone sé stessa senza essere sottoposta a limitazioni sull’opposizione e, magari, ne blocca preventivamente la capacità di sfida, la democrazia è gravemente colpita. Al contrario, essa è viva e in buona salute nella misura in cui la dialettica politica prosegue apertamente, come una lotta di riaggiustamento continuo tra chi vorrebbe accumulare il massimo di potere e chi vorrebbe disperderlo. In relazione alla democrazia, il conflitto tra “i pochi” e “i molti” è in fondo racchiuso tutto qui. Ed è vitale.
È un conflitto vitale perché mette a nudo il rischio di fronte al quale si trova l’ambizione democratica: quello di un divorzio dei “pochi” potenti che, giunti a tanta disuguaglianza di condizioni di vita, sentono come insopportabile il fatto di dover respirare la stessa aria di coloro che vedono ormai come inferiori, di esseri fatti della stessa sostanza morale e giuridica eppure essere diversi in tutto, come Giambattista Vico faceva dire a Solone. L’assenteismo elettorale predicato a coloro che hanno davvero solo il numero come ultima forza politica è una mossa retorica astuta e subdola, dunque; come lo è l’elogio del merito quando è dissociato dall’attenzione alle condizioni sociali e culturali entro le quali e a partire dalle quali si formano le capacità per competere; come lo è, infine, l’attribuire alla mala sorte e al caso quel che è a tutti gli effetti una costruzione sociale compiuta nel corso delle generazioni, il prodotto di scelte perseguite da una classe di cittadini che si sente privilegiata ed è impermeabile alla regola democratica. Per opporsi a queste retoriche della reazione dei “pochi” contro i “molti”, ai “molti” resta al fondo l’antica regola di partecipare in massa, di non tirarsi fuori dal gioco, perché solo con la loro forza – quella temutissima del numero – riescono a contestare e ad accorciare la distanza che separa i princìpi proclamati dalla condizione effettiva in cui essi operano. La pausa che la pandemia ha imposto a queste contrapposizioni sociali non cambierà la natura della politica, che resterà probabilmente ancora per molto binaria e radicalmente opposizionale (e con l’aggravamento delle condizioni di povertà in questo tremendo 2020). Se non che, è giunto il tempo di prestare attenzione alla parte meno appariscente, poiché dalle politiche nei confronti di questa parte privilegiata e troppo diseguale dipenderà la possibilità di trasformare la radicalità opposizionale in conflitto politico. Dopo venticinque secoli, la sfida alla democrazia viene ancora ed esplicitamente dall’oligarchia.
Note
- Questo testo sviluppa dei concetti contenuti nell’ultimo libro dell’autrice (Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo, Laterza, 2020)
- R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna 1966, p. 55.
- J.A. Winters, Oligarchy, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 10-11.
- E. Balibar co-estensore dell’appello degli intellettuali francesi pubblicato in Grèves du 5 décembre: plus de 180 intellectuels et artistes soutiennent celles et ceux qui luttent, in «Le Monde», 5 dicembre 2019.
- G. Leopardi, Zibaldone di pensieri (17 giugno 1822).
- Le lettere di Marx furono pubblicate dallo stesso Ruge negli «Annali franco-Tedeschi», e sono ora reperibili anche in https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Carteggio1843.htm (consultato il 21/10/2019).
- T. Skocpol (a cura di), American Democacy in an Age of Rising Equality, in «Perspectives on Politics», vol. 2, n. 4, dicembre 2004, pp. 651-666; N. Mayer, The radical right in France, in J. Rydgren (a cura di), The Oxford Handbook of the Radical Right, Oxford University Press, Oxford 2018, pp. 433-451.