Il confronto tra la foto della Guardia Nazionale USA schierata ordinata, compatta e su più file, in preparazione alla manifestazione di Black Lives Matter del giugno scorso, e le foto dei sostenitori di Trump1 che sono riusciti ad introdursi dentro Capitol Hill è sconcertante ed è già diventato un nuovo simbolo del sistema di double-standard che viene applicato negli Stati Uniti tra neri e bianchi.

È proprio l’esistenza di questo sistema che ha reso la designazione e l’elezione di Kamala Harris come Vice-Presidente un evento straordinario.

But while I may be the first woman in this office I will not be the last” (se è vero che sono la prima donna a ricoprire questa carica, di certo non sarò l’ultima).

Questa frase è già storia e il primo discorso di Kamala Harris da Vice President-Elect degli Stati Uniti è stato emozionante e potentissimo.

“Guardando ciò che sta accadendo adesso, ogni bambina vede che questo è il paese delle opportunità”2 – continua Harris.

Di rompere il soffitto di cristallo aveva già parlato, tra le altre, Hillary Clinton esattamente quattro anni prima, quando nel suo primo discorso dopo la sconfitta nella campagna elettorale per la Presidenza contro Donald Trump aveva evocato un futuro più favorevole alla parità di genere dichiarando “[n]on abbiamo ancora infranto il soffitto di cristallo più alto e più resistente di tutti, ma prima di quanto pensiamo qualcuna lo farà” e si era poi rivolta “a tutte le bambine che mi stanno guardando: non dubitate mai del vostro valore, del vostro potere, e del fatto che meritate tutte le opportunità del mondo per inseguire e realizzare i vostri sogni”3.

Entrambi i discorsi hanno fatto venire la pelle d’oca a milioni di persone, ben oltre i confini degli Stati Uniti.

Se guardando Hillary Clinton in TV molte bambine hanno potuto sognarsi come possibili future candidate alla Presidenza degli Stati Uniti seppur donne, guardando Kamala Harris ancora più bambine hanno potuto sognarsi future leader politiche seppur donne, seppur nere, seppur figlie di immigrati.

Se guardando Hillary Clinton in TV molte bambine hanno potuto sognarsi come possibili future candidate alla Presidenza degli Stati Uniti seppur donne, guardando Kamala Harris ancora più bambine hanno potuto sognarsi future leader politiche seppur donne, seppur nere, seppur figlie di immigrati.

Federica Merenda

L’intersezionalità della Vice-Presidente Harris – ovvero il sovrapporsi in lei di più dimensioni identitarie che nella società statunitense sono veicolo di discriminazione – ha ampliato il bacino delle sognatrici o ha ampliato, per dirla diversamente, l’orizzonte del sognabile per le bambine e le donne che condividono la sua intersezionalità, quindi le dimensioni identitarie che ne connotano l’esistenza limitandone le opportunità di affermazione personale: in questo caso il genere, la provenienza, il colore della pelle. Anni prima i cittadini maschi americani neri avevano potuto provare qualcosa di simile con l’elezione di Barack Obama.

La designazione di Kamala Harris, donna, nera, figlia di immigrati, alla vice-presidenza degli Stati Uniti è dunque un fatto politico dall’importanza eccezionale.

È però altrettanto importante – soprattutto in un momento in cui la tenuta democratica della società americana sembra vacillare pericolosamente – ricordare che ciò non si traduce automaticamente in un ampliamento dei diritti e delle opportunità di “ricerca della felicità” per tutte le donne, nere, figlie di immigrati, che vivono negli Stati Uniti.

Questo evento politico di straordinaria importanza, oltre a costituire un segno di speranza in sé, può – e a nostro avviso deve – servire come occasione per un ragionamento che vada oltre la pelle d’oca, e oltre la retorica.

Tale occasione va sfruttata per porsi domande rispetto a cui il discorso della Vice-Presidente Harris, e ancor di più quello di Hillary Clinton, se non accompagnati da considerazioni critiche (anche e soprattutto da parte di chi ne condivide l’entusiasmo) rischiano di essere fuorvianti o del tutto mistificatori, in un momento politico cruciale che, come è evidente, dopo l’era Trump di mistificazioni non può permettersene più.

È proprio vero che l’elezione di Kamala Harris a Vice-Presidente dimostra che gli Stati Uniti sono il paese delle opportunità per chiunque? È proprio vero che tutte le bambine possono diventare Hillary Clinton o Kamala Harris se solo si impegnano, dimostrano di essere brave e credono nei propri sogni?

Ancora più provocatoriamente: è proprio vero che una persona che ti assomiglia fisicamente è la più adatta a difendere i tuoi diritti? Una leadership femminile è sempre una leadership femminista? E una leadership femminista può essere un modello emancipatorio anche per gli uomini?

L’emozione del momento non va guardata con sospetto ma semmai vissuta e accolta come punto di partenza per una riflessione non mistificatoriamente astratta ma rivendicatamente incarnata su domande come queste e su questioni come la rappresentanza politica, la leadership, il successo, il privilegio4.

È proprio vero che una persona che ti assomiglia fisicamente è la più adatta a difendere i tuoi diritti? Una leadership femminile è sempre una leadership femminista? E una leadership femminista può essere un modello emancipatorio anche per gli uomini?

FEDERICA MERENDA

La politica della rimozione

È proprio vero che negli Stati Uniti tutte le bambine possono diventare Hillary Clinton o Kamala Harris? Naturalmente no.

La risposta è secca, ma la questione è complessa, ed è una questione politica in senso stretto, in quanto legata alla dialettica tra l’ideologia (per alcuni retorica) del merito e il riconoscimento delle disuguaglianze. È, inoltre, una questione politica in quanto legata a una certa idea di rappresentanza democratica, la cosiddetta identity politics.

Se il democratic party statunitense, nella sua componente più di establishment, fa dei diritti civili una propria bandiera, d’altro canto – coerentemente con la tradizione della sinistra liberal americana – non si espone in maniera altrettanto netta sulla questione delle disuguaglianze socio-economiche, che costituiscono quindi un grande rimosso. Un rimosso che certamente non ha sfavorito Donald Trump nella sua corsa vittoriosa alla Presidenza di quattro anni fa.

E forse è proprio la rimozione il meccanismo-chiave di questa dinamica politica, sia rispetto alla rimozione di genere, di razza e di provenienza – capillarmente presente fino a tempi recentissimi e ancora pervasiva – che ha generato la necessità di identificazione alla base della identity politics del partito democratico odierno, sia rispetto al grande rimosso delle disuguaglianze, che perlopiù ancora permane nella retorica politica americana. Partiamo da quest’ultimo.

Rimozione n.1: le disuguaglianze socioeconomiche

Il mito del “sogno americano”, che può a tutti gli effetti essere considerato un mito fondativo della cultura statunitense dal forte portato identitario – nel senso che costituisce una componente sostanziale dell’identità americana – nella più soft tra le versioni ignora completamente la questione delle disuguaglianze, nella più hardcore (che ci sembra anche la più diffusa) le legittima.

Il meccanismo, che non riguarda solo la società americana, è spiegato bene da Chiara Volpato nel suo libro su Le radici psicologiche della disuguaglianza. Sebbene all’incirca dagli anni Ottanta nelle democrazie occidentali le disuguaglianze socioeconomiche abbiano (ri)cominciato a crescere in modo vertiginoso, le ricerche della psicologia sociale mostrano come la diffusione di certi paradigmi che giustificano lo status quo costituisca una possibile risposta alla domanda perché non ci ribelliamo?

Sebbene all’incirca dagli anni Ottanta nelle democrazie occidentali le disuguaglianze socioeconomiche abbiano (ri)cominciato a crescere in modo vertiginoso, le ricerche della psicologia sociale mostrano come la diffusione di certi paradigmi che giustificano lo status quo costituisca una possibile risposta alla domanda perché non ci ribelliamo?

FEDERICA MERENDA

Nelle parole di Chiara Volpato, “nel mondo contemporaneo i dominanti si avvalgono dell’ideologia meritocratica, che sostiene e cementa la disparità, basandosi sul dogma secondo il quale è giusto che chi ha talento e si impegna ottenga più degli altri. Tale ideologia oscura però le profonde differenze nei capitali di partenza, finendo così per divenire un mezzo privilegiato di legittimazione e giustificazione delle disuguaglianze”5.

È grottesco che le disuguaglianze socioeconomiche, oltre che dalla corrente anti-establishment del Partito democratico, siano state – in un modo del tutto pretestuoso e funzionale ad esacerbare l’odio razziale – introdotte nell’agenda del dibattito politico statunitense delle ultime campagne elettorali presidenziali da un miliardario come Donald Trump, che ha costruito parte del consenso che lo ha portato a diventare Presidente sulle frustrazioni economiche della lower-middle-class bianca in declino.

Le disuguaglianze socioeconomiche sono il grande rimosso della “sinistra” americana e non vengono pertanto menzionate nei discorsi di Hillary Clinton e Kamala Harris, che presentano la loro leadership come la testimonianza di un’opportunità ora alla portata di tutte le bambine.

Il discrimine tra chi ce la fa e chi non ce la fa rischia così di diventare la forza con cui si crede ai propri sogni e la caparbietà con cui li si persegue, come ci ricorda praticamente tutta la cinematografia americana degli ultimi decenni.

Il pericolo si cela nell’idea che “se ce l’ho fatta io ce la possono fare tutte” da cui consegue che “se non ce la fai, evidentemente non te lo meriti”.

Questi paralogismi sono fondati su una rimozione che in verità è duplice.

Da un lato, come dicevamo, rimuovono le disuguaglianze socio-economiche. Che “ce la faccia” una donna nata in una famiglia facoltosa e laureatasi in una costosissima università della Ivy league non vuol dire di certo che ce la possano fare tutte le donne. E il sistema statunitense di borse di studio accademiche potrebbe essere invocato come contro-argomentazione solo se coinvolgesse una percentuale estremamente più rilevante della popolazione studentesca rispetto a quella attuale, formata da pochi eccellenti ma anche fortunatissimi individui.

Dall’altro, questi paralogismi rimuovono la stessa disuguaglianza di genere, in quanto misconoscono le dimensioni strutturali di discriminazione contro le donne e contro le altre soggettività che non si riconoscono nel modello del maschile eterosessuale, diversamente presenti nelle società patriarcali di tutto il mondo. È la cosiddetta sindrome dell’ape regina, che rischia di rendere la presenza delle pochissime donne che con una grande fortuna e immensi sacrifici riescono ad arrivare ai vertici della sfera pubblica una mera operazione di pinkwashing o un ulteriore strumento retorico di oppressione. Dalla volontà di fare i conti con queste rimozioni nasce l’anima “socialista” del Partito democratico rappresentata dalla corrente di Bernie Sanders e incarnata da figure politiche come Alexandria Ocasio-Cortez e The Squad, un gruppo di deputate della left-wing del partito donne, giovani, non bianche, elette nel 2018: oltre alla stessa Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Rashida Tlaib. Quest’anima adesso esiste ma non è certamente (ancora?) egemone, sebbene sembrerebbe si stia già preparando una campagna presidenziale Ocasio-Cortez 2024.

Il pericolo si cela nell’idea che “se ce l’ho fatta io ce la possono fare tutte” da cui consegue che “se non ce la fai, evidentemente non te lo meriti”.

FEDERICA MERENDA

Rimozione n. 2: le identità plurali

Si può dunque liquidare l’emergere di leader donna con caratteristiche prima del tutto inesistenti in un mondo che ci ha abituato a vertici maschi bianchi eterosessuali (e ricchi) come una mera operazione retorica di cui potremmo fare a meno? Naturalmente no.

La pelle d’oca che tante e tanti di noi hanno provato nel sentire il discorso di Kamala Harris e nel vederla, con il suo corpo di donna e la sua pelle scura, sul podio dei vincitori dell’ultima competizione elettorale statunitense è l’effetto del fatto che quel discorso e quell’immagine rispondono ad una precisa esigenza di riconoscimento che viene soddisfatta oggi per la prima volta.

Anche in questo caso, tale insoddisfazione nasce da una rimozione a cui si è associato per diverso tempo un ventriloquismo, anche nella politica e in una certa riflessione femminista.

Laddove i rappresentanti politici e i vertici della società civile corrispondono ad un modello dalle caratteristiche omogenee, è evidente che non si può parlare di uguaglianza di opportunità e che qualunque pretesa di neutralità serve solo a celare una realtà di dominio e oppressione talmente cristallizzata da essere normalizzata e irriconoscibile agli stessi soggetti che di tale dominio e oppressione scontano le conseguenze.

Richiamando i termini introdotti da Miranda Fricker nel suo Epistemic Injustice, potremmo dire che si tratta di un problema di ingiustizia epistemica ermeneutica dei più radicali: il paradigma ideologico che giustifica l’oppressione è talmente pervasivo che gli (le) oppress* lo hanno internalizzato al punto da non vederlo più.

Se da tutta la vita hai sempre visto persone così diverse da te in posizioni di potere, naturalmente (e anche solo inconsciamente) sei abituata a pensare che a quel potere non potrai mai accedere, ossia che non hai le caratteristiche necessarie ad ottenerlo o ad esercitarlo. E che coloro che lo hanno ottenuto e lo esercitano sono una razza a parte e di certo diversa dalla tua. E che, magari, loro a differenza tua se lo meritano quel potere e sono quindi, in fondo, antropologicamente superiori rispetto a te.

Se sei una donna nera e figlia di immigrati, come tantissime donne statunitensi, vedere Kamala Harris diventare Vice-Presidente degli Stati Uniti giustamente ti emoziona. Ti priva della sensazione di essere invisibile e di pensare che il potere sia una faccenda che riguarda necessariamente altri, diversi da te. In questo senso l’importanza di questa esperienza politica non va assolutamente sminuita.

Se sei una donna nera e figlia di immigrati, come tantissime donne statunitensi, vedere Kamala Harris diventare Vice-Presidente degli Stati Uniti giustamente ti emoziona. Ti priva della sensazione di essere invisibile e di pensare che il potere sia una faccenda che riguarda necessariamente altri, diversi da te.

FEDERICA MERENDA

Come accennavamo, il paradigma dell’intersezionalità ci insegna che ciascun* di noi è formato da dimensioni identitarie multiple e che questo per alcun* è causa di una sovrapposizione di vulnerabilità: se sono una donna nera non sarò discriminata solo in quanto donna, ma anche in quanto nera, e non mi basterà vedere Hillary Clinton come candidata alla presidenza per sentirmi meno invisibile. Ci vuole Kamala Harris, ci vuole Alexandria Ocasio Cortez.

Il rischio di non renderci conto di non potere parlare per altri e per altre è tanto più alto per chi almeno una dimensione di vulnerabilità particolare la condivide. Se sono una donna bianca eterosessuale ricca, e vengo discriminata in quanto donna, posso pensare di poter parlare a nome di tutte le donne discriminate. Concentrandomi sulla mia dimensione di vulnerabilità rischio però di non rendermi conto delle dimensioni di privilegio che parimenti costituiscono la mia identità e che mi risparmiano ulteriori discriminazioni.

Questa critica è stata mossa anche al femminismo liberale occidentale che ha faticato a rendersi conto di non poter parlare a nome di tutte le donne del mondo. Questo tipo di femminismo è stato inoltre accusato di ventriloquismo nel momento in cui ha adottato un atteggiamento paternalista nei confronti di donne di culture non occidentali, considerate come vittime da salvare e non come soggetti e possibili agenti di cambiamento e autodeterminazione. Su questo tema sono particolarmente dirompenti le riflessioni di Gayatri Chakravorty Spivak e Kimberlé Williams Crenshaw (a quest’ultima dobbiamo il concetto di intersezionalità).

Come nota Amy Chua nel suo ultimo libro Political Tribes, portare però all’estremo la pretesa di rappresentazione delle identità, scomponendole e frammentandole, può rendere la identity politics da vettore di inclusione a fattore di divisione sociale e rischia di trasformare la rappresentanza politica in tribalismo. Che fare dunque?

Contro le rimozioni, contro le disuguaglianze

Se l’emergere di leader come Kamala Harris rappresenta un bellissimo segno di speranza ma la identity politics non costituisce una risposta sufficiente né del tutto adeguata alla necessità di una società più giusta ed inclusiva, cosa può servire contro le rimozioni?

Un modello di leadership femminista e non (solo) femminile

Come scrive bene Michela Murgia in un articolo su Robinson “avere successo e basta non è femminista. Femminista è usare quel successo per rendere possibile anche ad altre donne il superamento degli ostacoli sessisti che impediscono loro di essere riconosciute e valorizzate. Se serve solo a te, non è femminismo”.

Una volta raggiunto il potere, questo costituisce una dimensione di privilegio, che in un’ottica femminista ed emancipatoria va sfruttata per cambiare le regole del gioco portando avanti nuovi paradigmi di gestione del potere, ad esempio proponendo modelli di leadership orizzontale e iniziative collettive (sembrerebbe vada in questa direzione il progetto politico di The Squad) e ampliando le opportunità di partecipazione al gioco stesso per chi ne rimane normalmente esclusa.

Se la leadership della Vice-Presidente Harris sarà una leadership femminista o solo una leadership femminile lo capiremo dunque dalle politiche concrete che porterà avanti, dalle strade che aprirà per altre donne durante il suo mandato e dal modello di leadership che incarnerà in prima persona.

Se l’emergere di leader come Kamala Harris rappresenta un bellissimo segno di speranza ma la identity politics non costituisce una risposta sufficiente né del tutto adeguata alla necessità di una società più giusta ed inclusiva, cosa può servire contro le rimozioni?

FEDERICA MERENDA

Un ritorno alle ideologie e al conflitto politico

La presenza diffusa in posizioni chiave di soggetti che hanno in sé dimensioni identitarie considerate vulnerabili, discriminate, oppresse o rimosse è fondamentale.

Ad ogni modo, se l’azione politica muove sempre da una posizione incarnata, ciò non vuol dire che questa si esaurisca nel corpo: con la sua enfasi sulle caratteristiche fisiche, la identity politics rischia di rimuovere anche il discorso sulle idee, ed il focus sul confronto tra visioni del mondo differenti che ispirano personaggi politici pur simili dal punto di vista identitario, in questo modo alimentando il mito del post-ideologico.

Ma se il superamento delle ideologie, con tanta forza portato avanti da forze populiste anche di casa nostra, fosse appunto solo un mito e ci trovassimo piuttosto nella situazione che Donatella Di Cesare descrive come “immanenza satura” di un presente e di una ideologia (per Di Cesare, il neoliberalismo) che – essendo onnipresente e indiscutibile – diviene invisibile e si presenta come neutrale?

Nell’evocare il conflitto politico utilizziamo questo termine in senso arendtiano, cioè come tutto il contrario della violenza: la violenza totale non ammette conflitto perché non permette l’esistenza di un contraddittorio. Dove c’è violenza non ci può essere dialogo e confronto appassionato tra visioni differenti del mondo, ma solo silenzio o tuttalpiù parole che costruiscono muri e non ponti tra chi la pensa diversamente.

Un conflitto politico che sia invece confronto di visioni del mondo partigiane, in quanto orientate a certi valori e non ad altri, potrebbe essere utile (necessario) ad una messa in discussione autentica di un modello sociale e politico non neutrale ma che innegabilmente continua a mostrarsi biased e fondato sulle disuguaglianze e sulla loro rimozione.

Dove c’è violenza non ci può essere dialogo e confronto appassionato tra visioni differenti del mondo, ma solo silenzio o tuttalpiù parole che costruiscono muri e non ponti tra chi la pensa diversamente.

FEDERICA MERENDA

E se non sono una donna? Un po’ di immaginazione

E chi fa parte di gruppi sociali privilegiati cosa dovrebbe fare? Dobbiamo concludere che lo svantaggio epistemico che gli è causato dal suo essere privilegiato6 è irrimediabile e farebbe quindi meglio ad esimersi dalla partecipazione alla sfera pubblica per lasciare spazio a chi ha identità vulnerabili intersezionali?

Innanzitutto, la riflessione femminista e in modo ancor più radicale il paradigma postumano7 ci insegnano che almeno in una certa misura la vulnerabilità è una dimensione comune a tutti i viventi.

Questo non vuol dire che siamo ugualmente vulnerabili, ma che abbiamo tutt* in comune almeno una dimensione di vulnerabilità in quanto esseri mortali, e il riconoscimento di questa prima radicale vulnerabilità può essere un punto di partenza per riconoscere vulnerabilità aggiuntive – a meno che non puntiamo a creare un ulteriore rimosso, stavolta della malattia e della morte, come in certe prospettive del transumanesimo.

Per il resto, se portando all’estremo la scommessa dell’intersezionalità possiamo concludere con Hannah Arendt che l’umanità è costituita da una pluralità di esseri unici, sempre con lei possiamo contare sul fatto che questa umanità ha una risorsa preziosissima, che la rende appunto pluralità, ovvero qualcosa di diverso da una giustapposizione di soggetti monadici: l’immaginazione.

Senso comune, giudizio, immaginazione, mentalità allargata sono per Arendt strumenti prettamente umani che ci rendono in grado di metterci nei panni degli altri, di figurarci situazioni che non abbiamo vissuto in prima persona e ipotizzarne, almeno in una certa misura, le conseguenze e i contraccolpi psicologici, emotivi e fattuali8. Questi strumenti hanno pertanto una fortissima valenza politica. Ci riferiamo qui a un’immaginazione autentica, che non sia astratto e muto esercizio solipsistico di chi presuntuosamente e arrogantemente presume di poter parlare al posto di altri e altre in virtù di una qualche superiorità gnoseologica, ma il risultato di un incessante e umile dialogo, incarnato e continuo con l’altr*, da parte di chi dall’altr* si lascia mettere in discussione e ri-definire, da una prospettiva acroamatica9.

Un’immaginazione che, oltre dal dialogo reale con altri esseri, può venire esercitata dal dialogo immaginato, così complementando – e non sostituendo – il paradigma dell’intersezionalità incarnata.

Ci riferiamo qui a un’immaginazione autentica, che non sia astratto e muto esercizio solipsistico di chi presuntuosamente e arrogantemente presume di poter parlare al posto di altri e altre in virtù di una qualche superiorità gnoseologica, ma il risultato di un incessante e umile dialogo, incarnato e continuo con l’altr*, da parte di chi dall’altr* si lascia mettere in discussione e ri-definire, da una prospettiva acroamatica.

FEDERICA MERENDA

Richiamando una suggestione di Chiara Valerio, non abbiamo bisogno che certi fatti accadano a noi in prima persona o a nostro cugino per credere che possano accadere. Basterebbe un po’ di immaginazione ben allenata.

Grazie alla facoltà dell’immaginazione, per metterci nei panni di altr* possiamo attingere, oltre che al dialogo con persone che fanno parte della nostra vita, alle storie di personaggi che troviamo nei libri, oltre che alle tante storie che testimoniano le violenze e discriminazioni di cui sono vittime i gruppi sociali più marginalizzati, che troviamo ogni giorno sui giornali. Leggere comanda e, come scriveva Umberto Eco, chi legge vive mille vite e cinquemila anni anziché settanta: la lettura è un’immortalità all’indietro.

In ciò possiamo identificare un importantissimo ruolo politico della narrazione (giornalistica o letteraria): nella costruzione del senso comune, nell’esercizio dell’immaginazione e della mentalità allargata di cui parlava Arendt e così indirettamente nella costruzione di società più inclusive come risultato di uno sforzo congiunto di esseri umani unici, diversi tra loro ma capaci di comprendersi e quindi di creare un mondo comune in cui tutt* possano sentirsi a casa. Arendt direbbe che è questo il vero potere.

Note
  1. Stando ai fatti verrebbe da usare termini come terroristi o golpisti, ma molte testate italiane hanno invece preferito “fan” per descrivere chi con la violenza ha assaltato il luogo simbolo della democrazia americana
  2. Every little girl who is watching this tonight sees that this is a country of possibilities
  3. I know we have still not shattered that highest and hardest glass ceiling, but some day someone will, and hopefully sooner than we think right now” (…) e si era poi rivolta “to all the little girls who are watching this, never doubt hat you are valuable and powerful, and deserving every chance and opportunity in the world to pursue and achieve your own dreams”.
  4. Questo articolo è stato pensato prima dei fatti di Capitol Hill del 7 gennaio 2021. Tali vicende, a nostro avviso rendono semmai la necessità di uno sguardo critico sulla democrazia e la politica – americana in particolare e occidentale in generale, rispetto agli elementi che ci riguardano similmente – ancora più visibilmente importante e urgente.
  5. Disuguaglianze e risentimento: un intreccio pericoloso, in “Straniero”, AREL Rivista.
  6. José Medina, The Epistemology of Resistance: Gender and Racial Oppression, Epistemic Injustice, and the Social Imagination
  7. Francesca Ferrando, Il postumanesimo filosofico e le sue alterità.
  8. Si veda in particolare Hannah Arendt, La vita della mente e Vita activa. La condizione umana
  9. Barbara Henry, Gender Sensitivity, Asymmetries, ‘Acroamatic Turn’. A Renewed Approach to Some ‘Gendered’ Methodologies