Mai come in questi tempi angosciosi – mesi, ormai – in cui la guerra è tornata nelle terre d’Europa, la riflessione di Paul Valéry sulla crisi del Pensiero mi è parsa di così intuitiva ed immediata comprensione. Com’è possibile, si chiede Valéry, che tanta scienza e tanta conoscenza permettano – nel duplice senso di “non impediscano” e “rendano possibile” – una tale distruzione? Credevamo di essere giunti al culmine del progresso scientifico e spirituale, e scopriamo di poter prontamente ricadere nel più ancestrale e barbaro dei delitti, la lotta fratricida e distruttiva. 1 Il poeta “puro” Valéry, che aveva dedicato gli anni del primo conflitto mondiale alla stesura del raffinatissimo poema della Jeune Parque 2, e per il quale l’autonomia dell’arte resta un presupposto essenziale – sulla teoria estetica valéryana si veda il Cours de poétique finalmente pubblicato 3 – ritiene ineluttabile, all’indomani della guerra, provare ad articolare una riflessione sulla drammatica attualità che gli è contemporanea.
Nella primavera del 1919, quando Valéry scrive “La Crise de l’esprit”, la guerra è finita da pochi mesi, e ha lasciato in eredità distruzione e sconforto tra i vinti come tra i vincitori. L’articolo, pubblicato dapprima in inglese sulla rivista londinese The Athenaeum (e solo successivamente, nell’estate, in francese sulle pagine della Nouvelle Revue française) 4, vale a Valéry un’improvvisa e notevole celebrità internazionale: da subito il testo si impone come un riferimento puntuale, quasi obbligato, nel vasto dibattito pubblico e intellettuale sullo stato e i destini del continente. Due sono le intuizioni fondamentali cui Valéry dà forma nel suo articolo. La prima: per gli Europei si è fatta tutt’a un tratto concepibile, pensabile, la morte d’Europa. L’avanzatissima civiltà europea scopre di colpo di poter non essere immune dal destino che ha colpito prima altre grandi civiltà scomparse, e di potersi ridurre ad un “bel nome vago” come quelli che figurano sui libri ad evocare le civiltà inghiottite dalla storia (come Elam, Ninive e Babilonia); l’incipit dell’articolo (“Nous autres, civilisations, nous savons maintenant que nous sommes mortelles”) 5 indugia precisamente su tale vertiginoso corto circuito temporale, che non manca di avere qualche tratto in comune con le visioni cicliche della storia espresse dal tedesco Oswald Spengler in un’altra fortunatissima diagnosi della crisi d’Europa di quegli anni, Il tramonto dell’Occidente. La seconda intuizione: la posta in gioco per gli Europei è niente meno che conservare la propria umanità, evitando di regredire verso una società animale (“Une certaine confusion règne encore, mais encore un peu de temps et tout s’éclaircira ; nous verrons enfin apparaître le miracle d’une société animale, une parfaite et définitive fourmilière”). Valéry non è solo nell’evocare in questo primo dopoguerra il “pericolo-formicaio”: con lui, anche Thomas Mann, Benedetto Croce, José Ortega y Gasset e molti altri rivolgono ai loro contemporanei insistenti ed allarmati moniti sul rischio di precipitare in una società animale, ovvero dis-umana.
A differenza di quanto possa parere agli occhi di un eventuale lettore superficiale di oggi, o di quanto non sia effettivamente parso ad alcuni lettori anche illustri di ieri, tra cui Jean-Paul Sartre e Julien Benda 6, Valéry non formula a proposito dell’Europa e della sua crisi considerazioni astratte e generiche, volte a difendere un’Europa a priori positivamente connotata. Se la “Crise de l’esprit” divenne, all’epoca in cui fu pubblicato, un testo così celebre, è precisamente perché conteneva riflessioni tutt’altro che ovvie.
Anzitutto, l’ideale europeo di Valéry, a differenza di altri a lui contemporanei, non nasce né si inscrive nell’alveo del pacifismo o dell’internazionalismo. Si tratta certo di un’Europa pacifica, in pace, ovvero che si dà la pace come obiettivo, ma che evita di abbracciare il pacifismo come ideologia. Nei pur numerosi scritti europeisti di Valéry, il lessema “pace” (e affini) è sorprendentemente raro; e le posizioni pro-europee su cui Valéry si attesta dopo la prima guerra mondiale sono in verità meno da imputare ad un pacifismo provocato dalla guerra – secondo una vulgata abbastanza diffusa negli studi valéryani – quanto, piuttosto, da collegare alla riflessione avviata da Valéry già negli ultimissimi anni del XIX secolo sulle trasformazioni che investono l’Europa e il suo ruolo globale dopo i conflitti sino-giapponese e ispano americano del 1898-1899 – questioni internazionali a cui Valéry dedica in effetti in quegli anni più attenzione di quanta non rivolga ad un altro evento pur cruciale, l’affaire Dreyfus. 7 La riflessione di Valéry prende in altri termini coraggiosamente in considerazione il problema degli equilibri/squilibri mondiali al di là di un pacifismo aprioristico che a lui pare ingenuo ed idealista, eccessivamente ottimista e dimentico delle complessità del reale – questo è il rimprovero che una parte considerevole dell’intellighenzia francese e non solo (da André Gide a E. R. Curtius, da Jules Romains a Albert Thibaudet) rivolge a Romain Rolland e al suo manifesto contro la guerra “Au-dessus de la mêlée”, secondo loro indulgente ad una certa “facilità” di pensiero. 8
Una delle difficoltà europee che Valéry medita più attentamente è l’esistenza delle nazioni: unità minime preziose, indispensabili, della collettività europea, e al tempo stesso potenzialmente nocive, capaci di generare la guerra e negare l’indispensabile unità di ordine superiore. L’Europa di Valéry – e qui si precisa una seconda caratteristica dell’europeismo di Valéry – è un’Europa che non prescinde dalle nazioni, come vorrebbe invece sia l’internazionalismo di matrice socialista e cattolica, sia l’europeismo ad esempio di Julien Benda, il quale nel suo Discours à la nation européenne ritiene che il male dell’Europa siano, anzitutto, le passioni nazionali, da abolire al più presto. 9 Per Valéry la nazione, nella sua accezione liberale ottocentesca illustrata in particolare da Renan, 10 è un tappa irrinunciabile interposta tra l’individuo e la comunità; più che un insieme definibile attraverso i criteri di lingua, razza, tradizioni, è il luogo di condivisione di un progetto comune, e deve essere disgiunta da quel suo velenoso prodotto che è il nazionalismo intollerante. 11 Valéry pensa ad un concerto delle nazioni europee all’interno di un comune progetto di vita, conformemente ai principi dell’internazionalismo liberale della Società delle Nazioni alle cui attività partecipa così attivamente durante tutti gli anni trenta.
Certo l’Europa liberale non è agli occhi di Valéry immune da acutissimi problemi sociali e spirituali, prima ancora che politici. La “Crise de l’esprit” è in effetti una lunga meditazione sulla crisi dell’Europa liberale e democratica consegnata al nuovo secolo dal tardo Ottocento. Valéry, come molti altri della sua generazione, non può non fare i conti con i limiti di una libertà che, pur essenziale e preziosa, aveva finito da un lato col generare eccessi incontrollati – l’individualismo ipertrofico, un tipo di libertà molto prossimo alla licenza, un disordine anarchico e infruttuoso descritto da Valéry come un forno incandescente nel quale non si distingue nulla, un “niente infinitamente ricco” 12 – e da un altro lato col perdere la propria centralità e prestigio agli occhi di molti contemporanei – Jacques Rivière in un suo articolo sempre del 1919 osserva amaramente come molti non sappiano ormai più che farsene della libertà per cui avevano pur duramente combattuto durante la guerra, preferendole ideali di vita collettiva e sociale. 13
Di fronte alle soluzioni proposte per i problemi dell’Europa liberale e democratica dalle ideologie collettiviste, dai movimenti di massa, dai totalitarismi illiberali di vario orientamento politico, lo sforzo di Valéry come di altri è quello di mettere in salvo valori e principi considerati irrinunciabili. La libertà anzitutto, ovviamente: ma quale tipo esattamente di libertà?
La riflessione sulla libertà di Valéry si configura anzitutto come una riflessione sulla diversità, e anzi sull’ineguaglianza: contro le tentazioni livellatrici, Valéry vuole salvaguardare l’ineguaglianza come valore. Non perché egli desideri una società diseguale e ingiusta, ma perché vuole vivere in una società che riconosca il valore (dei prodotti, delle persone, delle idee), e si modelli attorno ad esso. Un lungo passaggio è dedicato, nella “Crise de l’esprit”, a descrivere il Pensiero come forza che garantisce l’ineguaglianza produttiva: che cioè accentua la varietà, che movimenta l’ordine dato, che scompiglia e, muovendo, crea valore. 14 Per Valéry come per altri (tra cui Thomas Mann e in particolare Ortega y Gasset), il problema è rintracciare le condizioni perché nella società democratica sia possibile l’instaurazione di forme libere del vivere.
Per inciso, è in questo quadro concettuale che vanno interpretate le controverse osservazioni di Valéry sulla deminutio capitis dell’Europa. Il problema per Valéry non è tanto che l’Europa stia perdendo la sua supremazia, quanto il sostanziale cambio di paradigma che egli ritiene si stia verificando nel mondo a lui contemporaneo: dal dominio del Pensiero e del suo valore differenziale, si sta passando al sopravvento della logica brutalmente numerica, della forza dei numeri e delle maggioranze (in base alla quale l’Europa è destinata a diventare ciò che in effetti è, ovvero un “piccolo promontorio dell’Asia”). Valéry, da buon antimoderno, vede la libertà come ideale liberale, minacciata dalla libertà come ideale democratico: il che non significa che egli sia ostile alla democrazia, ma piuttosto che si interroga su come salvaguardare, nelle democrazie, il prezioso e irrinunciabile plusvalore offerto dall’originalità individuale. Solo la varietà e la molteplicità che caratterizzano una società libera e dunque accogliente e plurale, consentono infatti ai suoi occhi il libero e imprevedibile sviluppo individuale – Valéry lo spiega quando si esprime sul Mediterraneo, che per lui è per eccellenza il luogo del mélange e della coesistenza, della plurivocità storica e culturale. 15
Il liberalismo a cui Valéry si richiama è ad ogni modo un liberalesimo di marca spirituale, piuttosto che politico-economica: ovvero una condotta mentale e comportamentale improntata all’apertura all’altro, alla tolleranza, al dialogo, antidoto all’illiberale e alla conflittualità come habitus mentali e comportamentali all’origine delle storture storico-politiche del continente. Si tratta di ritrovare l’afflato originario, costitutivo, del liberalismo filosofico al di là delle incarnazioni storiche deludenti del secondo ottocento; e soprattutto di ricordare che lo spirituale, l’ideale, deve informare il reale, guidare e orientare la vita quotidiana della polis.
L’uomo infatti secondo Valéry si caratterizza e si distingue dall’animale anzitutto per i suoi sogni, a cui è dedicato un lungo passaggio della “Note”, una aggiunta alla “Crise de l’esprit” del 1922. Come anche nella “Petite lettre sur les mythes” (1928), Valéry si sofferma già qui a considerare le trasformazioni che l’uomo imprime al reale, e che nascono dalla tensione irrinunciabile tra ciò che è e ciò che non è, tra soddisfacimento dei bisogni e insoddisfazione inesauribile, tra reale e possibile, tra fattuale e immaginario. Se il Pensiero occupa un posto così rilevante in Valéry, e nella sua meditazione sull’Europa, è perché esso è soprattutto lo “strumento di ciò che non è”, l’“autore dei sogni” che l’uomo deve scegliersi. 16 Valéry, per ciò che attiene al dibattito sull’idea di Europa, diviene del resto celebre negli anni trenta per aver coniato in seno ai lavori della Società delle nazioni, il motto “La Société des Nations suppose une Société des esprits”. Si tratta di una formula espressa la prima volta nel 1931 17, e con la quale Valéry tenta di mettere in valore il ruolo e l’imprescindibilità di una cooperazione intellettuale appunto che deve precedere quella politica ed economica, giacché costituisce l’unica base solida per la costruzione di un’Europa unita, raccolta attorno ad un progetto culturale comune, prima ancora che all’eredità di un passato, o a progetti di natura industriale, economica e istituzionale. Essa rivendica assieme al primato della cultura, l’importanza di una riflessione sul tipo di uomo ideale che deve fissare gli obiettivi e informare le azioni e le scelte quotidiane, politiche e di ogni altro ordine.
Tale accento sulla dimensione ideale non liquida tuttavia mai sbrigativamente il reale: l’idealismo di Valéry è profondamente realista, non si sottrae alla complessità del vero, cercando piuttosto di rifuggire le posizioni astrattamente utopiche, come abbiamo segnalato a proposito ad esempio del pacifismo.
Su cosa concentrare dunque i propri sforzi, concretamente, per dare corso a questo idealismo realista? Valéry non ha dubbi: sullo stile, anzitutto. La sua riflessione sull’Europa è anche e soprattutto una lezione di stile. Abbiamo già rapidamente evocato il noto libro di Spengler Il tramonto dell’Occidente che negli stessi anni 1918-1922 sviluppa una diagnosi sulla morte della civiltà europea non troppo diversa contenutisticamente da quella di Valéry, perché costruita attorno a quattro elementi essenziali: l’antropomorfizzazione delle civiltà, la concezione ciclica della storia, il parallelo con le civiltà antiche, e il pessimismo storico. Valéry non poteva aver letto il testo di Spengler, tradotto in francese solo nel 1931-33 18; il discorso di Valéry ad ogni modo si discosta profondamente da quello di Spengler rispetto ai toni, oltre che rispetto ai significati finali.
Spengler abusa di antitesi nette e perentorie, all’interno di una prosa dove non trova posto ciò che il filosofo tedesco Bertrand Groethuysen, in un articolo dedicato proprio a Spengler, definisce « l’art qui consiste à nuancer la pensée pour conserver ses teintes intermédiaires » e « les degrés de certitude et de doute, par lesquels passe l’esprit lorsqu’il cherche la vérité ». 19 Spengler procederebbe con « pas solide et toujours assuré », facendo a meno dei « modestes auxiliaires des idées » che sono « les mais, les si, les toutefois, les peut-être », considerati da Groethuysen « d’humbles prières adressées à l’infini d’une vérité qu’on ne saisira jamais ». E tra le « formes dubitatives et courtoises de la pensée » trascurate da Spengler, Groethuysen annovera in particolare il paradosso, « expression nécessaire d’une époque de fermentation, et qui rend la pensée vive et flexible ». L’articolo di Valéry costituisce invece precisamente un lungo sviluppo paradossale sui nodi problematici e contraddittori della civiltà europea. Con tono prevalentemente dubitativo ed interrogativo, benché non manchi di ricorrere anche a frasi incisive o argomentative, Valéry tenta soprattutto di dare corso ad un pensiero che contempli i luoghi di incertezza, le mancanze, le insidie. Se Spengler si sforza di dimostrare l’inevitabilità di un destino, e propone una lettura profondamente determinista, Valéry, molto diversamente, intende con le sue osservazioni sulla morte delle civiltà mettere in discussione le certezze acquisite per sollecitare una meditazione sui pericoli che la civiltà europea corre, e per rilanciare la vita dell’esprit. Laddove la diagnosi di Spengler prende la forma di una profezia violentemente polemica e a tratti euforica, che si confonde con l’auspicio per la scomparsa di una civiltà considerata decadente e irrecuperabile, quella di Valéry coincide piuttosto con un monito accorato e un richiamo all’azione, perché alla crisi si possa reagire salvando ciò che può e deve essere salvaguardato.
Anche gli intellettuali, gli uomini di lettere, sono per Valéry tutt’altro che immuni dall’esprit de guerre: egli lo ricorda a coloro che gli rimproverano un tipo di engagement non sufficientemente politico, diretto, spiegando che per lui la missione dell’uomo di lettere è, molto diversamente, quella di contenere e ridurre l’antagonismo, la conflittualità, che sono in effetti, come sostiene Schmitt, profondamente connaturati all’uomo e alla vita sociale, ma che ci dobbiamo sforzare di superare con tutte le forze culturali e intellettuali di cui disponiamo. 20 C’è bisogno di scambio, di conversazione, di forme e toni dialogici: questa è la certezza che Valéry va ripetendo ai suoi confratelli impegnati nelle attività di cooperazione intellettuale e talvolta sconfortati dagli esiti apparentemente nulli dei loro sforzi, sentimento a cui oppone con una certa tenacia l’idea che sia importante provare, nonostante tutto, ad essere in primo luogo uomini in dialogo, che non rinunciano alla conversazione e alle buone maniere. Così egli si sforza anche di dare corso ad una parola politica non pamphlettistica, ovvero non improntata alla polemica e alla violenza verbale, creando in particolare per la Società delle nazioni una collana di Corrispondenza pubblica di scrittori, dove le più grandi personalità letterarie europee e non dell’epoca possano pubblicare scambi epistolari pubblico-privati sui temi di attualità, rivivificando lo strumento di comunicazione e dialogo della gloriosa Repubblica delle lettere dei secoli XVI-XVIII. 21
E lo stile di Valéry scrittore politico è, coerentemente con tutto ciò, neutro, mai polemico, anche quando pronuncia pensieri profondamente controcorrente rispetto ai tempi, financo provocatori. Non una marca stilistica di violenza o aggressività verbale è rintracciabile ad esempio nella pur provocatoria risposta che Valéry indirizza all’Académie méditerranéenne di Louis Bertand, un latinista filo-maurrassiano, quando rifiuta di partecipare ad un loro convegno, e riafferma il valore del Mediterraneo come luogo di incontro di culture, di contro alla visione imperialista dei filo-fascisti 22; non una nota dissonante e polemica figura nel discorso di commemorazione per Henri Bergson, che pure fu in sé un atto di grande coraggio intellettuale nella Francia occupata del 1941 che aveva lasciato morire in solitudine il filosofo ebreo. 23 Per questo oggi, leggendo Valéry, dobbiamo fare attenzione a non prendere i suoi toni misurati per contenuti conformistici e vaghi; ed al contrario accettare di tornare sui numerosi interrogativi, tutt’oggi d’attualità, che nei suoi testi trovano formulazioni al tempo stesso nitide e plurivoche, letterariamente conchiuse e contenutisticamente aperte.
Note
- P. Valéry, « La Crise de l’esprit » [1919], dans Id., Œuvres, édition, présentation et notes de M. Jarrety, I, Paris, Librairie Générale Française (La Pochothèque), 2016, 695-710.
- P. Valéry, La Jeune Parque, ibid., 381-420.
- P. Valéry, Cours de poétique, édition de W. Marx, 2 t., Paris, Gallimard, 2023
- P. Valéry, “The Spiritual Crisis”, The Athenaeum, 11 April 1919; Id., “The Intellectual Crisis”, ibid., 2 May 1919; poi nella Nouvelle revue française, août 1919.
- P. Valéry, « La Crise de l’esprit » cit., 696.
- Cfr. Guy de Pourtalès, « Après le désastre », Journal de Genève, 28 juillet 1940
- Cfr. P. Valéry, “Maginalia de la guerre actuelle” (1898), in Id., L’Europe et l’Esprit. Écrits politiques 1896-1945, édition établie et présentée par P. Cattani, Paris, Gallimard, 2020, 43.
- A. Thibaudet, Réflexions sur la politique, édition établie par A. Compagnon, Paris, Laffont, 2007, 270 : « L’ennemi intérieur de Clérambault, l’ennemi intérieur de M. Rolland, et, je crois, l’ennemi intérieur de nous tous en tant que nous sommes, nationalistes ou internationalistes […] Nous avons une tendance à croire que penser consiste à rouler sur une pente, à s’y sentir voluptueusement rouler, au lieu que penser consiste au contraire à remonter une pente, à découvrir des complexités et des difficultés ».
- J. Benda, Discours à la nation européenne, Paris, Gallimard, 1933.
- E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation? et autres écrits politiques, Paris, Impr. nationale éd., 1995.
- Cfr. P. Valéry, “Réflexion” (1927), in L’Europe et l’Esprit cit., 59-61; cfr. anche le “Notes sur la politique de toutes dates”, BNF, N.a.fr. 19081, f. 136: « Polit[ique]. Les nations sont des fabrications artificielles et accidentelles. Ce qui engendre l’idée de les maintenir ou accroître par accidents. Traités, échanges, guerre. Cette idée est le nationalisme. Virement du sentiment. Contre ceci, le fonctionnement naturel qui est humain, individuel » ; ou encore f. 421 : « […] Si l’on essaie de définir Nation, on trouve frontière ; et frontière, on trouve le fait – l’accident – et ses « justifications » dans les temps modernes. Combinaison de tous les facteurs hétéroclites », e f. 502: « Nations sont systèmes de formation « historique » – c’est-à-dire accidentelle – comme en géologie. Il en est d’heureusement formées comme les paysages : mais ce n’en sont pas moins des accidents ».
- P. Valéry, « La Crise de l’esprit » cit., 701
- J. Rivière, “La Décadence de la liberté”, NRF, septembre 1919, ora in Une consience européenne 1916-1924, Paris, Gallimard, 1992, 101-122.
- P. Valéry, « La Crise de l’esprit » cit., 712-713.
- Id., “Le Centre Universitaire Méditerranéen”, in Œuvres, cit., I, 1624-1644, e “Inspirations méditerranéennes”, ibid., II, 437-453
- P. Valéry, « La Crise de l’esprit, Note » [1922], dans Id., Œuvres, cit., I, 712-713 : « L’homme est cet animal séparé, ce bizarre être vivant qui s’est opposé à tous les autres, qui s’élève sur tous les autres, par ses… songes, – par l’intensité, l’enchaînement, par la diversité de ses songes ! par leurs effets extraordinaires et qui vont jusqu’à modifier sa nature, et non seulement sa nature, mais encore la nature même qui l’entoure, qu’il essaye infatigablement de soumettre à ses songes. Je veux dire que l’homme est incessamment et nécessairement opposé à ce qui est par le souci de ce qui n’est pas ! et qu’il enfante laborieusement, ou bien par génie, ce qu’il faut pour donner à ses rêves la puissance et la précision mêmes de la réalité, et, d’autre part, pour imposer à cette réalité des altérations croissantes qui la rapprochent de ses rêves ».
- P. Valéry, “Proposition Valéry-Focillon”, in L’Europe et l’Esprit cit., 112-121.
- O. Spengler, Le Declin de l’Occident, Paris, Gallimard, 1931-33.
- B. Groethuysen, « Lettre d’Allemagne » (1921), in Id., Autres portraits, Paris, Gallimard, 1995, 192.
- P. Valéry a Jean Guéhenno, 5 mars 1932, in Id., Lettres à quelques-uns, Paris, Gallimard, 1952, 199-202.
- Pour une Société des esprits, Correspondance, Lettres de H. Focillon, S. de Madariaga, G. Murray, M. Ozorio de Almeda, A. Reyes, T. Yuan Peï, P. Valéry, Paris, Institut International de Coopération Intellectuelle, 1933; S. Freud et A. Einstein, Pourquoi la guerre ?, Paris, 1933; Correspondance: L’Esprit, l’éthique, la guerre, lettres de J. Bojer, J. Huizinga, A. Huxley, A. Maurois, R. Waelder, Paris, Institut international de coopération intellectuelle, 1934; Civilisations. Orient-Occident, Génie du Nord-Latinité, lettres de H. Focillon, G. Murray, J. Strzygowski, R. Tagore, Paris, 1935.
- P. Valéry, “Note adressée au Congrès de l’Académie méditerranéenne », in L’Europe et l’esprit cit., 219-221.
- P. Valéry, “Henri Bergson”, in Œuvres cit., III, 1201-1207.