Nonostante la persistenza dello scetticismo climatico in alcuni movimenti, oggi c’è un accordo abbastanza ampio sulla necessità di una transizione ecologica per decarbonizzare le nostre economie. Il disaccordo si concentra sulle modalità di questa transizione e sul percorso da seguire per realizzarla. Questa questione non è soltanto tecnica, ma ha anche un’importante dimensione politica che avrà conseguenze rilevanti per il futuro della democrazia. È chiaro, ad esempio, che il capitalismo verde promosso dalle forze neoliberali ha implicazioni decisamente autoritarie, mentre la transizione verso le energie rinnovabili potrebbe creare le condizioni per un modello di sviluppo che garantisca le libertà democratiche e la giustizia sociale.
Vorrei proporre alcune riflessioni su come una politica di sinistra dovrebbe affrontare la transizione ecologica nelle condizioni specifiche in cui si trovano oggi i Paesi europei. Vorrei innanzitutto chiarire cosa intendo per «politica di sinistra». Secondo la mia prospettiva teorica, che fa parte di una concezione «dissociativa» della politica, essa ha sempre a che fare con il conflitto e l’antagonismo. Come ci ha insegnato Machiavelli, la società è divisa e la politica ha un carattere «partigiano» che assume la forma di un’opposizione noi contro loro. Questo vale anche per la democrazia pluralista, la cui specificità non consiste nel negare questa divisione, ma nel riconoscere e legittimare il conflitto e nel rifiutare di imporre un ordine autoritario. Ciò richiede che gli avversari non siano considerati come nemici da distruggere, ma come avversari le cui posizioni saranno combattute, senza però che il loro diritto a difenderle sia messo in discussione. Questo confronto tra avversari corrisponde alla «lotta agonistica» che è la condizione stessa di una democrazia pluralista. Nelle parole di Marcel Mauss, è ciò che permette alle persone di «opporsi senza trucidarsi». Quando questo confronto viene a mancare, le passioni non sfociano più nell’espressione politica, conducendo a un processo di disaffezione dalle istituzioni democratiche o all’emergere di forme di polarizzazione basate su questioni etniche o religiose.
Una democrazia viva non può sopravvivere senza dibattiti sulle alternative politiche. Deve offrire forme di identificazione basate su posizioni democratiche chiaramente differenziate. È questo il ruolo dell’opposizione destra/sinistra che, in una democrazia pluralista, contribuisce a mettere in scena il conflitto proponendo temi capaci di mobilitare le passioni politiche. La lotta tra destra e sinistra non deve essere concepita in modo essenzialista come un conflitto tra identità immutabili o categorie sociologiche determinate, ma come un confronto tra posizioni assiologiche. Norberto Bobbio ha dimostrato che, sebbene il contenuto di queste nozioni vari a seconda dei tempi e delle circostanze, esse sono sempre riferite alla questione dell’uguaglianza, che è un obiettivo centrale per la sinistra, mentre la destra convive le disuguaglianze e le giustifica. Quindi, quando parlo di una politica di sinistra, mi riferisco a una strategia il cui obiettivo sia consolidare ed estendere le lotte per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Collocherò le mie riflessioni nella congiuntura attuale, con i rapporti di forze e le circostanze che la caratterizzano. Per cominciare, esaminerò gli effetti sulla politica democratica delle trasformazioni politiche ed economiche portate dal neoliberismo negli ultimi quarant’anni. Per quanto riguarda l’Europa, queste trasformazioni hanno portato all’erosione di due dei pilastri dell’ideale democratico: l’uguaglianza e la sovranità popolare, creando una situazione spesso descritta come «post-democrazia». Nell’arena politica, ciò che caratterizza la post-democrazia è quella che ho definito «post-politica», che sfuma il confine esistente tra destra e sinistra e celebra il consenso tra i partiti di centro-destra e centro-sinistra come un grande progresso per la democrazia. Affermando che non c’è alternativa alla globalizzazione neoliberista, la prospettiva post-politica riduce le decisioni politiche a questioni tecniche che devono essere affrontate da esperti. Convinti che la globalizzazione richieda una «modernizzazione», i partiti socialdemocratici hanno accettato i diktat del capitalismo finanziario e i limiti imposti agli Stati nelle loro politiche redistributive. I cittadini sono privati della possibilità di decidere tra progetti politici sostanzialmente diversi e le elezioni si riducono a una semplice alternanza tra i cosiddetti partiti «di governo». Dichiarando obsoleto il modello di politica conflittuale, con la sua divisione tra destra e sinistra, la post-politica auspica una «politica senza avversari» che abbandoni il suo carattere partigiano.
Questa situazione post-politica ha prevalso in Europa a partire dagli anni ’80 durante il periodo di egemonia incontrastata del neoliberismo, ma con il crollo finanziario del 2008 questa egemonia è entrata in crisi. Quando le politiche di austerità hanno iniziato a colpire le condizioni di vita di ampie fasce della popolazione, un’ondata di proteste ha attraversato molti Paesi. Abbiamo assistito all’ascesa di movimenti «populisti» che hanno rifiutato il consenso al centro e riaffermato il conflitto stabilendo un confine politico tra il «popolo» e le forze dell’establishment. Quello che ho definito come «momento populista» indica un «ritorno del politico» dopo anni di post-politica.
Questo ritorno alla politica non è garanzia di progresso democratico e può avvenire in modo autoritario. Tutto dipende da come viene costruito il «popolo». Il populismo di destra, ad esempio, costruisce un popolo utilizzando un discorso etno-nazionalista che esclude gli immigrati, considerati una minaccia per l’identità nazionale e la prosperità. Si batte per una democrazia fondata sulla difesa esclusiva degli interessi degli «autentici» appartenenti al Paese. In nome del recupero della democrazia, propone in realtà la sua limitazione e l’introduzione di un modello autoritario.
Ma reclamare e riconquistare la democrazia può anche essere un’opportunità per estenderla. È con questo spirito che ho difeso la tesi secondo cui è necessario promuovere un «populismo di sinistra» che federi una varietà di lotte ecologiche, sociali e «societarie» per costruire un «popolo», il cui avversario comune è l’oligarchia neoliberale e le forze ad essa associate. La specificità di una strategia populista di sinistra consiste nello stabilire una «catena di equivalenze» tra le lotte democratiche contro lo sfruttamento, il dominio e la discriminazione, al fine di guidare un processo di «radicalizzazione della democrazia».
È importante sottolineare che una catena di equivalenza non è semplicemente una coalizione di soggetti politici già esistenti. Il popolo e il confine politico che definisce l’avversario sono costruiti attraverso la lotta politica e sono sempre suscettibili di essere ridefiniti a seguito di interventi egemonici. Il processo di articolazione è cruciale, perché è attraverso la loro iscrizione in una catena di equivalenze che determinate richieste acquisiscono il loro significato politico. Non c’è lotta intrinsecamente emancipatoria che non possa essere diretta verso fini opposti. Che si parli di ecologia, femminismo o altri ambiti, la questione della loro articolazione è decisiva.
Vorrei anche chiarire che una strategia populista di radicalizzazione della democrazia non significa una rottura totale con le istituzioni della democrazia pluralista. Mira a trasformare e arricchire queste istituzioni in modo che i loro principi etico-politici di «libertà e uguaglianza per tutti» siano validi e in vigore in un numero crescente di relazioni sociali. Cerca di raggiungere questo obiettivo utilizzando procedure democratiche, ad esempio attraverso quelle che André Gorz chiama «riforme non riformiste». L’obiettivo non è quello di creare un’avanguardia, ma di formare un popolo il cui progetto è quello di difendere e approfondire la democrazia. Possiamo parlare di «riformismo radicale» per distinguere questa strategia dalla politica rivoluzionaria, ma anche dallo sterile riformismo dei social-liberali. Un tale progetto è certamente «radicale» nella misura in cui mira a creare un nuovo equilibrio di potere e a installare una nuova egemonia, ma senza rompere con i principi della democrazia pluralista.
Una strategia populista di sinistra non è scritta nella pietra e si evolve in base alla situazione. Prima della pandemia, si trattava soprattutto di sfidare il modello post-politico e di rivitalizzare la lotta agonistica contro il neoliberismo. Ora dobbiamo anche affrontare le conseguenze economiche e sociali del Covid-19 e affrontare l’urgenza della crisi climatica, il tutto in un contesto geopolitico scosso dalla guerra in Ucraina e dalla guerra del Sukkot. L’obiettivo della politica di sinistra continua a essere l’estensione dei principi democratici di uguaglianza e giustizia sociale, ma nuove sfide si sono aggiunte alle precedenti. Oggi il progetto democratico deve essere riformulato alla luce dell’imperativo ecologico, liberato dalla sua inclinazione razionalista e dall’ambizione prometeica di dominare la natura. Dobbiamo integrare le lezioni dell’Antropocene e rifiutare la separazione tra natura e cultura, così come l’opposizione tra umani e non umani.
Siamo quindi alle soglie di una nuova fase della rivoluzione democratica. A partire dal XIX secolo, sotto l’impatto delle lotte operaie e del pensiero socialista, la concezione liberale della democrazia, incentrata sui diritti politici, è stata trasformata dall’incorporazione di richieste sociali. Per tutto il XX secolo, la lotta contro le disuguaglianze e per la giustizia sociale è stata concepita principalmente in termini di equa distribuzione dei frutti della crescita. Le lotte dei nuovi movimenti sociali hanno aperto nuove prospettive sulla questione della giustizia sociale, ma sono incentrate sull’autonomia e sulla libertà e, ad eccezione di alcuni movimenti ambientalisti, non hanno come focus la natura della crescita.
Siamo arrivati a un punto in cui la lotta per la giustizia sociale ci impone di mettere in discussione i modelli produttivisti ed estrattivisti. La crescita non è più considerata una forma di protezione, ma è diventata un pericolo per l’abitabilità del pianeta e per le condizioni materiali della riproduzione sociale. Non è quindi più possibile pensare alla lotta per la giustizia sociale senza includere la fine di un modello di crescita che minaccia l’esistenza stessa della società e i cui effetti sono particolarmente distruttivi per i gruppi sociali e i Paesi più vulnerabili. Ciò significa lottare sia a livello di produzione che a livello di riproduzione – quest’ultima intesa nel senso ampio della totalità della vita sul pianeta, e non ridotta alla riproduzione umana.
Con il nuovo regime climatico, l’abitabilità del pianeta è diventata la questione cruciale. Dobbiamo porre la transizione ecologica al centro del progetto di radicalizzazione della democrazia e di collegamento delle lotte ecologiche con quelle sociali. Ciò richiede l’instaurazione di un’autentica «biforcazione» ecologica che spezzi la dipendenza delle nostre società dal sistema economico del capitalismo finanziario, responsabile dell’accelerazione dei disastri ecologici. Tale biforcazione non può avvenire senza un contrasto con il capitale finanziario, ed è illusorio pensare che possa essere realizzata dai soli movimenti sociali. Gli attivisti e i militanti ambientalisti hanno certamente un ruolo importante da svolgere, ma non potranno fare progressi decisivi se rifiutano di organizzarsi politicamente. Inoltre, è impossibile realizzare una transizione di successo verso le energie rinnovabili senza ricorrere alla pianificazione ecologica, e lo Stato dovrà svolgere un ruolo significativo in questo processo. Per creare le condizioni per un confronto vittorioso con le industrie dei combustibili fossili, dobbiamo vincere le elezioni e andare al potere.
Vorrei sottolineare un punto: per collegare le lotte ecologiche con altre lotte democratiche, è essenziale creare un «noi» che sia la forza trainante dell’azione politica. Per creare questa volontà collettiva, non basta elaborare un buon programma; è essenziale mobilitare affetti ecologici e politici condivisi. Questa dimensione emotiva è spesso trascurata a sinistra a causa del quadro teorico razionalista che troppo spesso informa la sua visione della politica. La sinistra è ricca di idee sulla natura di una società emancipata e i suoi leader spendono molte energie per sviluppare programmi ambiziosi. Tuttavia, in genere dimenticano che in politica non basta avere un buon programma; i cittadini devono anche identificarsi con il progetto che viene loro proposto. Le buone idee non bastano perché, come ci ha ricordato Spinoza, le idee sono forti solo quanto le emozioni che suscitano. Per generare sostegno e incoraggiare le persone ad agire, queste idee devono risuonare con gli affetti, i desideri e le esperienze vitali delle persone che devono essere mobilitate. Tuttavia, la pandemia e l’aumento della precarietà hanno creato un senso di vulnerabilità in vasti settori della popolazione, che ha dato origine a sentimenti che esprimono un forte bisogno di sicurezza e una richiesta di protezione. È essenziale tenere conto di questi affetti, perché possono essere indirizzati in direzioni molto diverse. In un certo senso, la nostra situazione è simile a quella analizzata da Karl Polanyi in La grande trasformazione, dove mostra che quando le società subiscono gravi sconvolgimenti del loro stile di vita, il bisogno di protezione diventa l’esigenza principale, e che questo bisogno può essere soddisfatto progressivamente o regressivamente. Cita come esempio la crisi degli anni Trenta, che ha portato al fascismo in Europa e al New Deal negli Stati Uniti.
Nella congiuntura attuale, la domanda di protezione può essere facilmente sfruttata dalla destra nazional-populista, che sta cercando di convincere le persone che la sicurezza può essere raggiunta solo attraverso un concetto di sovranità basato sul nazionalismo esclusivo. Ed è chiaro che in molti Paesi hanno già ottenuto dei risultati. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che sia l’unico avversario e trascurare il fatto che anche i governi neoliberali sfruttano questo sentimento di vulnerabilità. Il loro obiettivo è promuovere quella che Gramsci chiamava «rivoluzione passiva», una strategia che in questo caso consiste nell’utilizzare la crisi ecologica per spingere lo sviluppo di una nuova forma di neoliberismo, il «tecno-soluzionismo autoritario». È così che le forze neoliberali presentano lo sviluppo del «capitalismo verde» e della geoingegneria non solo come la soluzione al problema del riscaldamento globale, ma anche come il modo migliore per garantire sicurezza e protezione ai cittadini. Questo permette loro di sviare il bisogno di protezione per legittimare una serie di misure autoritarie.
È fondamentale che la sinistra risponda a questa domanda di sicurezza e protezione in modo inclusivo ed egualitario, invece di diffidare di essa in quanto conservatrice. Per suscitare emozioni più forti di quelle dei suoi avversari, deve offrire una visione del futuro che ispiri speranza. Anche in questo caso dobbiamo dare ascolto a Spinoza, che ci dice che l’unico modo per soppiantare un affetto è produrne un altro, più forte.
In vista della creazione di affetti comuni, la cui cristallizzazione potrebbe portare alla costruzione di un «popolo», propongo di mobilitare le risorse simboliche della tradizione democratica concependo la lotta per l’abitabilità del pianeta nella modalità di una «rivoluzione verde democratica» che preveda la biforcazione ecologica come un nuovo fronte di radicalizzazione della democrazia. È la forza emotiva dell’immaginazione democratica che ha posto al centro della politica gli ideali che sono stati all’origine delle più importanti conquiste sociali. E come hanno dimostrato le recenti mobilitazioni popolari, i valori democratici informano ancora molte delle lotte sociali e politiche delle nostre società.
Sono convinto che, di fronte alla crisi ecologica, un progetto di «rivoluzione democratica verde» possa entrare in risonanza con la domanda di sicurezza e protezione che si esprime, anche se in modi diversi, in un’ampia varietà di lotte sociali. È probabile che riattivi e arricchisca l’immaginario democratico e susciti entusiasmo, e potrebbe svolgere il ruolo di principio articolatore per federare richieste eterogenee. La sopravvivenza del pianeta e la conservazione delle condizioni di vita che lo rendono abitabile possono mobilitare un gran numero di persone e una grande varietà di movimenti sociali. Accanto ai sindacati e ai gruppi organizzati intorno agli interessi socio-economici, troviamo persone coinvolte in varie lotte femministe, anti-razziste, anti-coloniali e LGBT+. Se da un lato queste rivendicazioni derivano da lotte specifiche, dall’altro sono anche espressione di richieste democratiche. Di fronte alla gravità della crisi ecologica, potrebbero identificarsi con un progetto che mira a preservare un pianeta abitabile e a garantire il futuro di una società democratica, fornendo così l’impulso necessario per costruire una maggioranza sociale.
Paradossalmente, la crisi ecologica può offrire alla sinistra l’opportunità di sviluppare un progetto capace di diventare egemonico. Infatti, il senso di vulnerabilità che suscita non è limitato ai settori della classe operaia. La sua natura trasversale dovrebbe consentire di costruire una frontiera politica tra la sinistra e la destra su basi diverse da quelle tradizionali. La posta in gioco nella lotta politica è il modo in cui si costruisce l’antagonismo e si definisce l’avversario. La destra radicale costruisce l’antagonismo con i «beneficiari del welfare» e i migranti, mentre le forze neoliberali post-politiche, pur negando l’esistenza dell’antagonismo, lo costruiscono squalificando gli «estremi», coloro che collocano al di fuori dell’«arco repubblicano» perché attaccano il loro potere.
La lotta per difendere l’abitabilità della Terra riguarda un’ampia gamma di gruppi sociali. Nominando il neoliberismo come il principale avversario responsabile della distruzione delle condizioni di vita sul pianeta, la sinistra può costruire un «noi» più ampio di quello basato sui rapporti di produzione o sull’opposizione tra perdenti e beneficiari della globalizzazione.
Un progetto di «rivoluzione verde e democratica» deve ovviamente proporre misure concrete, dettagliate in un programma che specifichi le politiche democratiche, economiche e sociali da attuare. Queste dipendono dalla situazione specifica e non è mia intenzione esaminarle in questa sede. Quello che voglio sottolineare è il ruolo degli affetti. Per creare una volontà collettiva, i cittadini devono identificarsi con un progetto, devono volerlo, altrimenti mancherà la forza che li spingerà ad agire. Per questo la costruzione del «noi» deve avvenire prima di tutto a livello di Stato nazionale, che rimane un luogo cruciale per l’esercizio della democrazia e l’espressione della sovranità popolare. Ignorare la forza emotiva che agisce nelle forme di identificazione nazionale è stato spesso un ostacolo al successo dei movimenti progressisti.
È certamente necessario che tale progetto acquisisca una dimensione europea, ma ciò non presuppone la creazione di un «noi» europeo omogeneo e post-nazionale che sostituisca la diversità dei «noi» nazionali. La negazione del «noi» nazionale, o il timore che possa esserci, è alla base di molte resistenze a qualsiasi forma di integrazione europea, nonché dell’emergere di forme di antagonismo tra le diverse nazioni. Ciò che è auspicabile è la creazione di un’Europa «agonistica» che combini unità e diversità e riconosca la molteplicità e la diversità delle identità collettive che esistono al suo interno, nonché la loro dimensione affettiva.
Da un punto di vista costituzionale, potremmo ispirarci al lavoro di Kalypso Nicolaïdis, che propone di immaginare l’Unione Europea come una «demoi-crazia», un’unione di Stati e popoli che riconosce la pluralità e la permanenza dei diversi demoi che costituiscono le sue parti. Questa Unione rispetterebbe le identità nazionali dei suoi membri, espresse attraverso le loro strutture politiche e costituzionali. L’esercizio della democrazia a livello dei diversi Stati nazionali non verrebbe sacrificato a favore di un insieme di istituzioni corrispondenti a un demos europeo omogeneo.
Siamo in un momento cruciale per la democrazia, il cui futuro dipende dal percorso che intraprenderemo per affrontare la sfida della crisi ecologica. Ci sono due possibili esiti. Da un lato, un esito autoritario, con l’avvento di regimi nazionalisti di «democrazia illiberale» o con l’evoluzione verso un nuovo tipo di post-politica digitale di «capitalismo verde». Dall’altro lato, una biforcazione ecologica che porti a una rivoluzione verde democratica, una strategia populista di sinistra guidata dalla ricerca dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Naturalmente, non possiamo escludere la prospettiva di un esito catastrofico. Ma ci sono ancora modi per evitarlo e questa crisi può anche diventare un’opportunità per realizzare un modo di produzione più egualitario e una società in cui i valori della giustizia e della solidarietà saranno predominanti.
Dobbiamo abbandonare la prospettiva post-politica che nega l’esistenza degli antagonismi e la visione messianica di una risoluzione definitiva dei conflitti e di una società totalmente armoniosa. Non ci sarà mai una «lotta finale» e la democrazia sarà sempre «a venire», per usare l’espressione di Derrida. Il compito della sinistra oggi è quello di indirizzare gli affetti generati dalla congiuntura attuale verso la giustizia sociale e di articolarli per costruire un «popolo» che lotti per difendere la democrazia e per creare le condizioni che ne permettano l’approfondimento.