Poche settimane fa la grande società di consulenza McKinsey ha pubblicato un interessante report intitolato Geopolitical resilience: The new board imperative in cui si tratteggiano una serie di soluzioni manageriali per fronteggiare i rischi geopolitici, saliti in cima alle priorità strategiche delle aziende. Come si deve affrontare una pianificazione degli investimenti pluridecennale in un contesto geopolitico in rapida evoluzione? Come fanno le aziende a destreggiarsi nel crescente groviglio normativo dei controlli sulle esportazioni, delle sanzioni e dei requisiti di localizzazione dei dati, che spesso si intersecano tra loro e limitano sempre più un’impronta globale senza soluzione di continuità? si chiedono i consulenti di McKinsey aprendo un filone di riflessione che segna un cambio di paradigma rispetto all’epoca della globalizzazione, del «mondo piatto» e del mercato libero e che mostra la crescente interazione tra management e governo dovuta ai cambiamenti politici ed economici di questi anni.
La relazione tra management privato e apparati governativi non è una novità così come che i consulenti cerchino di porsi da cuscinetto tra le due categorie, ma lo sviluppo storico di questo rapporto, e i suoi riflessi politici, devono ancora essere indagati in maniera approfondita.
Nell’ultimo secolo la «gemellanza siamese» tra management e burocrazie ha creato un vero e proprio sistema di governo, più o meno implicito a seconda delle fasi storiche, che può essere rappresentato attraverso la figura mitologica del Minotauro, un mostro metà burocrate e metà manager. Questo sistema di governo ibrido ha pesato sulla storia contemporanea e sulla formazione delle élite almeno quanto lo sviluppo della democrazia rappresentativa. Le premesse del Minotauro novecentesco erano però già insiti nelle epoche precedenti che mostravano un progressivo processo di razionalizzazione politico-burocratico ed economico.
L’evoluzione storica del profondo rapporto tra stato e mercato, e in particolare del loro sistema operativo e attuativo, è dunque interessante per tratteggiare una storia del potere di lunga durata e che vada oltre i confini della politica in senso stretto. Per questa ragione nel mio ultimo libro Il minotauro. Governo e management nella storia del potere (LUP 2023) ho cercato di mettere a fuoco la relazione tra il management, cioè l’organizzazione del settore industriale, e il governo, cioè l’organizzazione del settore pubblico. Entrambi condividono l’idea dell’amministrazione. E senza le risorse, le direttive, le procedure, i calcoli, l’organizzazione dell’amministrazione il concetto moderno di potere sarebbe molto difficile da codificare così come risulterebbe astratta, ideologica e poco realistica la visione di una separazione totale tra sfera pubblica e privata, di una distanza aprioristica, conflittuale a prescindere, tra burocrazia e management. Al contrario la storia mostra una convivenza fatta più di cooperazione, contaminazione e ibridazione che di lotta e avversione.
Oggi il rapporto tra pubblico e privato si sta rimodulando radicalmente. Fino a pochi anni fa il management delle aziende e i dirigenti della pubblica amministrazione dovevano preoccuparsi soltanto dell’efficienza dei processi e dell’efficacia dell’esecuzione. Essi potevano vivere in due mondi separati che di rado si intersecavano e quando accadeva era più per sfruttare opportunità positive (commesse pubbliche, investimenti in ricerca ecc) che per fronteggiare rischi. Oggi le tensioni internazionali, la guerra in Ucraina, il protezionismo, le nuove domande politiche di sicurezza hanno in pochi anni cambiato radicalmente il paradigma politico ed economico con impatti rilevanti sulla relazione tra management e governo.
Di recente, infatti, l’interventismo pubblico è tornato sotto molteplici forme, le supply chain si sono ridefinite, le fonti energetiche diversificate, nuovi settori tecnologici sono diventati fondamentali per lo sviluppo economico e la difesa, le materie prime sono tornate ad avere un peso specifico notevole. Il mondo di oggi si ridefinisce intorno a nuove domande di sicurezza e protezione allora le organizzazioni, pubbliche e private, dovranno adeguarsi al cambiamento seguendo nuove coordinate, stimoli e analisi. Come intuisce il rapporto di McKinsey, una nuova era nel rapporto tra management e governi si sta aprendo con nuovi rischi e opportunità. La conoscenza storica può essere utile per capire le tendenze di lungo periodo, analizzare i meccanismi politici, culturali ed economici alla base della transizione in corso, elaborare le possibili strategie per fronteggiare i nuovi problemi e i nuovi rischi.
L’obiettivo del libro è in apparenza semplice: scrivere la storia del rapporto tra governo e management dalle origini ai nostri giorni. Tuttavia, questi due elementi provengono da storie e vicende molto differenti e instaurano tra loro una relazione profonda ma non sempre di facile individuazione. Il governo è una entità multiforme – fatta di vertici politici, burocrazia, eserciti, regole e simboli – emanazione dello Stato moderno che a sua volta è stato declinato in forme differenti a seconda delle fasi storiche e delle aree geografiche. Tendenze simili sul piano politico si innestano in contesti diversi che rendono difficile la schematizzazione dell’esperienza statuale. Secoli di storia, armi, sangue, diritti, rivoluzioni, tribunali, parlamenti hanno segnato la vicenda evolutiva del governo come istituzione che però, già dal diciassettesimo secolo, portava in sé i geni dell’organizzazione, della statistica, della calcolabilità, della ricerca di una scienza del governo e di una razionalità strumentale agli scopi politici. Lo Stato moderno è una progressiva fusione di sovranità, costituzione e amministrazione. Il management, al contrario, si affaccia alla storia soltanto alla fine dell’Ottocento come espressione di un capitalismo più maturo che diviene, di conseguenza, pronto a sostituire il genio dell’imprenditore singolo con la competenza di una classe di dirigenti industriali, i manager. La corporation, la società per azioni, è l’istituto giuridico che rende possibile questa evoluzione.
Se queste sono le premesse non va però dimenticato che il management assunse subito un profilo più sociale, legato all’idea di sviluppo e modernizzazione, poiché veniva presentato nella sua traduzione politica come un insieme di tecniche organizzative che avrebbero generato un gioco a somma positiva per tutti: per gli investitori e i proprietari che avrebbero massimizzato produttività e utili, per i manager che avrebbero visto crescere il proprio ruolo e il proprio prestigio nell’azienda e per gli operai che avrebbero guadagnato di più e lavorato in un ambiente più sano e sicuro. Il management avrebbe azzerato il conflitto sociale tornando utile anche al governo.
In questo contesto dinamico il rapporto tra management e governo si creò quasi immediatamente dopo la teorizzazione del primo.
Basti pensare che la prima applicazione pratica della teoria del management non è avvenuta in un’azienda, ma in organizzazioni non profit e agenzie governative. Frederick Winslow Taylor, il pioniere del management scientifico, nel suo biglietto da visita si identificava come «Consulente per il Management» e spiegava di aver scelto intenzionalmente questi termini nuovi e strani per scioccare i potenziali clienti e far loro capire che offriva qualcosa di totalmente nuovo. Ma Taylor non citò un’azienda, bensì la Mayo Clinic, un’organizzazione senza scopo di lucro, come «esempio perfetto» di «Scientific Management» nella sua testimonianza del 1912 davanti al Congresso, che per la prima volta rese i politici gli Stati Uniti consapevoli del management e delle sue potenzialità trasversali. E l’applicazione più pubblicizzata dello «Scientific Management» di Taylor non fu in un’azienda, ma nell’Arsenale di Watertown, di proprietà del governo e gestito dallo stesso, dell’esercito degli Stati Uniti. Il primo lavoro a cui è stato applicato il termine «manager» nel suo significato attuale non era in un’azienda. Si trattava del City Manager, un’invenzione americana dei primi anni del secolo che mirava a rendere più professionalizzata ed efficiente la pubblica amministrazione. Anche la prima applicazione consapevole e sistematica dei «principi di management» non avvenne in un’azienda. È stata la riorganizzazione dell’esercito degli Stati Uniti nel 1901 da parte di Elihu Root, Segretario alla Guerra di Theodore Roosevelt. Il primo Congresso sul Management – tenutosi a Praga nel 1922 – non fu organizzato da uomini d’affari, ma da Herbert Hoover, allora Segretario al Commercio degli Stati Uniti, e Tomáš Masaryk, storico di fama mondiale e presidente fondatore della nuova Repubblica cecoslovacca. Mary Parker Follett, il cui lavoro accademico sul management iniziò poco dopo questo congresso, non fece mai distinzione tra gestione aziendale e non aziendale. Parlava di gestione delle organizzazioni, a cui si applicavano gli stessi principi, senza distinzione tra pubblico e privato, profit e no profit.
Il management, inoltre, trovò terreno fertile nel settore pubblico grazie alla concezione tardo ottocentesca, sviluppata in primo luogo da Woodrow Wilson, in cui l’amministrazione pubblica inizia a esser considerata come una organizzazione che poteva essere organizzata seguendo principi scientifici oltre che politico-legali. Come il management poteva aumentare la produttività del lavoro nelle fabbriche, con benefici e pace sociale per tutti, così la divisione dei ruoli e delle funzioni poteva essere adatta al governo per accrescere l’efficienza della propria azione. Ma forse c’è di più di questo poiché lo Stato a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo è scosso da ancor più profonde trasformazioni. Dopo essersi fatto costituzionale nell’ottocento, lo Stato diviene pluriclasse e democratico, pur scontando debolezze e instabilità, nei primi decenni del novecento. Il governo, di conseguenza, si intreccia con il nuovo avvento delle masse in politica e con i nuovi bisogni del capitalismo e della società industriale: l’esecutivo si espande nella sua funzione previdenziale, sociale, economica. Ciò determina la confluenza nel governo di nuovi saperi, tecniche, professionalità, soprattutto a cavallo tra le due guerre mondiali, e di conseguenza la nascita di nuovi uffici economici, istituzioni tecnocratiche, enti e aziende pubbliche che allargano la base del governo e al tempo stesso lo parcellizzano. Lo Stato evolve da ente sovrano, titolare della personalità politica e giuridica, a impresa di sviluppo economico e sociale. È in questa trasformazione che il management penetra negli uffici governativi: manager per organizzare la produzione bellica, per gestire nuovi enti e politiche sociali, per amministrare società e aziende pubbliche, per organizzare gli approvvigionamenti e poi diffusione del «taylorismo alla scrivania» per importare le tecniche e procedure del privato nel pubblico. Oppure, nei regimi autoritari e totalitari, il management diviene seducente strumento di accrescimento della potenza industriale e tecnica della nazione, complemento pratico dell’ideologia dominante. Un volano da utilizzare per il partito unico al comando per perseguire la modernizzazione, lo sviluppo della potenza, sia nel modello capitalistico che in quello collettivista.
Nel secondo dopoguerra la figura del manager è oramai integrata, insieme a scienziati e altri tecnici, non soltanto nelle articolazioni del governo ma come attore che partecipa alla costruzione di una nuova società e di nuove politiche scientifiche, economiche e sociali. La vicenda manageriale si interseca con le grandi questioni governative della guerra fredda: la sicurezza nazionale, il complesso militare-industriale, la competizione tecnologica e la big science, l’ammodernamento amministrativo e infrastrutturale, l’ampliamento del welfare state, la transizione verso l’economia della conoscenza. È questa l’epoca in cui le organizzazioni pubbliche e private, di fatto e in dottrina, erompono come attori politici in un mondo in cui i partiti, i sindacati e i parlamenti iniziano a non riuscire più a coprire tutto «il politico». La politica si sublima nell’organizzazione e quindi chiama ancora una volta in causa il management, che è scienza dell’organizzazione e fattore centrale nella formazione e nella produzione delle nuove élite, come anche testimonia l’esplosione dei corsi universitari e delle business school negli anni cinquanta e sessanta. Di fatti, il management presuppone una divisione di ruoli e compiti che soltanto un sistema meritocratico fondato sulla competenza può supportare e alimentare. Mentre i teorici delle élite del primo novecento si riferivano alla «classe politica» o alla «classe dirigente» per indicare i vertici della società, guardando principalmente alla politica, nel secondo novecento il meccanismo di produzione e riproduzione delle élite trascende questi concetti, esonda oltre la politica e la sommità amministrativa dello Stato, include i vertici di tutte le organizzazioni, pubbliche e private, che intervengono nel processo decisionale pubblico e che si fanno interpreti dello sviluppo. Il concetto di élite si pluralizza, si lega inscindibilmente alla conoscenza specialistica e la stessa classe dirigente diviene più flessibile anche grazie al sostrato comune del management i cui principi possono essere dispiegati in ogni organizzazione profit e no-profit.
Pure quando il sistema economico misto del dopoguerra inizierà ad entrare in crisi, nel corso degli anni Settanta, il management sarà capace di reinventarsi ancora nel suo rapporto col governo. Ecco allora che le corporations e le società di consulenza manageriale partecipano all’elaborazione del nuovo liberalismo degli anni ottanta, propongono e realizzano privatizzazioni, liberalizzazioni ed esternalizzazioni dei servizi pubblici, disegnano e popolano nuove istituzioni per la regolazione del mercato. Il governo e i suoi uffici sono chiamati, anche sotto la pressione delle istituzioni internazionali, ad introiettare lo spirito imprenditoriale, l’economia della conoscenza, il saper fare dei manager, gli strumenti per misurare performance e responsabilizzare i dirigenti. I teorici dell’organizzazione raggiungono l’apice della propria influenza politica con manuali di management trasformati in nuove bibbie per riformare l’amministrazione pubblica su scala internazionale. Gli stessi politici imbracciano il management e i manager come modello per la loro azione, simboli di efficienza e capacità di risolvere i problemi essi divengono ispiratori dell’azione politica di molti politici occidentali degli anni ottanta e novanta. Nasce un neo-cameralismo che contrappone la scienza del governo e delle finanze, sempre più centrale, alla rappresentanza politica e alle ideologie, sempre meno rilevanti nella pratica decisionale e nella teoria dello Stato. Cambia di conseguenza anche lo sfondo ideologico: nella nuova vulgata dominante il mercato e il privato, di conseguenza il management aziendale, diventano propulsori di sviluppo se lasciati liberi di esprimersi su scala globale e senza interferenze da parte del governo. Anzi quest’ultimo è chiamato a comportarsi come il privato, nella pubblica amministrazione si cerca di infondere lo spirito imprenditoriale e di importare le tecniche manageriali delle multinazionali. Soltanto un governo che «costi meno e lavori meglio» può favorire lo sviluppo economico e sociale e vincere il clientelismo, le rendite, le inefficienze prodotte dallo Stato.
Anche quando questo sistema politico, economico e culturale inizierà a incrinarsi, con la crisi finanziaria del 2007-2008, i governi non smetteranno di guardare al management che diventerà gestione della crisi prima, anche nelle amministrazioni pubbliche attraverso gestioni commissariali e governi tecnocratici, e poi tentativo di amministrare la complessità e l’interdipendenza di sistemi che trascendono i confini delle nazioni e sono oramai disposti su una governance multilivello. Quando nell’ultimo decennio la creazione di network istituzionali e la new public governance si riveleranno insufficienti a contenere le trasformazioni della politica e dell’economia, nuovi indirizzi e strumenti segneranno un ritorno al potenziarsi dello Stato-nazione attraverso una molteplicità di strategie costituite da dazi, controllo degli investimenti, limitazioni delle esportazioni, nuove e vecchie società di Stato e una varietà di fondi a capitale pubblico, nuovi uffici per l’applicazione e il controllo del nuovo corso protezionista e interventista. Ma ancora il management risulterà fondamentale nella centrifuga del cambio di paradigma fuori e dentro il perimetro del governo: management strategico e della complessità, della contingenza, dei sistemi, del comportamento e del cambiamento, volto a combinare efficienza organizzativa, controllo dei processi, stimoli psicologici e ambientali, leadership e competenza tecnica con i nuovi obiettivi politico-amministrativi segnati dalle nuove esigenze di sicurezza nazionale e di politica industriale. Contro il caos generato dal de-risking e dal frazionamento della globalizzazione, adempiendo alla propria funzione storica, il management privato e quello pubblico dovranno cercare di ritagliarsi un ruolo di stabilizzatori e generatori di produttività in uno scenario segnato dall’incertezza, da nuovi rischi e nuovi costi. Questo ruolo del manager è richiesto da una politica che pretende di essere affiancata da istituzioni, competenze e leadership che non sono direttamente riconducibili al governo popolare ma la cui legittimità è giustifica nell’ottica della ragion di Stato, dell’emergenza economica e dei rischi sistemici. Così il management può nuovamente prosperare nell’interregno perché soltanto la costruzione e la legittimazione di nuove organizzazioni pubbliche e private viene riconosciuta come fattore capace di riportare ordine, stabilità e prosperità ponendo fine alle intemperie della transizione.
Ma è evidente che in un mondo in cui rischi ed emergenze si moltiplicano e si intersecano con sempre maggior forza le strutture e l’organizzazione, per quanto efficienti e coordinate si possano costruire, non sono abbastanza per governare politica, società ed economia senza disordini e crisi. Allora lo sviluppo e la modernizzazione continueranno ad avvalersi del governo e del management, ma per essere tale dovrà poggiare sulla capacità della società di generare valore umano, ricchezza civile e autorità che godano di legittimazione diffusa. I legami sociali, le «legature» tra gruppi sociali e i valori e le identità infusi in essi, sono ancora essenziali per spronare lo sviluppo: la creatività, l’innovazione, l’intrapresa, la solidarietà, la diversità scaturiscono da individui e gruppi che possono fiorire grazie alla capacità amministrativa e organizzativa, ma affinché ciò accada con successo e progresso è necessaria una civilizzazione che vada oltre lo stato e il mercato, una cultura che vada oltre la tecnica, una società capace di costruire senso e autorità e non soltanto regole e potere. È evidente anche che la specializzazione dei saperi e la ricerca della produttività non possano essere l’unico fine poiché ogni dirigente pubblico e privato sarà chiamato ad una più profonda analisi di scenario che non concernerà soltanto costi, benefici e profitti. Servirà una diversa educazione dei capi, più trasversale e onnicomprensiva, ma anche nuove istituzioni analitiche e di studio tanto all’interno delle pubbliche amministrazioni quanto delle aziende.
In un mondo regolato dal nuovo minotauro serve uno «spirito delle istituzioni» alla base della società che permetta di temperare e sciogliere i conflitti senza deflagrazioni, di superare interessi costituiti e forme di patrimonialismo, di riconoscere e gestire rischi e contemperare azzardi morali, di valorizzare il concetto di responsabilità pubblica e privata, di dare vita a comunità e reti sociali fondate sulla conoscenza e sulla solidarietà, di rafforzare il radicamento senza perdere l’esplorazione dell’orizzonte. Non basta la ricerca dell’efficienza nell’organizzazione poiché senza una infusione di valori nelle organizzazioni, fornita con responsabilità e senso della storia dalla classe dirigente e dalla leadership, le istituzioni e l’autorità regrediscono a mera razionalità strumentale, a omologazione ingessata e a scontri di potere tra gruppi. Uno sviluppo positivo sarà possibile se si saprà edificare sugli appigli che società, comunità e territori già offrono, riempirli di valori e senso etico, potenziarli con le strutture del management e del governo, rendere le istituzioni capaci di raccordare reti e processi molto estesi nello spazio in una logica di comunione e responsabilità, educare le élite all’eclettismo, alla tolleranza, alla sobrietà e alla responsabilità. Se il minotauro non può essere decostruito o abbattuto senza sfociare nell’utopia allora ciò che si può fare è ricavare delle intercapedini in cui la libertà, la solidarietà, l’intraprendenza, la creatività, la pluralità possano prosperare rinforzando e migliorando a loro volta la legittimità e il funzionamento del mitico mostro mezzo-burocrate e mezzo-manager.