Nel cortile di Villa Madama, il palazzo rinascimentale che domina la capitale italiana dal quartiere Monte Mario, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte attende il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping. È il 23 marzo 2019: i due, dopo una calorosa stretta di mano, attraversano il giardino su un tappeto rosso che copre il terreno di ghiaia, per accomodarsi in una delle sale interne e firmare l’atto di politica estera più importante del mandato del governo Conte.
Dopo mesi di negoziati, l’Italia aderisce al controverso progetto cinese delle Nuove vie della Seta attraverso un Memorandum of Understanding quinquennale che definisce i contorni della partecipazione italiana. Per la Cina, la firma ha un valore geopolitico rilevantissimo: Roma è l’unica capitale del G7 a compiere una scelta diplomatica di questo genere, gli altri Stati europei siglano accordi commerciali anche più importanti, ma decidono di evitare un coinvolgimento simbolico. Per Stati Uniti, Canada e Giappone, la firma sarebbe semplicemente inconcepibile.
A distanza di quattro anni, il governo di destra guidato da Giorgia Meloni si trova di fronte a una delicata scelta politica: all’inizio del 2024 il Memorandum si rinnoverà automaticamente, a meno che una delle due parti non segnali la volontà di ritirarsi con tre mesi di anticipo. L’eredità della firma di Conte è un dossier di difficile gestione per l’attuale esecutivo: un rinnovo sarebbe rischioso per Giorgia Meloni, che da mesi invia segnali di lealtà all’alleanza atlantica e tiene una decisa posizione a favore del sostegno all’Ucraina, ma che deve ancora dimostrare di essere allineata all’occidente nei rapporti con la Cina; d’altro canto, uscire dall’accordo implica una presa di posizione diplomatica pubblica molto chiara, che potrebbe irritare Pechino ed esporre l’Italia a eventuali ritorsioni, soprattutto sul piano commerciale.
Com’è stato possibile per l’Italia trovarsi di fronte a questo rompicapo diplomatico?
La Cina nella politica interna del Movimento 5 stelle
Se al momento della firma Pechino sembra piuttosto consapevole del grande valore dell’adesione italiana, il governo Conte I tratta la questione in modo ondivago, enfatizzando o minimizzando la portata dell’accordo a seconda del contesto. In un primo momento, l’avvicinamento alla Cina è una scelta prodotta da evidenti motivazioni politiche che guidano l’azione dei partiti della maggioranza. Le elezioni italiane del 2018, con l’affermazione e l’alleanza di due partiti anti-establishment come la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle, hanno reso l’Italia «il centro dell’universo della politica» secondo la definizione di Steve Bannon, ex consigliere molto influente di Donald Trump alla Casa Bianca e grande sostenitore di una coalizione che unisse il populismo di destra a quello di sinistra. L’obiettivo di Bannon e di una parte dell’amministrazione repubblicana allora in carica è quello di destabilizzare la politica europea e alimentare la conflittualità tra gli Stati membri, una visione che vede dunque di buon occhio un governo eterodosso alla guida di un paese fondatore dell’Unione.
L’analisi di Bannon trova un certo riscontro nella realtà. Il governo Conte I prova a impostare una politica estera meno ancorata alla piattaforma euroatlantica tradizionale: Movimento 5 Stelle e Lega hanno in quel momento posizioni apertamente anti-atlantiste, in dura polemica con Bruxelles, Parigi e Berlino, vicine alla Russia e alla Cina, quest’ultima grande riferimento del Movimento 5 stelle e del suo fondatore Beppe Grillo. Certo, il posizionamento filocinese può apparire contraddittorio, specialmente per la fascinazione che esercita Donald Trump verso gran parte dei componenti leghisti dell’esecutivo, essendo la Lega tradizionalmente meno aperta a Pechino e soprattutto più attenta alle posizioni del presidente americano, riferimento internazionale in quel momento di tutta l’estrema destra europea. Lo stesso Bannon teorizza la necessità di uno scontro frontale con Pechino, ma la politica italiana è da sempre a proprio agio in questo tipo di ambiguità.
Malgrado la grande impulsione del Movimento 5 stelle, l’uomo al centro della politica cinese del governo Conte è un esponente della Lega. Si chiama Michele Geraci, è sottosegretario allo Sviluppo economico, in grande sintonia con i colleghi 5 stelle dell’esecutivo, tanto che in molti lo scambiano più per grillino che per leghista. Il professore, che vanta un’esperienza lavorativa di più di dieci anni in Cina presso l’University of Nottingham Ningbo China e la New York University Shanghai, stringe un rapporto molto forte con il suo ministro di competenza, Luigi Di Maio, in quel momento in cerca di legittimità internazionale e soprattutto di investimenti diretti esteri in Italia, che vuole attirare per dimostrare che il Movimento 5 stelle è aperto alle opportunità commerciali e al mondo delle imprese globalizzate.
Appena arrivato al ministero, Geraci chiede e ottiene l’istituzione di una task force interamente dedicata alla Cina. In filigrana c’è anche la grande questione della sostenibilità del debito italiano, principale problema di politica economica che il governo Lega-5 Stelle intende risolvere: perché sottostare alle regole fiscali imposte da Bruxelles e dai partner europei quando è possibile trovare altri compratori dei titoli di Stato, come Russia e Cina? Non si tratta soltanto di una suggestione, in quel periodo si moltiplicano i retroscena che vedono l’Italia impegnata a convincere Pechino a investire nel debito italiano. Una convinzione suffragata dalle numerosissime missioni che esponenti dell’esecutivo conducono in Cina: il quotidiano Avvenire, nell’analizzare l’agenda del viaggio cinese del ministro dell’Economia Giovanni Tria, nell’agosto del 2018 scrive che «è ormai ufficiale che l’Italia chiederà ai cinesi di comprare i nostri Btp, anche se non si sa ancora cosa [la Cina] vorrà in cambio». Avvenire scrive anche che «Favorire gli investimenti cinesi in titoli di Stato è comunque uno degli obiettivi dichiarati della Task Force Cina appena avviata al ministero dello Sviluppo Economico». Un’intepretazione simile si trova anche sul Corriere della Sera, proprio in relazione alla missione di Giovanni Tria: «Tria a Pechino cerca di trovare nelle autorità cinesi, non solo fra i privati, nuovi investitori sul debito italiano. Il ministro ha in programma incontri al massimo livello nella Banca del popolo della Cina» 1.
Oggi non è più disponibile alcun documento riguardante la task force Cina: sul sito del ministero tutte le pagine sono irraggiungibili. Michele Geraci, però, spiega al Grand Continent che le ricostruzioni dell’epoca mancano il punto: «La task force era un gruppo di riflessione, senza nessun obiettivo specifico, la prima fase era di brainstorming, volutamente caotica. Sui titoli di Stato ho solo detto che tutti gli Stati possono comprarli, anche la Cina. È un’ovvietà, non era il mio compito arrivare a questo obiettivo né era quello del governo». In ogni caso, le parole dei dirigenti politici dell’epoca suggeriscono altro. Paolo Savona, tra i principali economisti e intellettuali di riferimento di Lega e 5 Stelle, diventato ministro degli Affari europei dopo una sonora e pubblica bocciatura del Quirinale di fronte alla richiesta gialloverde che lo aveva indicato come ministro dell’Economia, è sempre stato esplicito in questo senso. Nel suo famoso «piano b» per abbandonare l’euro, Savona presentava una strategia piuttosto chiara: «Stipulare alleanze internazionali con paesi interessati a proteggere l’autonomia politica dell’Italia […] e opporsi all’influenza del blocco di paesi che gravita sulla Germania […] e forniscano questi paesi con le alleanze concreti impegni di fungere da “lender of last resort” per fronteggiare la speculazione che si innesterebbe nella decisione di abbandonare l’euro».
Geraci si muove a suo agio anche grazie a una classe politica in cui di Cina «nessuno sa niente» come scrivono i giornalisti Giulia Pompili e Valerio Valentini nel loro libro sull’argomento, Al Cuore dell’Italia, pubblicato nel 2022 da Mondadori. Se questo era vero per l’opinione pubblica, ancora poco abituata al ruolo di Pechino negli affari internazionali, in quel periodo esisteva certamente una parte dell’élite politica e burocratica italiana perfettamente consapevole di questo dossier e interessata a un’adesione alle Nuove vie della Seta. Francesca Ghiretti, analista dell’istituto Merics di Berlino, ricorda il grande fermento di quel periodo: «L’idea di lavorare a un Memorandum of Understanding nasce nel 2017 al BRI forum, cui partecipa il governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, sostenuto da una coalizione di centrosinistra tradizionale e di comprovata lealtà atlantista. Non esisteva ancora un vero e proprio negoziato Roma-Pechino sul tema, ma in Italia la possibilità era certamente considerata, almeno da una parte dell’establishment». In altre parole, per quanto la scelta di negoziare e poi firmare il Memorandum of Understanding con la Cina fosse utilizzata in modo retorico dal governo gialloverde per segnalare la propria ritrovata autonomia nell’ambito della politica estera, si possono ravvisare degli elementi di continuità con la posizione italiana degli ultimi dieci anni: «È come se in quel momento il governo avesse voluto segnalare di essere in grado di condurre una politica estera autonoma dagli americani e dall’Unione europea. Anche per questo è stata una scelta compiuta in fretta, non frutto di profonde riflessioni né di grande coordinazione con gli alleati», spiega Ieva Jakobsone Bellomi, ex membro della camera di commercio europea a Pechino e oggi ricercatrice all’Università John Cabot di Roma.
Come scrivono i ricercatori Giulio Pugliese, Francesca Ghiretti e Aurelio Insisa in un informato paper sulla strategia del governo italiano in quel periodo: «Una lettura di “marketing politico” suggerisce che il governo gialloverde si sia servito del marchio BRI per riconfezionare l’impegno con la Cina perseguito dai suoi predecessori, con l’obiettivo di segnalare la presunta ritrovata libertà d’azione dell’Italia ai propri elettori e all’elettorato italiano in generale. Il memorandum d’intesa è stato un caso di esibizione populista, non di grande strategia e di riallineamento internazionale» 2.
Certo è che nei primi mesi del 2019, quando l’adesione italiana alla Belt and road initiative è ormai concreta e la visita del presidente cinese Xi Jinping per concludere l’accordo è prevista per fine marzo, una parte di opinione pubblica segnala la sua contrarietà. La stampa italiana e internazionale sollevano questioni sull’opportunità di una scelta del genere, lo stesso Partito democratico, un po’ interprete del suo ruolo di opposizione, un po’ consapevole dell’implicazione geopolitica dell’adesione, esprime più di qualche critica. Nell’Unione europea ci si interroga sulla scelta di Roma, ma il contesto geopolitico pre pandemico e le relazioni con Pechino, certamente in mutamento verso maggiore tensione, sono imparagonabili con quello attuale 3. Negli Stati Uniti, invece, la posizione è nettamente contraria, come ammette lo stesso Michele Geraci: «In un incontro a Washington con il mio omologo mi fu chiesto come mai avessimo firmato, e mi fu fatto presente che non era stata una buona idea farlo. In Europa, invece, nessuno mi ha mai chiamato, telefonato, scritto, né credo che abbiano chiamato miei colleghi, perché altrimenti me lo avrebbero detto».
In Europa forse nessuno esercita pressione, ma certamente gli alleati continentali non sembrano credere che sia necessario aderire alla Nuova via della Seta per fare affari: poco dopo la visita di Xi a Roma nello stesso anno, Francia e Germania concludono diversi accordi commerciali e industriali con la Cina, così come altri Stati europei. È una considerazione che comincia a farsi strada persino nel governo gialloverde, a poche settimane dalla grande visita di Stato organizzata da Xi Jinping in occasione della firma.
Un accordo contro l’Italia?
Nel 2019 la Lega è in grande ascesa: ogni mese guadagna consensi e li guadagna soprattutto sull’alleato/avversario. A via Bellerio si comincia ad accarezzare l’idea di far cadere il governo per provare a vincere le elezioni e conquistare, per la prima volta nella storia, la Presidenza del Consiglio. Per essere credibili, serve però la sponda di Washington, così si moltiplicano i segnali di fedeltà leghisti alla linea americana, circostanza facilitata dalla grande vicinanza ideologica tra la Lega di Salvini e Donald Trump, citato come modello politico dall’allora ministro dell’Interno. Forse gli americani non esercitano pressione nei confronti del governo italiano con i dovuti canali diplomatici, ma pubblicamente la loro posizione è piuttosto netta: «L’approvazione della Via della Seta legittima l’approccio predatorio agli investimenti della Cina e non porterà alcun beneficio al popolo italiano», si legge in un tweet dell’account del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti datato 9 marzo 2019.
Così, inizia una fase di grande ridimensionamento, quantomeno del valore politico dell’accordo. L’11 marzo 2019, poco dopo una visita a New York e Washington del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, Matteo Salvini comincia a segnalare una certa insofferenza del suo partito nei confronti dell’adesione: «Se il punto è aiutare le imprese italiane a investire all’estero siamo disponibili a ragionare con tutti, ma se si tratta di colonizzare l’Italia e le sue imprese da parte di potenze straniere, no», dice il ministro dell’Interno a margine di una riunione di partito. Il Presidente del Consiglio Conte cerca di sminuire la portata della firma che dovrà avvenire alla fine del mese: «Il memorandum non ha la natura di accordo internazionale e non crea vincoli giuridici», afferma al Corriere due giorni dopo. In realtà, il governo sapeva benissimo di poter diventare uno strumento della politica estera cinese, spiega in modo cristallino Michele Geraci: «Per i cinesi il rapporto è geopolitico, per noi è commerciale. Noi non possiamo controllare come rivendono politicamente gli accordi, però possiamo andare “a credito” nei loro confronti; questo credito lo incassiamo attraverso la cascata comunicativa che si crea dopo una dichiarazione di Xi Jinping di fare business con l’Italia. Il presidente dà un input alle sue aziende che poi agiscono. Quello è stato lo spirito del MOU, noi diamo qualcosa alla Cina che poi ci deve dare qualcosa in cambio. Noi sapevamo come loro se lo sarebbero rivenduto».
Secondo la ricostruzione dei giornalisti del Foglio Giulia Pompili e Valerio Valentini, in quei giorni piuttosto concitati, a dimostrazione della grande valenza simbolica dell’accordo, Xi Jinping minaccia di far saltare la visita di Stato. Tutto rientra, il viaggio ha luogo, e per l’Italia il MOU è siglato dal ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, cui si affiancano 29 accordi, istituzionali e tra aziende. «Riequilibrerà a nostro favore la bilancia commerciale», dice Di Maio a margine della cerimonia.
Dopo più di quattro anni, i rapporti commerciali dicono il contrario. Il disequilibrio evidente nella bilancia dei pagamenti, che in teoria con l’accordo doveva diminuire, è oggi ancora più marcato. Se le esportazioni italiane fanno registrare certamente un miglioramento, passando dagli 11 miliardi del 2016 ai 16,4 miliardi del 2022, le importazioni dalla Cina subiscono un aumento spettacolare: nel 2016, l’Italia importava 27,3 miliardi di beni, nel 2022 la somma sale a 57,5 miliardi. Se in termini di beni acquistati da Pechino la posizione italiana è simile a quella tedesca, Roma esporta molto meno di Francia e Germania, che vendono in Cina rispettivamente quasi il doppio (4,03% del mercato) e il triplo (6,77% del mercato) dei beni venduti dagli italiani (2,73% del mercato).
Il Grand Continent ha contattato l’ex ministro degli Esteri, tra i principali artefici di quella firma, per chiedergli di trarre un bilancio politico ed economico del memorandum, ma Di Maio ha preferito declinare.
Da Pechino a Trieste: «Non ci consegneremo nelle mani dei cinesi»
Uno dei tanti settori dove l’intesa non ha dato grandi risultati è quello dei porti, che invece avrebbero dovuto essere la principale infrastruttura a beneficiare della più profonda collaborazione con la Cina. L’interesse cinese sui porti italiani è stato a lungo al centro di dibattito. Trieste, per esempio, sarebbe dovuto essere uno degli sbocchi principali della Nuova via della Seta nell’Europa meridionale, tanto che il presidente dell’autorità portuale giuliana, Zeno D’Agostino, vero e proprio protagonista della rinascita dello scalo cittadino, è presente il 23 marzo 2019 a Villa Madama e firma anch’egli un accordo con il colosso cinese CCCC per degli investimenti nel Trihub, il progetto di interconnessione tra il porto e il nodo ferroviario. L’intesa prevede opportunità reciproche: il porto di Trieste potrà partecipare a progetti logistici di CCCC in Cina e Slovacchia, cosa che si concretizza pochi mesi dopo, il 5 novembre 2019, a Shangai, dove Di Maio e D’Agostino siglano una partnership con l’azienda cinese per lo sviluppo di aree industriali sino-italiane in Cina, che saranno collegate al porto di Trieste e al sistema logistico italiano.
Dopo un iniziale grande interesse che sembrava prefigurare anche un investimento cinese nel terminal Piattaforma logistica Trieste (PLT), la pandemia e l’intensificarsi delle tensioni tra Cina e Stati Uniti cambiano le carte in tavola. Il 29 settembre 2020 non è un’azienda cinese ad aggiudicarsi la gestione della PLT fino al 2052, ma la tedesca Hamburger Hafen und Logistik (HHLA), con sede ad Amburgo. Al momento dell’accordo, Zeno D’Agostino fa capire implicitamente che la fase è cambiata: «L’intesa dimostra come la più compiuta attuazione della Via della Seta non si esaurisce nella Belt And Road Initiative di impronta cinese. Mancava finora una visione forte da parte europea, capace di integrare e bilanciare punto di vista e interessi provenienti dall’Asia».
La traiettoria dell’azienda tedesca testimonia anch’essa il mutato contesto geopolitico. HHLA è stata per mesi in trattativa per cedere meno del 25% delle quote della società Container Terminal Tollerort GmbH (CTT), che gestisce uno dei principali terminal del porto di Amburgo, all’azienda di Stato cinese COSCO. L’accordo ha subito diverse revisioni: inizialmente, i cinesi intendevano acquistare una quota di partecipazione più rilevante, ma il governo federale ha imposto il tetto di un quarto del capitale. L’accordo, che sembrava chiuso alla fine del 2022, è stato rimesso in discussione a inizio 2023, dopo che il governo federale ha dichiarato i terminal del porto di Amburgo “infrastruttura critica”. Lo scorso 12 aprile, il ministero dell’Economia tedesco aveva fatto sapere di stare decidendo le modalità in cui COSCO sarebbe potuta entrare nella società Container Terminal Tollerort GmbH (CTT), per poi concludere l’intesa il 10 maggio, concendendo ai cinesi il 24,9% delle quote.
La trattativa ha immediatamente dato modo all’Italia di Giorgia Meloni di rimarcare la propria ostilità ad accordi infrastrutturali con la Cina, una sorta di preludio a eventuali decisioni sui dossier collegati al Memorandum firmato nel 2019: «Non ci consegneremo nelle mani dei cinesi», aveva replicato nell’ottobre 2022 il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso a una domanda sui possibili interessi cinesi sullo scalo triestino nel caso in cui l’affare con HHLA dovesse andare in porto. C’è da rilevare, in ogni caso, che COSCO non acquista quote di HHLA, ma soltanto della società da essa controllata che gestisce uno dei principali terminal del porto di Amburgo. Si tratta, insomma, di un accordo con poca rilevanza per Trieste.
La COSCO, in verità, stando a quanto riporta il Secolo XIX, sarebbe interessata anche alle aree ex Ilva di Genova. COSCO Shipping Italy, in joint-venture con il gruppo genovese Fratelli Cosulich, ha presentato una lettera riportata dal giornale online Formiche in cui ha comunicato il suo interesse ad aree nella zona genovese «nell’ottica di un investimento presente e futuro sul territorio ligure, con importanti progetti quali la creazione di un autoparco» 4. Cosco è attiva anche a Vado Ligure, e partecipa alle attività del porto da ben prima dell’ingresso italiano nella BRI. «Nel 2016 la società prende in gestione parte del terminal, ma il progetto entra nel dibattito politico e dell’opinione pubblica solo dopo la firma del memorandum», aggiunge Francesca Ghiretti. «Genova è un caso emblematico e ci mostra l’evoluzione dei tempi: nel 2016 gli accordi sono passati inosservati, mentre nel 2019 sono diventati problematici. In questi casi possiamo dire che il memorandum non ha avuto particolare impatto positivo, anzi ha attirato i riflettori, ostacolando i progetti».
Bisogna prestare molta attenzione al modo in cui si annuncia l’uscita, nessuno vuole uno scontro aperto con Pechino
Con l’arrivo al governo di Mario Draghi, la situazione diventa ancora più limpida. Nel suo primo discorso in Parlamento, il presidente del Consiglio nomina la Cina una sola volta, e non in modo positivo: «Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina», dice l’ex banchiere centrale. La preoccupazione non si limita soltanto all’Asia, ma anche alle attività cinesi in Italia: tra il febbraio 2021 e giugno 2022, il governo Draghi utilizza per ben 5 volte, contro investimenti cinesi, il golden power, i poteri speciali attribuiti all’esecutivo per bloccare o modificare operazioni in imprese pubbliche o private in caso di «sussistenza di una minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale».
Giorgia Meloni arriva a palazzo Chigi con una reputazione piuttosto anticinese. Il 23 settembre 2022, a due giorni dal voto, rilascia un’intervista alla Central News Agency, l’agenzia di stampa statale taiwanese. Nell’intervista, Fratelli d’Italia è definita «partito amico di Taiwan», e Giorgia Meloni promette che l’Italia, con lei a capo del governo, rafforzerà la cooperazione bilaterale con Taipei, oltre a condannare duramente le minacce della Cina all’integrità territoriale dell’isola. Pochi giorni prima, Meloni aveva reso pubblico un incontro con il rappresentante di Taiwan in Italia, Andrea Sing Ying Lee, un altro evento simbolico destinato a rendere chiara la cornice in cui la favorita per la vittoria delle elezioni politiche intendeva muoversi una volta al potere.
Anche sulla Via della Seta Giorgia Meloni ha finora espresso posizioni chiare. Ha sempre criticato la scelta del governo Conte, spiegando che l’adesione al progetto è stato un errore: «Se mi trovassi a dover firmare il rinnovo di quel memorandum domani mattina, difficilmente vedrei le condizioni politiche», spiega nell’intervista alla CNA taiwanese. Il governo italiano ha posizioni molto divergenti sulla Russia, ma sulla Cina appare più che compatto: Forza Italia di Silvio Berlusconi non ha mai amato Pechino anche per ragioni ideologiche anticomuniste e la Lega, dopo la parentesi filocinese gialloverde, peraltro come visto vissuta in modo poco entusiasta, ha ormai una posizione atlantista sul dossier. Di Fratelli d’Italia si è detto. Anche l’alta amministrazione italiana è ormai convinta che la firma del 2019 sia stata un errore, e che non rinnovare sia l’unica opzione disponibile, come risulta al Grand Continent dopo numerose conversazioni con funzionari e diplomatici italiani: «L’accordo, dal punto di vista commerciale, vale pochissimo, ed è stato progressivamente svuotato dei suoi aspetti operativi. Però simbolicamente resta rilevante, è difficile rinnovarlo come se niente fosse; certo, bisogna prestare molta attenzione al modo in cui si annuncia l’uscita, nessuno vuole uno scontro aperto con Pechino», sottolinea uno di questi.
Il governo italiano, finora, non ha annunciato ufficialmente la propria decisione. Informalmente però, diversi esponenti della maggioranza, senza mai essere nominati esplicitamente, hanno fatto filtrare alla stampa la volontà di non rinnovare l’accordo. D’altronde, come ha dichiarato il ministro degli Esteri Antonio Tajani al Sole 24 Ore: «In quell’area il nostro partner strategico sta diventando l’India». E infatti, proprio all’India Giorgia Meloni ha dedicato una visita di due giorni, senza dimenticare gli altri partner scelti per firmare memorandum di intesa, il Regno Unito e il Giappone, con cui l’Italia non ha solo accordi commerciali solidi, ma anche militari, come mostra il programma Tempest per lo sviluppo di un nuovo cacciabombardiere
Diverse fonti del governo italiano riferiscono che il punto non è il se, ma il come e quando, una posizione ormai è considerata acquisita dalla controparte americana: «non è questione di se ma di come», ha ripetuto in un’intervista al Giornale Jimmy Panetta, membro della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, in visita in Italia il 9 giugno scorso 5. Che la decisione sia stata presa lo dimostrano anche i numerosi articoli apparsi sulla stampa italiana e internazionale, dove la fine del Memorandum of understanding viene data per scontata. L’ideale, per il governo, sarebbe trovare il modo di rendere il mancato rinnovo meno pubblico possibile, per rassicurare gli americani e minimizzare allo stesso tempo le possibili ritorsioni di Pechino. Tuttavia, analizza Francesca Ghiretti: «Adesso che è sotto l’attenzione delle persone e dei media è difficile tenerlo sotto traccia».
Il 10 maggio, in visita a Praga, Giorgia Meloni ha parlato per la prima volta pubblicamente del rinnovo del Memorandum: «Questa è una decisione che ancora non abbiamo preso, è un dibattito aperto sul quale credo che gli attori da coinvolgere debbano essere molti e a vari livelli. Parlamento compreso. È un dibattito che io ho già aperto in alcune sedi competenti. Ci sono ancora diversi mesi per prendere questa decisione che è delicata, non ho condiviso a suo tempo la scelta che fece il governo Conte, ma oggi va maneggiata con molta attenzione perché in ogni caso è una situazione che riguarda molte dinamiche internazionali».
Per ora, è possibile cogliere alcuni segnali deboli che indirizzano Roma verso un mancato rinnovo. In primo luogo, Taiwan ha capito che esiste uno spazio per rinforzare la propria presenza in Italia senza creare imbarazzi al governo in carica. Il 17 aprile 2023 il ministero degli Esteri ha annunciato l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Milano, per facilitare legami commerciali ed economici e offrire servizi consolari e di emergenza agli espatriati taiwanesi che vivono e lavorano in otto Regioni (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige). All’annuncio è seguita una visita molto significativa: il 17 giugno il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu ha incontrato a Milano due deputati della Lega, Paolo Formentini, e Igor Iezzi, e due parlamentari di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo e Gianpietro Maffoni. Il leghista Gian Marco Centinaio, vice-presidente del Senato, è stato invece ricevuto a Taipei dalla presidente Tsai Ing-wen nell’ambito di un viaggio non ufficiale durato una settimana.
Il 16 giugno, il governo ha adottato il golden power per salvaguardare l’autonomia di Pirelli proprio per limitare l’influenza cinese all’interno di un’azienda considerata strategica. La decisione arriva dopo il patto parasociale sottoscritto tra Camfin, società di Marco Tronchetti Provera, che detiene il 14% delle quote di Pirelli, e Sinochem, società cinese e socio di maggioranza relativa, con il 37% del capitale. Insieme, le due entità hanno il controllo di Pirelli, e l’accordo prevedeva la riduzione dei consiglieri italiani nel Cda e la possibilità per Sinochem di nominare cariche esecutive a partire dal 2026.
Intervenendo, il governo persegue «lo scopo di approntare una rete di misure complessivamente operanti a tutela dell’autonomia di Pirelli e del suo management, nonché a protezione delle tecnologie e delle informazioni di rilevanza strategica possedute dalla società», si legge nel comunicato. Il decreto stabilisce esplicitamente che «l’amministratore delegato di Pirelli tratto dalla lista di maggioranza sia indicato dal socio Camfin», e prevede che «su 12 amministratori tratti dalla lista di maggioranza, 4 dovranno essere indicati da Camfin», lasciandone soltanto 8 ai cinesi, mentre prima il patto parasociale prevedeva 9 amministratori, senza contare che «tutti gli organi delegati da Pirelli siano individuati tra amministratori designati Camfin» e che le decisioni in materie strategiche dovranno essere approvate a maggioranza di 4/5 in cda. In questo modo, nulla può essere deciso senza l’assenso italiano.
Il governo è intervenuto perché Sinochem è una società partecipata dallo Stato cinese e secondo un ordine esecutivo dell’Amministrazione Trump alle dipendenze dell’esercito cinese, circostanza che esporrebbe dunque Pirelli a eventuali sanzioni americane. L’intervento è considerato relativamente poco invasivo: secondo la legge il governo avrebbe potuto imporre un controllo ancora più stringente, sopprimendo i diritti di voto di Sinochem, o addirittura domandando alla società di ridurre la propria partecipazione. La scelta di Meloni è dunque certamente un segnale forte nei confronti di Pechino e di altri investitori cinesi con partecipazioni in aziende italiane, ma non è una dichiarazione di guerra
Secondo il quotidiano Il Foglio, la Farnesina «starebbe lavorando a un documento “alternativo”» al Memorandum, in modo da dare una nuova cornice ai rapporti bilaterali. Tuttavia, il ministero degli Esteri e Palazzo Chigi non confermano questa eventualità, rimandando alle parole della Presidente del Consiglio: per ora le discussioni all’interno dell’esecutivo vertono sul rinnovo o meno dell’accordo, non sulla sua sostituzione con un’intesa da rinegoziare. A questo punto, è probabile che per conoscere la decisione di Giorgia Meloni bisognerà attendere più di qualche settimana, e non è escluso che la questione venga affrontata pubblicamente, con un dibattito parlamentare, o in modo comunque allargato alle rappresentanze politiche presenti nelle due Camere, al Comitato per la sicurezza per la repubblica (COPASIR) 6.
Nel frattempo, la Cina sta evidentemente negoziando su un punto di caduta. Secondo quanto rivelato dal Foglio, Liu Jianchao, ministro a capo del dipartimento per le relazioni internazionali del Partito comunista cinese, è stato a Roma 7 per una missione diplomatica dal 25 al 27 giugno: ha incontrato il presidente del Senato, Ignazio La Russa e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, per poi intrattenersi anche con la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein. D’altronde fino alla fine dell’anno c’è tempo per trattare.
Note
- Federico Fubini, « Tria prepara la missione Cina. Lo scambio tra l’acquisto del debito pubblico e le rotte verso l’Italia », Corriere della Sera, 13 agosto 2018
- Giulio Pugliese and others, Italy’s embrace of the Belt and Road Initiative : populist foreign policy and political marketing, International Affairs, Volume 98, Issue 3, mai 2022, Pages 1033–1051, https://doi.org/10.1093/ia/iiac039
- Il tema è comunque al centro delle discussioni in quel periodo: Alexandra Brzozowski et Jorge Valero, « Don’t be naive with China’, EU leaders tell Italy », Euractiv, 22 marzo 2019
- Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi, « Taipei apre un ufficio a Milano, il secondo in Italia. Ecco perché è importante », Formiche, 17 avril 2023
- Marco Liconti, « Giorgia sta superando le aspettative Usa. Il governo piace pure ai Democratici americani », Il Giornale, 9 giugno 2023.
- Giulia Pompili, « Copasir ? Dibattito in Aula ? Nessuno sa uscire dalla Via della Seta, pare », Il Foglio, 1 giugno 2023
- Giulia Pompili, « Pechino fa lobby per la Via della seta a Roma », Il Foglio, 16 giugno 2023