Le sfide che l’attuale fase storica pone all’ordine internazionale a guida statunitense sono molteplici. Da un lato è ravvisabile un desiderio, avvertito da un numero sempre maggiore di attori, di una diversa configurazione dello scacchiere globale, in una direzione di fatto multipolare, caratterizzata da una più marcata autonomia in termini di alleanze, moneta, commercio: tendenza che pare emergere in modo sempre più palese dal disordine in cui versa il panorama geopolitico – si pensi ai diversi approcci nei confronti della Russia, dall’India a Israele alla Turchia – nonché, sul fronte dei commerci internazionali, dall’uso ormai strutturale da parte di Washington delle sanzioni, circostanza che ha indotto diversi paesi a perseguire una, seppure al momento lontana, strategia di de-dollarizzazione (più volte avanzata in diverse realtà, da quella dei BRICS ai meeting dell’ASEAN, con l’obiettivo di sostituire al dollaro nuove valute o valute locali) 1.
Allo stesso tempo, e apparentemente in contraddizione con tale tendenza, lo scacchiere globale fatica ad emanciparsi dalla logica bipolare dovuta alla sempre più accesa competizione tra Stati Uniti e Cina. Al netto delle ambizioni multipolari degli attori intermedi, l’indiscusso predominio economico e tecnologico delle due, per citare Alessandro Aresu, potenze del capitalismo politico, costringe ad una scelta di campo o quasi, secondo la tradizionale grammatica delle sfere di influenza; la spirale protezionista e di guerra economica tra Pechino e Washington presenta inevitabili riflessi su tutte le catene del valore; basti pensare alla pressione degli Stati Uniti sulla società olandese ASML, essenziale nella filiera dei semiconduttori, per adeguarsi alle misure restrittive adottate contro la Cina. In altre parole, se il disordine attuale suggerisce un maggiore multipolarismo nelle relazioni internazionali (e diversi attori stanno cercando di sfruttare tale congiuntura storica), la forza di gravità del bipolarismo Stati Uniti-Cina concorre nel riportare lo scacchiere a logiche più duali.
Occorre pertanto riflettere sul ruolo che può (o deve) assumere l’Unione europea nella cornice della sfida tra le due potenze del capitalismo politico. Il tema presenta implicazioni su due fronti: da un lato vi è una questione più prettamente tecnico-giuridica, nonché economica, che concerne gli strumenti più adatti per affrontare questa fase storica di competizione geopolitica, in relazione ai principi dei Trattati sui quali è stata costruita la comunità del diritto europea; dall’altro, e in via assorbente in quanto, di fatto, prerequisito necessario rispetto alla fondazione stessa dell’Unione europea, vi è la tematica della politica estera.
Per quanto concerne il primo punto, la competizione tra Stati Uniti e Cina si svolge nel campo dell’uso geopolitico del diritto, tra sanzioni, controlli sull’export, scrutinio degli investimenti esteri, regolazione interessata di particolari mercati, sussidi ai propri campioni nazionali. Un intero armamentario che subordina gli interessi economici a quelli di sicurezza nazionale, in un’ottica di protezione del mercato interno (da penetrazioni eccessive, interferenze, sfruttamento di dati e know-how) e indebolimento di determinati settori del paese rivale (come i controlli sull’export di tecnologie critiche per i semiconduttori e l’AI da parte degli Stati Uniti per colpire il relativo settore cinese). Si tratta di un’espressione limpida del capitalismo politico, che gioca in un piano di stretta intersecazione tra pubblico e privato, politica ed economia, sicurezza nazionale e profitto di mercato. Parole d’ordine, queste, che paiono del tutto incompatibili con l’infrastruttura giuridica europea, costruitasi proprio sul rigetto dell’arbitrarietà politica, in nome invece dell’armonia di mercato: i Trattati comunitari hanno sempre rappresentato, in questo senso, la cristallizzazione degli insegnamenti ordoliberali di primazia del diritto, in un’ottica volta a tutelare i principi di libera circolazione dei capitali, concorrenza, limiti agli aiuti di Stato, divieto di discriminazione, corretta amministrazione.
Un’intera cornice volta a garantire armonia ove, altrimenti, regnerebbe la disarmonia: questo per il semplice motivo che il condominio europeo è abitato da Stati nazionali, autonomi e con propri interessi. Da qui l’utilizzo dell’infrastruttura giuridica – in coerenza, peraltro, con lo spirito del tempo di Maastricht 2, vale a dire l’illusione della fine della storia, del mondo piatto, della globalizzazione inevitabile, dell’economia come paradigma dominante – per contenere le spinte politiche dei diversi paesi membri. Armonia delle regole contro disarmonia della politica.
L’inadeguatezza della costruzione europea rispetto all’attuale fase storica è ben evidente. Nuova centralità dello Stato, protezionismo, interferenze sul mercato, politica industriale, sussidi: trattasi di categorie che l’Unione europea ha sempre espunto, proprio per evitare derive disarmoniche all’interno del mercato comune. Sotto questo profilo, i provvedimenti adottati dall’amministrazione Biden per fare fronte alle sfide della transizione ecologica (nonché per rimarcare la primazia statunitense nei mercati più avanzati), in particolare il Chips Act e l’Inflation Reduction Act, mettono in notevole difficoltà l’Unione europea.
Esempio di riflesso indiretto della competizione bipolare. La domanda è: mantenere una infrastruttura che nega alla radice la possibilità di sussidi, politica industriale e protezionismo, tutelando così l’armonia interna ma rischiando di perdere competitività rispetto agli Stati Uniti o derogare all’infrastruttura, ammettendo l’uso delle stesse carte di Washington, ma con il rischio di fare crollare il mercato interno sotto l’inevitabile peso delle disarmonie tra Stati membri? Tertium non datur, salvo non puntare su un rapporto preferenziale con gli Stati Uniti come quello che questi solitamente accordano a Messico e Canada, nell’ottica dunque di farsi assorbire dal sistema a stelle e strisce.
Questo è solo uno dei tanti temi che attengono agli strumenti giuridico-economici più adatti rispetto alle sfide del nuovo panorama globale. Vi sono diversi altri profili, come quello legato agli investimenti esteri, su cui pure l’Unione europea ha lavorato e sta lavorando, come si accennerà. Il punto però che rimane centrale è quello della politica. L’utilizzo di strumenti idonei per partecipare alla competizione geopolitica presuppone una politica estera comune. Se questa manca, è chiaro che l’unica possibilità di esistenza dell’Unione europea rimane la gabbia d’acciaio della infrastruttura giuridica. È pertanto sulla politica estera che occorre riflettere. In particolare, quale posa assumere dinnanzi alla spinta centrifuga verso il bipolarismo tra Stati Uniti e Cina? O ancora più alla radice: è possibile assumere una posizione comune? E se non è possibile, questo cosa potrebbe implicare in termini di postura dell’Unione europea all’interno dello scacchiere?
Ci si è permessi, al netto di ogni inevitabile semplificazione, e senza giudizi di valore, di tratteggiare quattro scenari. Quattro modelli di Europa a seconda della direzione (o non direzione) che verrà presa: Europa atlantista, Europa euro-atlantica, Europa autonoma, Europa anarchica.
Europa atlantista
In tale prospettiva, l’elemento principale è, da un lato, la sussunzione dell’europeismo nell’atlantismo, dall’altro l’accettazione del ruolo di junior partner, sulla scia del declino relativo dell’Europa rispetto agli Stati Uniti in termini economici (se nel 2008 il Pil europeo era di 16,2 trilioni e quello americano di 14,7, nel 2022 quest’ultimo era di 25, mentre il primo di 19,8) 3, demografici (la popolazione statunitense è in crescita, quella europea in calo) e tecnologici (la primazia è statunitense in tutte le frontiere, salvo rare nicchie europee). In questo senso, l’Europa rinuncerebbe a qualsivoglia ambizione di giocare un ruolo nello scacchiere globale, limitandosi a seguire passivamente la politica estera di Washington, integrandosi al contempo nelle filiere nordamericane, sul modello canadese: ad esempio, stipulando anch’essa un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, in modo tale da beneficiare delle deroghe rispetto alla portata altrimenti discriminante dei sussidi dell’IRA, astenendosi così dal perseguire una autonoma politica concorrenziale di sussidi europei.
L’Unione europea manterrebbe l’attuale infrastruttura giuridica, tenendo salde istituzioni principali e moneta comune – ormai sempre meno discussa nell’eurozona – e senza ulteriori deroghe o progressioni. Rimarrebbe un mercato a-politico o, meglio, squisitamente atlantico, in quanto soggetto alle decisioni di politica estera statunitense, a partire dalla posizione verso Russia e Cina. Da questa prospettiva, l’Unione europea si tradurrebbe più in un mezzo per giungere agli Stati Uniti che in un fine: l’entrata nel mercato rappresenterebbe un ingresso auspicabile non tanto per l’adesione alla costruzione europea, quanto per la maggiore vicinanza a Washington; in merito, il fatto che la Finlandia (e ora si vedrà la Svezia) abbia deciso di entrare nella Nato, nonostante fosse già membro dell’Unione europea, è indicativo di come il costrutto comunitario non sia ritenuto sufficiente. In questo scenario, si troverebbero più a proprio agio la Polonia e i paesi baltici, in coerenza con il lieve spostamento a Est del baricentro europeo a seguito dello scoppio del conflitto ucraino; in particolare la prima, forte dei rapporti con Stati Uniti e Regno Unito, potrebbe giocare un ruolo di maggiore protagonismo nonostante la critica situazione economica e le controversie con Bruxelles in tema di stato di diritto – controversie che vedrebbero, in generale, le istituzioni europee meno assertive, in quanto sempre più politicamente svuotate di peso.
Questa fase storica ha senz’altro acceso qualche segnale in tale direzione: la crisi dell’europeismo rispetto al rinnovato vigore atlantista, anticipata peraltro dall’uscita del Regno Unito, che si è spinto tra le braccia naturali di Washington tramite accordi commerciali, storiche collaborazioni di intelligence come il Five Eyes, patti di sicurezza quali l’Aukus e un profondo attivismo congiunto nel conflitto ucraino, a partire dall’addestramento delle truppe di Kyiv; l’entrata della Finlandia nella Nato; l’adeguamento dell’Unione alla politica estera statunitense tra sanzioni e invio di armi; la maggiore centralità dell’Est Europa; l’aiuto del GNL americano per fare fronte al decouplingdalla Russia; le difficoltà di fronte ai sussidi dell’IRA. Una serie di indicatori certo non sufficienti, ma che concorrono a disegnare l’immagine di un’Europa più atlantista che europea.
Europa euro-atlantica 4
In questo caso, si tratta sempre di un’Europa pendente verso l’atlantico, restando fermo il rapporto di alleanza con gli Stati Uniti, ma nell’ottica di due soggettività autonome e non di mero assorbimento del junior partner come nel precedente scenario: lungi da accettare il rapporto di inferiorità come dato assunto e immutabile, l’Unione europea cercherebbe di trovare convergenze virtuose su taluni campi (nella consapevolezza dell’impraticabilità di una completa unità), dalla difesa alla tecnologia, al fine di aumentare il proprio peso sia in relazione allo scacchiere globale, che nei rapporti con gli Stati Uniti 5.
L’obiettivo sarebbe quello di presentarsi come alleato non sempre allineato, in quanto voce autorevole nel confronto con Washington: in questo senso, l’Unione europea dovrebbe procedere al ricatto morbido – in quanto è anche nell’interesse americano mantenere l’alleanza – nei confronti degli Stati Uniti per negoziare, contrattare e raggiungere compromessi in politica estera; ad esempio, nei confronti della Cina l’Unione europea pare più proiettata ad una strategia di de-risking, per usare le parole di Ursula von der Leyen, piuttosto che di più radicale decoupling (peraltro, di difficile prospettazione anche per gli stessi Stati Uniti, come ha fatto di recente intendere Yanet Yellen).
In generale, tale posizione euro-atlantica dovrebbe avere come sbocco quello della suddivisione ideale delle aree geografiche per affrontare le sfide future, anche nella – seppure non del tutto convincente sotto il profilo teorico – cornice del confronto tra democrazie liberali e autocrazie. In quest’ottica, l’Unione europea, facendo leva sul fatto che gli Stati Uniti non possono da soli gestire tutti i teatri di crisi presenti e futuri, dovrebbe assumersi la responsabilità di alcune zone strategiche, come i confini con la Russia a est e il Mediterraneo a sud, cosicché gli Stati Uniti possano far confluire maggiori risorse sull’Indopacifico. È chiaro che in questo caso si sarebbe ancora iscritti nella politica estera atlantica: il punto è il diverso potere contrattuale che l’Unione, attraverso virtuose convergenze in settori strategici, cercherebbe di assumere, tale da permettere, eventualmente, di limitare talune ortodossie assertive statunitensi se considerate, a torto o ragione, in contrasto con gli interessi europei, o di avanzare tempi e strategie alternative, nell’obiettivo ultimo di trasformare la politica estera atlantica in una politica estera, per l’appunto, più euro-atlantica.
Europa autonoma
Le recenti parole del Presidente francese Macron sull’autonomia strategica europea, che in ogni caso riprendono i ragionamenti della Dottrina Macron già sviluppati nell’intervista rilasciata a questa Rivista nell’autunno del 2020 6, hanno fatto molto discutere. In tanti hanno intravisto una proiezione gollista volta, da un lato, a rendere l’Europa uno strumento per le ambizioni francesi, dall’altro a coprire i problemi di politica interna. Al netto delle intenzioni del Presidente francese, la chimera dell’Europa autonoma rappresenta l’ipotesi più improbabile, considerata l’intrinseca divergenza tra paesi membri, tale da renderne difficile il verificarsi dei relativi presupposti: superamento del veto; esercito europeo; assenza di eccezioni di sicurezza e interesse nazionale in capo ai singoli Stati; condivisione da parte della Francia dei codici nucleari e rinuncia al seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu in favore dell’Unione europea; formazione di un popolo europeo e collocazione del gioco democratico a tale livello sovrannazionale.
Questo giusto per sottolineare alcuni profili. Per non menzionare poi l’aperta ostilità degli Stati Uniti rispetto a una simile ipotesi, nonché l’incompatibilità – sul piano sostanziale – della Nato con l’esercito comunitario, oltre che dell’autonomia strategica con le basi statunitensi in suolo europeo (prime fra tutte, Germania e Italia). Si tratta di un’ipotesi, pertanto, che si scontra con la storia: da un lato sotto il profilo della conformazione europea come conseguenza dei rapporti di forza emersi dopo la fine della Seconda guerra mondiale; dall’altro sotto il profilo dell’esistenza indiscussa, in quanto radicata da un punto di vista storico, linguistico, identitario, giuridico, degli Stati-nazione.
È chiaro, dunque, come la prospettiva autonoma fatichi a tradursi in realtà. Molto spesso è invocata anche dall’opinione pubblica di sinistra, poco incline a seguire l’atlantismo – non solo nella forma più estrema dell’Europa atlantista, ma anche in quella semplicemente euro-atlantica – e perciò tendenzialmente favorevole all’idea di un’Europa autonoma, equidistante e pacifista. Prospettiva che si scontra non solo con la discrasia tra modello economico europeo, fondato sull’ordoliberalismo, e politiche vagamente socialiste, ma anche e soprattutto con il fatto che non c’è un popolo, né generale né di lavoratori, per dare vita a questa Europa autonoma. Ogni collettività mantiene quella dimensione intrinsecamente nazionale che nessuna prospettiva di democrazia europea riesce al momento a elidere. Ne consegue, di fatto, per tornare alle accuse di gollismo a Macron, che la strada dell’autonomia presenterà sempre un volto, più o meno nascosto, nazionale. In questo senso, l’Europa autonoma o è a trazione francese o non è. Oppure, o è a trazione tedesca o non è. Qui veramente, verrebbe da dire, tertium non datur.
Europa anarchica
Quest’ultimo scenario è quello più idoneo a rappresentare le vie di mezzo, la conformazione ibrida che sovente tende ad assumere il condominio comunitario. In questo senso, la divergenza fra Stati membri si intensifica – come è in parte accaduto con il combinato disposto tra pandemia e conflitto ucraino, che ha sprofondato l’Unione europea in uno stato di semi-anarchia a livello sia giuridico, tra deroghe in fatto e in diritto, che politico – e non consente di individuare nemmeno astrattamente una direzione comune, come in parte possono invece leggersi i tre scenari di cui sopra. Da questo punto di vista, ogni Stato continuerebbe ad agire per conto proprio: ad esempio, la Francia e la Germania manterrebbero talune ambiguità nei rapporti con gli Stati Uniti e la Cina, la Polonia continuerebbe a ritagliarsi una centralità geopolitica in chiave atlantica e via dicendo. Le istituzioni rimarrebbero tali, ma meno effettive, in quanto l’anarchia toglierebbe vigore al vecchio asse franco-tedesco un tempo predominante a Bruxelles, sicché i rapporti di forza si muoverebbero in modo più caotico.
Rimarrebbero le mezze misure: qualche deroga alla normativa sugli aiuti di Stato per affrontare l’Inflation Reduction Act, ma limitata; qualche fondo sovrano per le tecnologie verdi, ma con scarse risorse economiche; qualche misura protezionista, talvolta verso la Cina, altre però all’interno dello stesso condomino comunitario, senza dunque una precisa politica estera comune. Nella sostanza, una posizione dell’Unione europea che non è una posizione. Un’effettività ridotta e una maggiore anarchia tra paesi membri. In questo senso, non spiccherebbe né un marcato atlantismo, per quanto nella prassi rimarrebbe l’indirizzo più radicato, né credibili spinte verso l’autonomia, né le tanto temute sirene orientali o euroasiatiche. Rimarrebbe un costrutto sostanzialmente fondato sull’accettazione delle istituzioni principali (nella misura in cui non incidano eccessivamente sugli Stati nazionali) 7 e della moneta unica, probabilmente non destinato a dissolversi ma sicuramente non a progredire in maniera sostanziale, ove all’atlantismo spiccato di taluni paesi si contrapporrebbe una dimensione più defilata di altri. Nel complesso, un mercato sempre meno armonico e politicamente senz’altro anarchico.
La complessità del reale è poco incline a farsi comprimere in schematismi. Ad un’analisi deve sempre seguire la relativa problematizzazione, che evidenzi come i diversi schemi tendano ad intrecciarsi, dialogare, contaminarsi. Per quanto qui ci interessa, è chiaro che il terreno di fondo, ineliminabile o quasi, è quello anarchico, considerata l’assenza di unità all’interno dell’Unione europea, così come la prospettiva più irrealistica sul lato pratico (meno su quello teorico, in quanto più volte invocata) è quella dell’autonomia, per le ragioni di cui sopra.
Gli sviluppi tra questi due estremi possono assumere però diversi volti. Ad esempio, mentre i singoli capi di governo, da Macron a Sànchez, volano a Pechino e mantengono posizioni moderate nei rapporti con la Cina, le istituzioni comunitarie, in particolare la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, stanno procedendo con una strategia più assertiva 8 nei confronti dell’Impero celeste, in un’ottica più affine al modello euro-atlantico che quello autonomista: non va infatti sottovalutata l’azione europea in temi di investimenti esteri cinesi, che di recente si è tradotta nell’adozione di diversi strumenti protettivi (anche nel tentativo di adeguare l’infrastruttura giuridica a questa fase storica), dal Regolamento 2019/452 alle politiche sul 5G, dalle norme sulla tutela della reciprocità al prossimo Foreign Subsidies Regulation.
Strumenti costruiti, sostanzialmente, per Pechino, non di certo per Washington – difatti nella pratica le operazioni commerciali prese di mira sono quelle poste in essere da imprese cinesi – a riprova di come una parte delle istituzioni di Bruxelles stia lavorando (rafforzandosi e rinnovandosi in taluni ambiti) su un modello simile a quello euro-atlantico, in parziale contrapposizione con le velleitarie affermazioni di Macron. Parallelamente, però, tali iniziative di Bruxelles sono depotenziate dal protezionismo interno degli Stati europei stessi, propensi se necessario a competere tra loro con armi giuridiche ed economiche, possibilità facilitata dalle deroghe all’infrastruttura giuridica seguite allo scoppio della pandemia. Così come le divergenze politiche, si pensi all’opposto approccio verso la Russia di Polonia e Ungheria, a testimonianza di come il gruppo di Visegrad fosse meno unito di quanto si voleva credere, nonché in generale tra nuova Europa e vecchia Europa, paiono ricondurre lo scacchiere comunitario all’ipotesi anarchica – ed essendo questo lo scenario più realistico ma meno virtuoso, è allo stesso tempo anche quello che più rende possibile l’appiattimento in salsa atlantista di un junior partner europeo sempre più debole e meno autorevole.
Il panorama è complesso e di difficile definizione. Non è dato sapere quale strada intraprenderà l’Unione europea. Qui ne si è tratteggiate quattro, alcune più realistiche, altre più improbabili. In ogni caso, sono quelle che, a parere di chi scrive, appaiono astrattamente più concepibili. Quattro scenari che sono allo stesso tempo quattro modelli. Ognuno sarà poi libero di valutare, in base alla propria sensibilità politica, quale di queste appaia più auspicabile, al netto della realizzabilità o meno.
Note
- P. Chen, Calls to move away from the U.S. dollar are growing – but the greenback is still king, cnbc, 24 aprile 2023. Tra i vari motivi, vi è anche l’utilizzo da parte di Washington del ruolo preponderante del dollaro negli scambi internazionali per rendere le proprie sanzioni applicabili anche a soggetti non americani: difatti, l’utilizzo del dollaro in una transazione sottende l’intervento di una banca americana (c.d. di corrispondenza), che può al caso impedire la transazione stessa.
- Ci si permette di rimandare a L. Picotti, I dilemmi dell’Europa di fronte all’Inflation Reduction Act, pandorarivista.it 8 marzo 2023.
- J. Shapiro, J. Puglierin, The art of vassalisation: How Russia’s war on Ukraine has transformed transatlantic relations, ecfr.eu 4 aprile 2023. Certo, se si prende in considerazione altri fattori (tasso omicidi, mortalità infantile, aspettative di vita etc.) i paesi europei presentano indicatori senz’altro migliori di quelli americani; in questa sede però ricchezza, demografia e tecnologia presentano un peso più rilevante.
- Sul concetto di Europa euro-atlantica si veda M. Dassù, Economia e strategia: gli europei e il problema USA-Cina, Aspenia online, 24 aprile 2023
- Sul punto si veda il Report European Strategic Autonomy: What it is, Why we Need It, How to Achieve It, Istituto Affari Internazionali, 2021, ove si legge come: “A more balanced transatlantic relationship would see a gradual shift from a partnership in which the US defines and implements strategy and at most calls upon Europeans to share the burden, to one in which, within the bounds of an enduring asymmetry, the US and Europeans would define their goals together and share the risks and responsibilities in pursuing them”. Nonostante si utilizzi il concetto di autonomia, il paper si focalizza, invero, su prospettive più che altro di Europa euro-atlantica, ove tramite il rafforzamento in determinati campi (dalla tecnologia alla difesa) si vuole ottenere un ruolo di maggiore autorevolezza in campo internazionale, ferma restando la cornice atlantica.
- Sulla visione complessiva di Macron, si rimanda a La dottrina Macron: una conversazione con il Presidente francese, Il Grand Continent, 16 novembre 2020. Sulle ambizioni di autonomia strategica si veda anche il recente intervento del Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, Europa, una potenza in divenire, Il Grand Continent, 1 aprile 2022.
- Sull’accettazione delle istituzioni condizionata al riconoscimento della centralità degli Stati nazionali, si è recentemente espresso il Presidente polacco Mateusz Morawiecki nel suo “discorso della Sorbona”: «In Europa niente potrà salvaguardare la libertà delle nazioni, la loro cultura, la loro sicurezza sociale, economica, politica e militare meglio degli Stati nazionali. Altri sistemi sono illusori o utopici. Possono essere rafforzati da organizzazioni intergovernative e anche parzialmente sovranazionali, come l’Unione Europea, ma gli Stati nazionali in Europa non possono essere sostituiti» (La dottrina Morawiecki: il piano della destra radicale polacca per riorganizzare l’Europa, tradotto in italiano da Il Grand Continent).
- Sul punto si veda F. Galietti, Il tempo dell’ingenuità con la Cina è finito, Panorama, 12 aprile 2023.