Key Points
  • Nelle ultime due settimane, in Sudan si sono verificati scontri tra le due principali figure dell’establishment militare: i generali Abdel Fattah al-Burhan, comandante in capo delle Forze Armate Sudanesi (SAF) e Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”, capo delle Forze di Supporto Rapido (RSF).
  • In Sudan, l’esercito – più dell’alta amministrazione civile – si considera l’unica vera istituzione nazionale al di sopra degli interessi di parte e regionalistici. Per molto tempo, lo Stato sudanese ha tenuto insieme sistemi di disuguaglianze sociali, etniche e regionali senza ricorrere alla violenza estrema per mantenerli.
  • Oggi, il confronto tra Burhan e Hemedti è una lotta tra un vecchio sistema incapace di adempiere al suo mandato e un nuovo sistema che vale solo grazie alla sua identità singolare. Anche se si arrivasse a un cessate il fuoco, è probabile che la legittimità degli attori armati in Sudan non sarebbe messa in discussione.


Dal 15 aprile
, dei combattimenti con armi pesanti, veicoli blindati e aerei da guerra si stanno svolgendo in diverse grandi città sudanesi, tra cui la capitale.

A opporsi sono le due figure principali dell’establishment militare dal 2019, i generali Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”. Il primo è il comandante in capo delle Forze armate sudanesi (SAF), mentre il secondo è a capo delle Forze di supporto rapido (RSF), un’entità paramilitare creata nel 2013 ed erede delle milizie arabe, note anche come Janjawid, che venivano armate per combattere i movimenti di opposizione in Darfur negli anni 2000.

Il doppio interrogativo strategico del Sudan

se chi scrive, seguendo altri osservatori, ritiene che il SAF riuscirà a battere il potente rivale grazie alla sua indiscussa superiorità aerea e logistica garantita dall’appoggio appena celato dell’Egitto. Tuttavia, al di là dei legittimi dibattiti sulle possibili o necessarie ricomposizioni politiche che seguiranno il silenzio delle armi, ci sono due domande strategiche sul futuro del Sudan che devono trovare una risposta radicale per non ricadere negli errori del recente passato.

La prima riguarda le ambizioni miliziane che fanno parte del DNA del SAF. È necessario ricordare che, fin dall’indipendenza, il SAF è stato molto presente nell’arena politica (1958-1964, 1969-1985, 1989-2019, 2019-) mentre, curiosamente, il suo coinvolgimento diretto nelle molteplici guerre interne del Sudan si è limitato, il più delle volte, all’uso indiscriminato di artiglieria e bombardamenti aerei. Queste milizie hanno condotto la lotta contro i movimenti di opposizione armata per conto del SAF, anche se questo ha portato a maggiori danni collaterali e ha trasformato gli scontri politici in vendette etniche. I combattimenti odierni tra SAF e RSF sono il culmine di questa storia, con lo strumento che si rivolta contro il suo creatore e porta i semi della guerra civile in tutto il Paese.

Limitando il più possibile i combattimenti a terra, il SAF ha creato numerose milizie filogovernative, spesso radicate in particolari gruppi tribali o etnici mobilitati per rivendicazioni di status e/o di assegnazione di terre

Roland marchal

L’importanza di una riflessione su questo tema deriva in particolare dall’enorme errore commesso nelle ultime settimane di pace civile a Khartoum, quando la posta in gioco dell’integrazione della RSF nelle SAF è stata concepita su un modello che avrebbe fatto rabbrividire di piacere i turiferari del DDR delle Nazioni Unite. Mettendo tra parentesi le questioni storiche e sociali della questione e ignorando il massiccio reclutamento in nuove milizie orchestrato dall’intelligence militare e dagli islamisti, i negoziati non potevano che fallire e rafforzare la possibilità, a causa di un clima politico già profondamente deteriorato, di scontri con questioni radicali. Ci sarà un esercito nazionale in Sudan solo quando questo metodo di condurre la guerra interna sarà stato rifiutato dall’establishment militare.

Khartoum, Sudan, sabato 22 aprile 2023. I combattimenti nella capitale tra l’esercito sudanese e le forze di supporto rapido sono ripresi dopo il fallimento di un cessate il fuoco mediato a livello internazionale. Foto © AP/Marwan Ali

La seconda questione riguarda la visione che i sudanesi hanno del proprio Paese. Per molto tempo, lo Stato sudanese ha mantenuto sistemi di disuguaglianze sociali, etniche e regionali senza ricorrere alla violenza estrema per mantenerli. Solo negli anni Sessanta, in un contesto di doppia polarizzazione internazionale legata al posizionamento della questione israeliana e alla competizione tra Est e Ovest, nuove dinamiche hanno portato a un uso sempre più marcato della coercizione. Questo fenomeno ha origini molteplici e complesse, ma è entrato a far parte del discorso politico sudanese attraverso un dibattito più o meno rigoroso sui margini del Sudan e sulle forti disuguaglianze di rappresentanza negli ambiti economici, politici e istituzionali che li definiscono. In un certo senso, la sua espressione condensata si trova nel Libro nero pubblicato all’inizio degli anni Duemila dai sostenitori islamisti dell’allora destituito Hassan al-Turabi, che contiene numerose statistiche sulle rappresentanze regionali all’interno dell’apparato statale e che, al netto dell’omogeneità islamica, riecheggia il libro programmatico di John Garang scritto con ben altro spirito all’inizio degli anni Ottanta: Il Sudan è governato da una piccola élite della Valle del Nilo e del Nord, che si appropria di tutti i privilegi a scapito delle altre regioni improvvisamente definite periferiche.

Per molto tempo, lo Stato sudanese ha mantenuto sistemi di disuguaglianze sociali, etniche e regionali senza ricorrere alla violenza estrema per mantenerli

roland marchal

Il conflitto tra Burhan e Hemedti riflette questa situazione e riecheggia il ripetersi degli scontri in Darfur, i combattimenti nel Sud Kordofan e nel Nilo Blu negli ultimi due decenni e le tensioni nel Sudan orientale nonostante una fragile normalizzazione nel 2006. La questione, domani più di oggi, sarà quella di definire il Sudan di cui stiamo parlando: quello che fa parte dell’arena politica, quello che si tiene ai margini e vorrebbe evitare di avere a che fare con lo Stato e quello che vi si oppone il più frontalmente possibile. Tre Sudan dissimili, costruiti su narrazioni identitarie, frustrazioni regionali e disuguaglianze di status, che devono coincidere affinché la pace, una pace che non si limiti a Khartoum, possa regnare sul territorio nazionale.

Un DNA miliziano e putschista

Senza tentare un’archeologia delle pratiche belliche dell’istituzione militare sudanese, va detto che queste mobilitazioni di milizie hanno una storia antica, che risale almeno alla rivolta mahdista di fine Ottocento e che si è radicata profondamente grazie alla politica militare dello Stato coloniale britannico, che non aveva soldi né voglia di impegnarsi direttamente nelle molteplici rivolte che infiammarono il Sudan rurale a partire dagli anni Venti.

La questione, domani più di oggi, sarà quella di definire il Sudan di cui stiamo parlando: quello che fa parte dell’arena politica, quello che si tiene ai margini e vorrebbe evitare di avere a che fare con lo Stato e quello che vi si oppone il più frontalmente possibile

roland marchal

Il Sudan indipendente è stato presto segnato da questa realtà a causa del conflitto nel Sudan meridionale e degli incidenti avvenuti altrove, soprattutto in Occidente. Ma il grande periodo delle milizie è iniziato negli anni ’80 – prima che gli islamisti salissero al potere – quando la lotta contro il movimento di John Garang, il Movimento di liberazione del popolo del Sudan (SPLM), si è basata sulla formazione di milizie. Ma già nel Sudan meridionale c’era una proliferazione di milizie etniche fornite dal SAF, che aveva individuato le comunità ostili ai Dinka, che poi hanno costituito l’ossatura del SPLM: Anuak, Nuer, Toposa, ecc. Altri gruppi di miliziani, i Murahilin, che sono stati infine assorbiti nella RSF nel 2013, sono attivi nella zona di confine tra Nord e Sud Sudan.

L’arrivo al potere degli islamisti alla fine di giugno 1989 ha sistematizzato questa priorità fino a trasformare la guerra contro il SPLM nel Sud Sudan in una vera e propria guerra civile sud sudanese. Queste milizie presentano poi diverse particolarità. Esse sono spesso il risultato di rivendicazioni specifiche contro i Dinka e di un desiderio di vendetta contro il comportamento predatorio di molti comandanti del SPLM, e vengono inoltre costituite in prossimità di zone di produzione petrolifera: l’obiettivo è quello di allontanare la popolazione in modo che l’esplorazione e lo sfruttamento del petrolio possano avvenire senza mettere in pericolo le compagnie straniere. Tuttavia, il SAF deve stare attento a non creare una milizia troppo potente, che provochi rivalità e spaccature interne e quindi, meccanicamente, nuovi scontri.

La scelta del regime è razionale. Per i leader sudanesi, l’economia era allo sbando, lo Stato era in rovina e sottoposto a sanzioni internazionali: scaricare la guerra sui gruppi di miliziani non era molto costoso. Inoltre, essi nutrivano una certa diffidenza nei confronti dell’istituzione militare ed erano più a loro agio con la creazione di forze alternative. C’è anche una dimensione più ideologica: per anni, la guerra nel Sudan meridionale è stata descritta come una guerra santa condotta dalle Forze di Difesa Popolare (PDF) – altre milizie – guidate da molti giovani quadri islamisti che perderanno la vita in gran numero.

La scelta del regime è razionale. Per i leader sudanesi, l’economia era allo sbando, lo Stato era in rovina e sottoposto a sanzioni internazionali: scaricare la guerra sui gruppi di miliziani non èmolto costoso

roland marchal

Questa scelta non è meno razionale per i militari. È vero che Omar al-Bashir è un paracadutista e appartiene a una delle poche unità che vanno regolarmente in prima linea. Ma l’esercito sa come proteggersi creando questi gruppi di combattenti che consiglia, arma e paga per condurre una guerra sporca. Questo uso intensivo permette anche alla propaganda militare di sottolineare l’arretratezza delle popolazioni del sud, di depoliticizzare i termini del conflitto o piuttosto di attribuirlo a potenze straniere.

Il Darfur porta questa politica al culmine perché il regime vede questo conflitto come una minaccia al suo controllo sui negoziati con il SPLM, la cui posta in gioco è il controllo dei proventi del petrolio. Tuttavia, la guerra è principalmente locale e mette in evidenza il collasso di un tipo di governance prodotto da un’alleanza tra notabili tribali, leader religiosi e amministrazione locale. Riecheggia le migrazioni forzate legate a cause politiche e ambientali e l’indebolimento delle norme fondiarie che, anno dopo anno, avevano funzionato piuttosto bene. I Janjaweed hanno seminato il caos, scacciando le popolazioni non arabe dalle loro terre prima di dividere e rendere questi scontri la tomba di un Darfur pacificato. Ma di fronte alle pressioni internazionali, queste forze devono essere istituzionalizzate per poter essere controllate meglio ed evitare che i loro leader diventino interlocutori esigenti di Khartoum. Da qui la costituzione di una polizia di frontiera e l’ascesa al potere di uno dei principali leader del Janjawid, Musa Hilal, prima che, grazie all’aiuto delle SAF, venisse deposto dal suo vice, Hemedti, che ha assunto il comando di una nuova milizia – le Forze di Supporto Rapido, che includono a loro volta queste guardie di frontiera e diventano nel 2017 una componente dell’esercito. Musa Hilal, scomodo alleato e poi oppositore, è stato arrestato per aver avuto qualche sentore di indipendenza, ma si è ritrovato libero nel 2021 ed è stato oggi promosso dal SAF come possibile alternativa a Hemedti. È proprio l’RSF che intende attaccare oggi.

Un evacuato dal Sudan attende di salire a bordo di una nave militare saudita diretta al porto di Gedda, a Port Sudan, in Sudan, mercoledì 3 maggio 2023. Molte persone sono colpite dal conflitto in Sudan tra l’esercito e una forza paramilitare rivale. Foto © AP/Amr Nabil

Se questa effervescenza delle milizie avviene nelle zone periferiche del Sudan, l’istituzione militare non abbandona mai le sue regole interne di funzionamento: l’esercito non cambia le sue regole e, a differenza del Ciad, non è verosimile aspettarsi un generale a 27 anni o un colonnello a 20 anni. Tuttavia, se l’accesso all’accademia militare per diventare ufficiale rimane indispensabile, la selezione dei giovani candidati è convalidata dai servizi di sicurezza e dal partito al potere: la segregazione sociale che regna all’interno di questo corpo è quindi solo marginalmente messa in discussione e la maggioranza degli ufficiali rimane ieri e oggi proveniente dalle stesse regioni del Paese – e, anche se questo è un po’ semplicistico, principalmente da tre gruppi: Sha’iqi, Ja’alin e Danaqla.

L’esercito, più che l’amministrazione civile, si considera l’unica vera istituzione nazionale al di sopra degli interessi di parte e regionalistici

Roland marchal

Mentre acuisce, attraverso il suo modo di mantenere l’ordine, i particolarismi locali e le gerarchie sociali che si oppongono all’ideale repubblicano e islamista, l’esercito – più dell’alta amministrazione civile – si considera l’unica vera istituzione nazionale al di sopra degli interessi di parte e regionalisti. Questa segregazione non è solo sociale, ma anche economica e politica. Quando parliamo del corpo degli ufficiali oggi, dobbiamo notare l’impatto del precedente regime nel monopolizzare parte dell’economia a vantaggio degli ufficiali superiori e a discapito degli ufficiali inferiori, che sono sia desiderosi di accedere a queste rendite di posizione, sia più vicini al popolo attraverso il loro tenore di vita. In un certo senso, Burhan è tanto il presidente di un consiglio di amministrazione quanto il capo indiscusso delle Forze armate nazionali.

Il confronto tra Burhan e Hemedti manifesta quindi la fine di un ciclo: il fronte della milizia si rivolge all’istituzione militare per contestare l’interezza del potere. Se il termine paramilitare e il passato dei membri del RSF spaventano l’opinione pubblica, bisogna considerare questo corpo di guerrieri come il successo più compiuto del SAF, l’immagine speculare della sua realtà militare e oggi anche lo strumento di una vendetta storica. La distruzione programmata della capitale dovrebbe quindi indurre i vari protagonisti, sudanesi e stranieri, a interrogarsi sull’urgenza di un ripensamento più radicale dei loro progetti di riforma del settore della sicurezza.

Vista di un veicolo militare distrutto nel sud di Khartoum, Sudan, giovedì 20 aprile 2023. L’ultimo tentativo di cessate il fuoco tra forze sudanesi rivali è fallito, mentre gli spari scuotevano la capitale Khartoum. Per tutta la notte e la mattina di giovedì, gli spari sono stati uditi quasi costantemente nella città di Khartoum. © Foto AP/Marwan Ali

Un Sudan molteplice che rischia la frammentazione

La sequenza ci costringe a tornare a una domanda più fondamentale: che cos’è il Sudan e qual è il significato dell’appartenenza a questa comunità nazionale? Tendiamo a dimenticare quanto il Sudan fosse diviso su questo tema durante la nascita del dibattito sull’indipendenza a partire dagli anni Venti e quindi il suo complicato rapporto con il nazionalismo egiziano. Eventi traumatici come il periodo della colonizzazione egiziano-ottomana (1821-1884) o la rivolta mahdista (1881-1898) influenzano ancora oggi alcune posizioni. L’esistenza di due grandi correnti politiche – una unionista che esprime simpatia per l’Egitto, l’altra mahdista le cui radici storiche implicano il rifiuto di una sovranità limitata – ma anche il grande silenzio delle poche élite sud sudanesi fino al 1947 sono significativi. Questa realtà politica frammentata getta luce non solo sulla ricerca di una costituzione islamica, che si è realizzata solo nel 1991 sotto una dittatura che ostentava il suo sostegno all’Islam per negare ogni altra espressione, ma anche su quei brevi e tiepidi periodi in cui un clima democratico ha potuto esistere senza riuscire però far emergere attori politici democratici.

Se tutto sembrava semplice nel Sudan settentrionale (l’attuale Sudan) e molto più complicato nel Sudan meridionale, l’aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche ha rapidamente messo in discussione questa identità afro-araba che veniva difesa nei circoli diplomatici e accademici ma che nessuno voleva veramente in Sudan. Gli anni ‘80 sono stati senza dubbio fondamentali per questa presa di coscienza. Tuttavia, i semi erano già apparsi dopo la caduta del regime di Abboud nel 1964, con l’emergere di partiti regionalisti basati su una forte delusione per la passività dei partiti principali nei confronti delle loro richieste. Gli anni ’80 erano già un periodo di crisi del debito e di nuove ostilità nel Sudan meridionale. John Garang pubblicò allora un manifesto che servì ai suoi sostenitori come catechismo per dare un senso a una nuova guerra, il cui esito egli descrisse con una certa ambiguità: si trattava della separazione del Sud dal Nord o, al contrario, dell’arrivo al potere degli emarginati, di cui i sud sudanesi – o il suo movimento da solo – erano l’espressione collettiva. Sappiamo cosa è successo dopo.

Il nuovo regime emerso dal colpo di Stato del giugno 1989, consapevole della propria marginalità politica e sociale (quanti soldati islamisti c’erano allora? In quali regioni o classi sociali erano stati reclutati gli attivisti dell’organizzazione di Tourabi?), fa una scommessa vincente per costruire una base sociale nelle campagne, per decentrare l’impatto di un’economia in rovina e per ridurre i costi operativi al centro: il federalismo. Per un’organizzazione leninista come quella di Tourabi, per un regime autoritario come quello di Omar al-Bashir, questa è più di una sfida, ma avrà successo fino agli anni 2010.

Il nuovo regime emerso dal colpo di Stato del giugno 1989, consapevole della propria marginalità politica e sociale, fa una scommessa vincente per costruire una base sociale nelle campagne, per decentrare l’impatto di un’economia in rovina e per ridurre i costi operativi al centro: il federalismo

roland marchal

Il federalismo consente la promozione di quadri conservatori locali ai quali non viene chiesto di aderire al progetto islamista, ma solo di sostenere il regime. Le amministrazioni federali creano posti di lavoro, strutture amministrative ed educative, promuovono la burocratizzazione in un clima di polizia. L’essenza del federalismo è assente, ma è possibile consolidare i rapporti di forza locali, ottenere un ingresso nell’amministrazione centrale, nel partito presidenziale, ecc. Per mancanza di denaro, per mancanza di un vero interesse che non sia quello politico, questa organizzazione federale del Paese evidenzia chiaramente le priorità finanziarie, le scelte regionali e dice improvvisamente ciò che tutti sapevano e nessuno osava dire: le disuguaglianze nello sviluppo, l’etnicizzazione delle selezioni nella funzione pubblica, i ritardi orchestrati nei finanziamenti per alcuni terroir, l’aumento degli stanziamenti per altri.

Una lettura puramente etnica o regionalista risulta incapace di cogliere le molteplici motivazioni alla base delle scelte fatte, ma le cifre riportate nel famoso Libro Nero sono precise – anche se ogni volta dobbiamo interrogarci sui processi che hanno portato alle significative differenze. Questa improvvisa enfasi sulle differenze arriva in un momento cruciale, all’inizio degli anni Duemila: è il momento in cui le entrate petrolifere sono al massimo e generano un immaginario di ostentazione tra i più ricchi o la speranza che questo denaro possa comprare lo sviluppo tra i più poveri; è anche il momento in cui si manifestano disordini o guerre nelle regioni che il federalismo ha rapidamente messo da parte.

Foto satellitare Planet Labs PBC che mostra gli incendi all’aeroporto internazionale di Khartoum mercoledì 19 aprile 2023. Esplosioni e colpi di arma da fuoco pesanti hanno scosso la capitale sudanese durante il quinto giorno di combattimenti del 19 aprile, dopo che una tregua mediata a livello internazionale si è rapidamente interrotta. Il fallimento del cessate il fuoco suggerisce che i due generali rivali in lotta per il controllo del Paese sono determinati a schiacciarsi a vicenda in un conflitto potenzialmente prolungato. © Planet Labs PBC via AP

Oggi, conflitti periferici più o meno violenti o virtuali esistono in Darfur (in molteplici varianti), nel Sud Kordofan, nel Nilo Blu, ma anche nel Sudan orientale. Il Sudan ha raggiunto una fase in cui, durante i negoziati di Juba dell’ottobre 2020, i movimenti insurrezionali noti in queste regioni hanno preso l’iniziativa di creare nuovi gruppi per il Nord e il Centro del Paese, come a dire che il Sudan era diventato la somma delle sue periferie, fatta eccezione per la capitale che è stata ridefinita come centro. Si può mettere in dubbio la buona fede e le esagerazioni retoriche di entrambe le parti, ma il fatto è che improvvisamente la questione dell’equa condivisione delle risorse e della fine delle disuguaglianze viene decantata da molti attivisti senza che l’idea di dover condividere più di quanto si ottiene sia mai stata realmente discussa.

Come definire allora il Sudan se tutti si dichiarano emarginati, abbandonati a se stessi, e il governo cerca di dimostrare l’esistenza di un Sudan utile e capace di ripresa economica, ma fatica a ridefinire una cittadinanza inclusiva, visto che le richieste sono così numerose, spesso rese eccessive dalle frustrazioni che esprimono, e comunque lontane dalle negoziazioni tra élite che hanno caratterizzato le scelte fatte dall’indipendenza?

Il confronto tra Burhan e Hemedti può essere visto in un altro modo: quello di una lotta tra un vecchio sistema incapace di adempiere al suo mandato e uno nuovo che vale solo per la sua singolarità identitaria

roland marchal

Il confronto tra Burhan e Hemedti può quindi essere visto in un altro modo: quello di una lotta tra un vecchio sistema incapace di adempiere al suo mandato e uno nuovo che vale solo per la sua singolarità identitaria. A parte il fatto che gli emarginati non hanno quasi mai potuto scegliere il loro rappresentante (come gli appartenenti al centro, la cui definizione precisa sfugge a tutti), resta una domanda essenziale a cui sia il libro di John Garang che il libro nero degli islamisti non hanno saputo rispondere: perché le molteplici periferie del Sudan dovrebbero convergere nella stessa opposizione al centro per ricostruire questo nuovo Sudan più equo e sviluppato, quando queste periferie non si definiscono allo stesso modo, non mantengono gli stessi rapporti con il centro e, soprattutto, non hanno mai voluto unire le forze politicamente?

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Si potrebbe dire senza mezzi termini: queste domande ed altre ancora sono essenziali, ma il realismo che prevale oggi nelle cancellerie porterà senza dubbio a metterle da parte – di nuovo.

Alla fine, un cessate il fuoco apparirà come una grande vittoria, sufficiente forse a far dimenticare la cecità di negoziati che si sono protratti per più di tre anni senza mai mettere in discussione la legittimità degli attori armati, e ognuno potrà rendersi conto che le approssimazioni o le ingenuità che le parti suggerivano avevano più a che fare con la ricerca di un consenso – la logica implacabile del multilateralismo – che con la comprensione della situazione. Dopodiché, non resta che convincere la popolazione sudanese.