«Meloni prova a spezzare alcune catene che tengono la destra ancorata al populismo», una conversazione con Claudio Cerasa 

Claudio Cerasa, Le Catene della destra. Scienza, guerra, giustizia, giovani, complottismo: l'ascesa degli impostori. Inchiesta su un grande imbroglio, Rizzoli, 2022, 304 pages, ISBN 9788817164948

A partire dal suo libro Le Catene della destra, edito da Rizzoli, il direttore del Foglio analizza i primi passi del governo di centrodestra, e alcune scelte meno estremiste delle aspettative avvenute in questi mesi «come tutti i cambiamenti improvvisi, anche questo lascia qualcosa di irrisolto».

Poi si sofferma sulle sfide più generali che quasi tre anni di pandemia hanno lanciato alla società occidentale, con una critica molto dura all’élite del suo paese: «C’è stata per troppo tempo una classe dirigente che io amo chiamare “classe digerente”, che invece di dirigere, digeriva tutto quello che capitava e poi lo giustificava»

Claudio Cerasa è tra i principali osservatori e analisti della politica italiana. Nel suo “Le Catene della destra” descrive le contraddizioni e i limiti della destra italiana, ormai alle prese con il potere. In questa conversazione, Cerasa affronta i primi mesi del governo Meloni alla luce dei grandi cambiamenti geopolitici di questa fase storica.

Alla prova dei fatti quanto aveva analizzato nel suo libro “Le Catene della Destra” si sta riscontrando nei primi mesi di Governo Meloni?

Claudio Cerasa

L’elemento interessante dei primi passi del governo Meloni, un governo che dal suo primo giorno di vita ha capito di avere il dovere di rassicurare, di tranquillizzare, di non terrorizzare ha riguardato certamente la volontà di indicare con costanza non ciò che il governo vuole fare ma ciò che non vuole fare. Le catene della destra sono facilmente individuabili, sono sempre le stesse e coincidono con tutti gli elementi necessari di cui la destra ha bisogno per passare dalla propaganda alla realtà. Sono i nodi sui quali il populismo deve decidere se smentire se stesso o se invece scrivere una nuova storia. Mi sembra che, su alcuni fronti, il populismo di destra stia facendo i conti con una realtà che impone delle svolte strategiche, molte delle quali sono all’insegna dell’incoerenza (per fortuna). E quando il populismo cambia idea, di solito, fa sempre la cosa giusta, mentre quando è coerente con le sue idee, con le sue idee euroscettiche, anti sistema, nazionaliste e protezionistiche, tende a spingere l’Italia verso una direzione pericolosa. 

Facciamo alcune esempi concreti: sulle politiche legate al PNRR, a parole, vi è la volontà di avere grande continuità con il passato, anche se il governo deve ancora dimostrare di essere all’altezza della sfida e i recenti rilievi della Corte dei Conti relativi alla lenta attuazione del piano europeo impongono una svolta di pragmatismo che ancora non si vede; sull’agenda di politica estera, poi, a proposito di incoerenza, Meloni ha scelto coraggiosamente di non essere ambigua col putinismo, elemento invece presente nella sua retorica passata, e di sfidare anche i propri alleati sulla linea della fermezza nella difesa dell’Ucraina; sulle questioni legate all’agenda dell’indipendenza energetica, ancora, vedo zero continuità con il passato delle scelte “Nimby” della destra nazionalista e vedo invece molta continuità con le scelte fatte dal governo Draghi. Sulle questioni legate all’immigrazione, invece, esiste una frattura interna vera all’interno del governo: da una parte vi è la Lega, che sostiene la necessità di utilizzare il pugno duro con i migranti mentre dall’altra vi è Fratelli D’Italia, più orientata a governare l’immigrazione, non a fermarla, e più orientata a cercare risposte europee e più decisa a venire incontro alle esigenze delle imprese italiane, che chiedono da mesi nuovi decreti flussi per regolarizzare migranti e avere così maggiore manodopera a disposizione. 

Sulle questioni legate invece alle politiche sul debito, noto una certa discontinuità con il proprio passato, con il passato della destra, perché la destra, in campo economico, si era presentata a lungo come una forza statalista  e nazionalista, decisa a utilizzare le leve del debito pubblico per risollevare il paese, mentre vedo che ora l’approccio scelto su alcune grandi partite che riguardano il futuro dell’Italia è diverso dal passato. E’ un approccio più di mercato, se vogliamo, e i quattro test su cui misurare questa nuova attitudine sono il futuro di Ita, di Ilva, di Tim e della raffineria di Priolo.

La frattura interna di cui parlava tra Lega e Fratelli d’Italia come esempio di tensione in corso rischia di essere esplosiva, di rompere degli equilibri o per ora in realtà questo governo si sta dimostrando più solido di quanto avremmo potuto immaginare? 

Credo che ci siano molte questioni che possono mettere in difficoltà il governo, e l’immigrazione è certamente una di queste. Qualora ci dovesse essere davvero una svolta europeista da parte del governo, un tentativo cioè di cercare in Europa strumenti utili per risolvere problemi nazionali, si verrebbe certamente a porre un problema di identità all’interno della maggioranza, perché cercare in Europa le soluzioni per governare i flussi migratori significherebbe ammettere che anche su questo terreno non esiste strategia efficace che non passi dalla rimozione immediata e forzata di alcune promesse elencate in campagna elettorale dai campioni del sovranismo. Perché non si possono fermare i flussi, come si era detto, e non si possono fermare le partenze, come si era promesso, e non si può bloccare l’immigrazione, come si era sostenuto. E non si possono chiudere i porti, come si era predicato. E non si possono attuare blocchi navali, come avevano vaneggiato. Sull’immigrazione, per il governo italiano, occorrerà passare dalla propaganda alla realtà. Occorrerà rendersi conto che l’Italia è il primo paese di ingresso nella Ue, ma è solo il quinto paese nella Ue come numero di richiedenti asilo. Occorrerà capire che scommettere sulla relocation in Europa non è semplice se i primi avversari di questa politica sono due amici del cuore di Meloni e Salvini, come Orbán (Ungheria) e Morawiecki (Polonia). E occorrerà capire che per costruire nuovi corridoi umanitari non solo teorici, ma pratici, veloci, efficienti, servirà sempre di più considerare l’Europa come un alleata con cui governare non come un nemico contro cui combattere. Il complottismo nazionalista ti porta a dare delle soluzioni rapide a problemi complessi, il pragmatismo di governo ti porta a dare soluzioni complesse a problemi complessi. Nello scontro tra questi due atteggiamenti qualcosa potrebbe accadere. Su altre questioni ovviamente ci sono tantissime ambiguità, come per esempio sulla politica economica, e non è chiaro cosa il governo farà sulla flat tax, né che tipo di futuro avrà il condono fiscale, né in che modo il governo si adopererà per trasformare l’Italia in un paese più attrattivo, né fino a quando il governo intende sfidare i giovani mettendo le poche risorse presenti nel bilancio italiano per riformare al ribasso le pensioni, e alla fine sono convinto che sarà proprio qui che si deciderà il futuro della maggioranza: sulla sua capacità, o meno, di far crescere il paese come potrebbe e come meriterebbe.


Sul resto dell’agenda di governo vedremo tensioni? Ricordiamo, per esempio, che Fratelli d’Italia e Lega hanno avuto un atteggiamento molto ambiguo sulla necessità di tenere la campagna vaccinale, mentre Forza Italia ha sostenuto il contrario.


Sulla sanità, in effetti, si è intravisto un doppio binario. Dal punto di vista retorico, si è scelto di porre l’accento sulla continuità con le parole del passato della destra, come è apparso evidente nel discorso di insediamento di Meloni, che non ha mai citato i vaccini né la minaccia dei novax. Nelle scelte concrete, però, la realtà sembra essere diversa: il ministro della Sanità è il rettore dell’università Tor Vergata, che durante la pandemia è stato un sostenitore delle tesi e delle linee programmatiche dei vecchi governi e anche del comitato tecnico-scientifico, e che ha dato una mano sia sul green pass sia sull’obbligo vaccinale. Per il resto, sì, certo, vi saranno molte tensioni nel governo, su argomenti ancora più centrali rispetto a quella che è l’agenda della maggioranza sulla sanità, ma ciò che sarà interessante capire nei prossimi mesi sarà questo: la competizione tra Salvini e Meloni avverrà su una piattaforma moderata, ovvero sia sul tentativo di intestarsi un’agenda di governo per il paese, o avverrà su una base diversa, all’interno della quale Salvini potrebbe essere tentato dal divenire, nel governo, il custode unico dell’ortodossia sovranista tradita? 

Giorgia Meloni ha avuto finora un atteggiamento abbastanza chiaro sull’Ucraina, mostrandosi  esplicitamente in linea con Bruxelles e la Nato,  come rivendicato anche in campagna elettorale. Poi però l’alleanza con il blocco di Visegrad permane, anche alla luce della recente visita della Meloni in Polonia. Sono due anime che possono coesistere o a un certo punto si dovranno sciogliere dei nodi?

Secondo me sono due anime che possono tranquillamente esistere e resistere nella misura in cui l’euroscetticismo, che ancora esiste nell’agenda della destra, riesca a riconoscere il senso del limite, cioè riesca a utilizzare questa postura per trattare. Faccio tre esempi pratici che riguardano i rapporti con la Francia: il patto di stabilità, gli aiuti di Stato e le politiche sull’immigrazione. Trovo non scandaloso utilizzare l’euroscetticismo per negoziare, ma non si può non accorgersi che poi bisogna fermarsi un attimo prima, un attimo prima di superare i confini della realtà, un attimo prima di trasformare le battaglie in difesa della nazione in battaglie contro l’interesse nazionale, come capita spesso a chi scommette sull’agenda del nazionalismo.

Viene quasi spontaneo, leggendo da una prospettiva europea il suo libro, notare che c’è un arco radicale, quasi complottista, che permea la destra italiana, e che Fratelli d’Italia ha in parte attirato. È una caratteristica che il governo stempererà?

In parte sì, e lo stiamo vedendo. L’attrazione è dovuta a due ragioni  legate a una caratteristica di Meloni e a una caratteristica dell’opinione pubblica italiana. Da una parte Meloni rappresenta oggettivamente il cambiamento – l’Italia ormai da molto tempo cerca sempre di cambiare qualcosa, i leader che vincono alle elezioni sono quelli che incarnano meglio il sentimento del cambiamento  – e la premier ha in questo momento la possibilità di mettere insieme sia un’Italia arrabbiata, perché è l’unica ad essere stata all’opposizione non negli ultimi cinque anni ma negli ultimi undici anni, e un’Italia più pratica per così di governo, perché negli ultimi mesi Meloni ha mostrato un senso di responsabilità diverso da quello dei suoi alleati ed è diventata un’argine, anche all’interno del suo stesso elettorato, non solo alla sinistra ma anche alla destra estremista. Poi, va detto, vi è una caratteristica più italiana delle leadership, che è quella di stritolare i leader, di soffocarli, di innamorarsi tantissimo di qualcuno, di osannarlo, di venerarlo e poi di disinnamorarsi rapidamente e cercare subito un altro amore. Adesso l’amore è per lei, per Meloni, e paradossalmente il principale nemico della sua leadership oggi non è l’opposizione, non è neppure la caotica maggioranza, ma è tutto ciò che di negativo, di populista, Meloni ha alimentato in questi anni e con cui ora deve fare i conti. Il problema di Meloni, per dirla in modo più chiaro, riguarda i pozzi avvelenati dal suo estremismo nel passato. E una volta che i pozzi sono avvelenati un po’ di quel veleno prima o poi arriverà a destinazione. 

Quanto conta la presa del complottismo in questa fase politica? Questa ha contribuito, almeno in parte, all’ascesa dei movimenti populisti ed estremisti in tutto l’occidente. È parte del passato oppure no?

In Congetture e confutazioni (Il Mulino, 2009), Karl Popper è stato esplicito e le sue parole ci permettono di illuminare quello che è il vero collante trasversale del populismo mondiale: il complottismo. «Quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere» scrisse Popper «essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali». Il problema degli estremisti non è legato alla loro contiguità diretta con il fascismo ma è legato a qualcosa di più sottile, di più pervasivo: la loro contiguità con il lessico usato dai neo complottisti per giustificare ogni rivolta contro il famigerato sistema dominante. Il punto, dunque, quando si parla di estremismo, non è la prossimità tra il mondo della politica e quello dell’eversione, non è l’infiltrazione dei fasci in un partito, non è la nostalgia per alcuni autoritarismi, ma è la tendenza naturale a trasformare il complottismo in uno strumento di propaganda elettorale. Il pensiero unico complottista, trasformando le verità alternative in un manifesto del pensiero libero, tende in modo sistematico e naturale a trasformare i propri avversari in nemici della libertà. E con grande disinvoltura chi abbraccia questo pensiero tende a presentarsi regolarmente sulla scena pubblica con il profilo di chi lotta per ridare ai cittadini un pizzico della libertà che qualcuno diabolicamente gli ha fatto perdere. Alcune volte i nemici della nostra libertà possono essere istituzioni come l’Europa. Altre volte possono essere strumenti come l’euro. Altre volte gli immigrati invasori. Altre volte le mascherine imposte dalla dittatura sanitaria. Altre volte persino i giurati di Sanremo. Altre volte ancora le regole adottate dai governi per sopravvivere alle emergenze.

Sembra che la campagna elettorale di Meloni sia stata impostata per normalizzare la sua posizione proprio per la ragione che ha descritto poco fa, cioè il fatto che gode di un innamoramento sostanziale. E questo sia dal punto di vista geopolitico, con la convergenza sull’asse atlantico ed europeo a difesa dell’Ucraina, sia addirittura su tematiche legate all’illiberalismo. Se confrontiamo alcune sue prese di posizione, per esempio quelle del mese di luglio 2022 da Vox, ci rendiamo conto che c’è stata un’evoluzione totale. Questa secondo lei è tattica oppure indica una vera e propria strategia di governo? 

Penso che sia make-up. Make-up nel senso che una rapida ripassata sul profilo populista, che può essere anche sincera, può indicare una voglia di cambiare o, come scrivo nel libro, di spezzare alcune catene che tengono la destra ancorata al populismo. Ma, come tutti i cambiamenti improvvisi, anche questo cambiamento lascia qualcosa di irrisolto. Perché se una cosa avviene all’improvviso può avvenire anche il suo contrario. Quindi oggi Meloni si dice europeista, d’accordo, ma se dovesse esserci una qualche incapacità da parte del suo governo a mantenere gli impegni presi con l’Europa avrà il coraggio e la forza di non alimentare il complottismo con l’Europa? E insomma: fino a quanto Meloni avrà la forza di tagliare i cordoni ombelicali che la tengono legata a un passato che forse non c’è più? E fino a quanto Meloni avrà il coraggio di zittire i molti dirigenti del suo partito che invece sono cresciuti eccome a pane e complottismo? Per quanto riguarda invece i cambiamento veri, profondi, reali, vi è un tema importante che riguarda l’atlantismo. Meloni fino a tre anni fa (non vent’anni fa) considerava Putin come uno statista, in funzione di una logica perversa che portava quasi tutti i populisti di destra a considerare Putin un alleato fondamentale nella destabilizzazione delle istituzioni europee. Adesso la presidente del Consiglio ha cambiato opinione, e lo ha fatto in modo intelligente quando era all’opposizione, un po’ per convinzione, ovviamente, un po’ perché appartiene a un gruppo parlamentare europeo, ECR, in seno del quale il PiS polacco è un partito importante ed è atlantista, euroscettico ma antirusso, e quindi si è dovuta anche adeguare alla logica dominante del suo gruppo. L’evoluzione che abbiamo descritto corrisponde a un’intenzione, anche nobile, che rischia però di scontrarsi con la cultura politica da cui proviene, l’estremismo, e con l’incapacità di emanciparsi dal complottismo di partiti come Fratelli d’Italia e come la Lega, che quella cultura non sono riusciti ad abbandonarla e che il proprio antieuropeismo prima o poi saranno costretti a farlo sfociare da qualche parte.

Effettivamente è abbastanza impressionante come ci sia oggi all’interno del cosiddetto centro-destra una vera e propria divergenza di fondo su tutte le tematiche fondamentali dei prossimi mesi. Come spiega in fondo questa differenziazione tra Salvini e Meloni, non pensa che in un governo diventerà qualcosa di esplosivo, al punto di rendere difficile l’azione di una stessa Meloni premier. Domanda vera: finora è stato esplosivo oppure in realtà il governo è più solido di quello che pensavamo? E soprattutto: quanto contano le elezioni europee dell’anno prossimo sugli equilibri interni?

Contano moltissimo le elezioni europei. Saranno l’occasione, per Meloni, di provare a dar vita a un suo nuovo partito, un partito dei conservatori europeo, e saranno l’occasione giusta per capire se la Lega di Matteo Salvini avrà intenzione, come chiede da tempo di fare Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, e come chiedono da tempo i governatori della Lega, da Massimiliano Fedriga ad Attilio Fontana fino  Luca Zaia, di fare un passo più lontano dalla stagione dell’abbraccio con l’Afd tedesca e provare così a fare un passo verso il Partito popolare europeo. Per farlo, però, occorrerà non solo la tattica, ma anche la strategia, e una spinta alla moderazione da parte della Lega potrebbe essere inevitabile anche per provare ad avere, nel prossimo Parlamento europeo, un ruolo chiave e non vivere più in uno splendido e inutile isolamento. 

Il Grand Continent In merito invece all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD, secondo lei come cambia il panorama politico, chi potrebbe giovarne, ci sarà una svolta più massimalista nel centrosinistra o invece ci potrebbe essere un impatto positivo rispetto all’astensionismo?

Penso che da un lato ci sarà una disaffezione di una parte dell’elettorato che non si sentirà più rappresentato dalle battaglie del Partito democratico e magari quell’elettorato andrà verso il centro o addirittura verso destra o verso l’astensionismo. Viceversa c’è un evidente tentativo del Pd di prendersi voti del Movimento 5 stelle o anche di pezzi della sinistra che non erano più rappresentati e questo potrebbe portare a un miglioramento nei sondaggi e a un aumento delle performance elettorali del Pd. E avere un Pd che toglie voti al M5s, che regala alcuni voti al centro e che lavora per avere un’opposizione larga non è una cattiva notizia per il paese. Il problema, anche qui, è che oltre un tema di tattica esiste anche un tema di strategia e quello che vedo è che la capacità vorace con cui la destra di governo è riuscita in pochi mesi a impossessarsi di grandi temi che la sinistra ha scelto incredibilmente di dismettere ha costretto gli osservatori a ragionare attorno a un tema importante: ma a forza di considerare di destra estrema tutto quello che fa il governo, quante battaglie di sinistra la sinistra sta regalando alla destra? Penso al garantismo, naturalmente, che è un tema che il Pd ha scelto di archiviare. Penso al tema della difesa dell’Ucraina, che per il Pd è divenuto negoziabile avendo aperto il suo partito a parlamentari provenienti da un altro partito, Articolo 1, che sono contrari all’invio delle armi in Ucraina. E penso per esempio alle questioni fiscali, considerando che la riforma fiscale targata Meloni coincide perfettamente con la riforma fiscale targata Draghi, in almeno quattro punti diversi. E lo stesso si potrebbe dire per le politiche di indipendenza energetica, dove la continuità con l’agenda Draghi sembra essere un tema che interessa più la maggioranza che con Draghi ha avuto problemi che il Pd che con Draghi è andato a nozze.

Non potrebbe giovarne il terzo polo?

Certo, in qualche misura sì. Probabilmente alle europee qualcosa accadrà, e il Terzo Polo potrebbe ottenere risultati più lusinghieri di quelli registrati alle ultime elezioni locali, regionali e comunali. Ma il problema del Terzo Polo, e di Carlo Calenda, è che in Italia sono le novità che polarizzano il dibattito pubblico. E in questo momento le novità più interessanti della politica sono Giorgia Meloni ed Elly Schlein.

Le proponiamo questa provocazione, partendo da una frase pronunciata da Nixon in un incontro con Kruscev: «Se la gente è convinta che ci sia un fiume immaginario da qualche parte, non serve a niente dire che non c’è nessun fiume, si deve costruire un ponte immaginario sul fiume immaginario». È una provocazione interessante perché nel suo libro si nota quasi un appello alla razionalità, al dubbio, alla trasformazione del nostro rapporto rispetto alla complessità del mondo contemporaneo. Fino a che punto è una strada  politicamente percorribile?

In modo pigro, molti osservatori, nei mesi più duri della pandemia, di fronte alle manifestazioni dei no vax, quelle più dure, quelle più violente, hanno spesso utilizzato un’equazione facile e superficiale: estremista uguale fascista. La verità però è un po’ più complessa. E per provare a ragionare sulla natura dell’estremismo politico che caratterizza la stagione in cui viviamo, un estremismo con cui la destra in passato ha dimostrato di saper andare a braccetto, più che immergerci nella dicotomia tra fascismo e antifascismo è utile immergerci in una dicotomia più interessante e più globale: complottismo e anticomplottismo. Il pensiero unico complottista, in verità, non è una prerogativa di un singolo schieramento politico, e in nome della sfida al sistema, in nome della sfida alla casta, in nome della sfida ai potenti, in nome della sfida ai poteri forti, tende a diffondersi con disinvoltura lungo tutti gli estremi. In Italia, però, negli ultimi anni, gli estremi che hanno scelto di non ripudiare il proprio estremismo complottista si sono trovati più spesso a destra che a sinistra. E il meccanismo del perfetto complottista è questo: per potersi ergere a grandi difensori della libertà, si deve creare un nemico immaginario contro cui combattere. Questi nemici, in passato, sono stati questi: la dittatura europea, la dittatura dell’establishment, la dittatura dei poteri forti, la dittatura sanitaria, la dittatura di big pharma, la dittatura della finanza, e quindi poi Soros, i burocrati europei, i virologi. Oggi le cose sono cambiate, necessariamente, e l’immagine da fissare oggi, per capire l’Italia del futuro, è quella del vulcano con il magma al suo interno. Il populista, quando arriva al governo, può scegliere di tappare un cratere, può scegliere di tapparne un altro, può scegliere di tapparne un altro ancora ma alla fine dei conti da qualche parte quel magma dovrà uscire e sarà interessante capire se nei prossimi mesi le forze della destra italiana saranno in grado di scaricare quel magma che hanno in corpo solo sulle bandierine ideologiche.

La necessità di trovare un nemico esterno è il sostrato fondamentale di questa deriva?

Sì. Gli estremisti hanno spesso creato, in maniera scientifica, un enorme pericolo immaginario contro il quale combattere. Prendi un fenomeno complesso. Spiega quel fenomeno individuando chi ne può trarre giovamento. Trasforma nel motore vero di quel fenomeno chi può aver tratto giovamento da quel fenomeno. Costruisci delle teorie alternative alle verità consolidate. Trasforma i difensori delle verità consolidate in nemici della libertà d’espressione. Fai della tua versione complottista un manifesto della libertà. E trasforma chiunque non sia d’accordo con la tua versione dei fatti in un pericoloso nemico della libertà, e dunque del popolo. Una volta individuato lo schema, l’azione di gioco, il meccanismo può essere usato per spiegare tutto e per individuare di volta in volta dei nemici del popolo intenzionati a difendere la verità costituita per trasformare tutti noi in sudditi destinati a perdere la nostra libertà. Creare un pericolo immaginario – pensate alla dittatura sanitaria – ha permesso loro di spacciarsi come difensori della libertà, di libertà in realtà non violate, gli ha permesso spesso di fuggire dalla realtà e gli ha consentito di trasformare la loro difesa farlocca della verità in una difesa di un’altra libertà: quella di essere estremisti. Il problema è che dovendosi occupare poi di cose reali, hanno mostrato tutti i loro limiti: perché di fronte alla pandemia, al covid, alla guerra, al gas, al caro energia, le loro idee del passato hanno mostrato di essere parte dei problemi e non parte delle soluzioni. Pensate alle battaglie sul price cap: quante volte la destra italiana in Europa ha chiesto ai suoi partner europei di non essere egoisti? Pensate alle battaglie sugli aiuti di stato: quante volte la destra italiana in Europa ha chiesto ai suoi partner europei di non essere egoisti? Pensate alle battaglie sull’immigrazione: quante volte la destra italiana in Europa ha chiesto ai suoi partner europei di non essere egoisti?

Nel suo approccio c’è un’insistenza sulla realizzazione discorsiva, dal punto di vista della sociologia potremmo dire che lei lavora molto sul simbolico e sull’immaginario. Cosa pensa dell’aspetto più infrastrutturale del problema complottismo? Come dice Julia Cagé, «la gente non è diventata stupida ma abbiamo semplicemente smesso di spendere soldi per istruirla». Si può immaginare un’agenda pubblica di investimenti proprio per combattere il complottismo attraverso la riduzione delle disuguaglianze, oppure secondo lei sono due elementi da mantenere separati?

Secondo me c’entra molto la capacità, soprattutto di noi che ci occupiamo di fare informazione, di essere in grado di non essere neutrali quando c’è una balla. Perché si possono avere idee diverse sul mondo ma lasciar passare il messaggio che una stupidaggine valga come una verità, che possa essere certificata in qualche modo dai fatti, dai numeri e dalla scienza, ha permesso di alimentare una forma di complottismo anche nelle persone. Io non penso che chi vota i partiti populisti sia un minus habens, una persona che non sa ragionare e che non è istruita. Penso solo che sia deleteria, da parte del mondo giornalistico e mediatico ma anche da parte di un paese, l’incapacità di schierarsi, denunciare e smascherare tutto ciò che corrisponde al falso o ciò che è pericoloso. Questo in Italia è diventato ancora più evidente negli ultimi anni: c’è stata per troppo tempo una classe dirigente che io amo chiamare “classe digerente”, che invece di dirigere, digeriva tutto quello che capitava e poi lo giustificava. Qui sta la differenza tra esercitare una leadership ed esercitare una followership: da una parte c’è un tentativo di guidare i follower, dall’altra parte c’è solo il tentativo di rappresentare ciò che si pensa e ciò che si dice. Questo è il vero tema e credo che ci sia anche da parte degli elettori una disillusione a volte dal mondo della politica perché si fa fatica ad avere una leadership popolare che sappia spiegarti anche delle cose non sempre popolari da fare, spiegarti ciò che un paese deve fare. Quindi il complottismo nasce anche perché si è insinuata in tanti elementi della nostra vita una cultura del sospetto, una cultura del dubbio non liberale, ma una cultura del dubbio a prescindere su qualsiasi cosa, come si direbbe in Italia una cultura dell’”uno vale uno”. E quando una classe dirigente o una classe giornalistica sceglie, di fronte a una forma di populismo estremo, di non schierarsi, in realtà ha già scelto da che parte stare.

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