Questa prospettiva sulle scelte dell’Europa nell’era delle sanzioni è un nuovo episodio della nostra serie «Capitalismi politici in guerra».
La nostra è un’epoca piena di ansie sulla globalizzazione, ma la situazione non è inedita. Nel 1909, il giornalista anglo-americano Norman Angell divenne famoso come profeta dell’interdipendenza economica moderna grazie al suo libro “La grande illusione”, dove evidenziava l’irrazionalità economica della guerra moderna. Angell non sosteneva che la guerra fosse impossibile, essendo invece consapevole della possibilità, ricorrente, che potesse verificarsi un conflitto, ma era convinto che lo sviluppo dei legami finanziari internazionali avrebbe reso le conseguenze di una guerra così nocive per gli interessi comuni da contenere le menti bellicose presenti in tutte le nazioni. L’immensa forza collettiva degli interessi finanziari dei banchieri, dei commercianti, degli industriali, degli investitori e dei rentier d’Europa avrebbe mantenuto la pace.
Angell riteneva che questa garanzia di sicurezza raggiunta grazie alla fragilità sistemica avesse già superato una prova concreta, dimostrando la sua efficacia. La crisi di Tangeri del 1905 non si era trasformata in una guerra franco-tedesca proprio in virtù della paura di un crac finanziario. L’integrità del capitalismo, sosteneva l’autore, sarebbe stata minata da una guerra estesa, ormai contraria ai fondamenti economici della società moderna. Insomma, le logiche della guerra e della coercizione erano incompatibili con la stabilità dell’economia mondiale. La visione di Angell, cristallizzata all’apice della prima grande era della globalizzazione, rimane la più suggestiva di una lunga schiera di teorici del “commercio dolce” che va da Montesquieu a Kant, da Constant a Cobden, e da Jean Jaurès a Thomas Friedman fino ai giorni nostri.
Oggi, la fiducia nei poteri pacificatori dell’interdipendenza è nuovamente oggetto di dibattito. Il 2022 può essere paragonato al 1914 in quanto anno capace di mettere in discussione un intero modello di globalizzazione: l’invasione dell’Ucraina ha fatto a pezzi il sistema globalizzato di Davos, allo stesso modo in cui lo scoppio della guerra nel 1914 distrusse la prosperità imperiale della fine del secolo. Nell’agosto del 2022, Emmanuel Macron ha descritto la frattura come «un punto di svolta importante o una grande perturbazione» e ha dichiarato la «fine dell’era dell’abbondanza, la fine dell’incoscienza». A ottobre, il capo della politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, ha identificato il cambiamento strategico per il continente: «Voi – gli Stati Uniti – vi occupate della nostra sicurezza. Voi – la Cina e la Russia – avete fornito la base della nostra prosperità. È un mondo che non esiste più».
Il risveglio brutale dalla nostra Belle Époque neoliberale ha scosso i dogmi. Nei tre decenni successivi alla fine della guerra fredda, i leader europei hanno creduto che la guerra fosse stata bandita dal loro continente e che i regimi problematici che ancora esistevano potessero essere trasformati gradualmente grazie al commercio e all’apertura economica. Questa era la strategia del «Wandel durch Handel» (in tedesco «cambiamento attraverso il commercio»), un’espressione oggi molto criticata inventata nel 1963 da Egon Bahr, politico della SPD, mentre la Germania occidentale avanzava a tentoni verso l’Ostpolitik. La preminenza tedesca all’interno della CEE e dell’UE ha reso questo approccio il principio guida della distensione degli anni Settanta e della politica di vicinato europea nella fase successiva alla fine della guerra fredda. Tuttavia, l’invasione di Putin ha screditato questo paradigma agli occhi delle élite europee, proprio come il Kaiser Guglielmo infranse l’ottimismo della Belle Époque.
Avremmo dovuto prevederlo? Per gli osservatori che non hanno mai considerato la stabilità politica ed economica internazionale come acquisita, la relativa tranquillità degli anni Novanta e Duemila è sempre stata un’illusione. I grandi cambiamenti degli anni 2010 non hanno rappresentato una sorpresa per gli analisti più scettici: il crollo finanziario globale e la guerra russo-georgiana sono stati seguiti dalla crisi del debito dell’eurozona, e il referendum sulla Brexit ha dimostrato che l’integrazione europea non era irreversibile. Nella periferia dell’Europa, la primavera araba è stata brutalmente soffocata e le guerre sanguinose in Siria, Libia e Afghanistan hanno devastato le società del Medio Oriente e dell’Africa, generando la migrazione di coloro che cercano in Europa un rifugio dall’instabilità. Nel campo politico, la rinascita della destra e del nazionalismo negli anni Dieci hanno causato una crisi di fiducia nella capacità del liberalismo di mantenere una forma di legittimità popolare in un’epoca di disuguaglianza, trasformazioni e diversità. La pandemia ha suscitato grande preoccupazione per l’affidabilità delle nostre catene di approvvigionamento, e per questo la costituzione di scorte di materiali essenziali viene adesso considerata, a ragione, una condizione preliminare per far fronte agli shock futuri.
Per lungo tempo, queste crisi sembravano poter essere gestite con i mezzi esistenti. Nel 2021, si poteva credere che la maggior parte di questi problemi fosse stabilizzata, almeno temporaneamente. Le banche centrali avevano calmato i mercati, i rifugiati non riuscivano più a raggiungere l’Europa grazie anche a una serie di accordi odiosi conclusi dall’Unione europea con Erdogan, le milizie libiche e i miliziani Janjawid del Sudan. Assad aveva vinto in Siria e le truppe occidentali avevano lasciato l’Afghanistan. Nazionalisti di destra come Trump e Le Pen erano stati sconfitti alle urne. Tutto sembrava in equilibrio, finché l’invasione dell’invasione dell’Ucraina non ha infranto l’illusione: in realtà la tempesta era ancora in corso ma stava soltanto assumendo nuove forme. Una guerra convenzionale al confine orientale dell’Europa ha fatto capire ai responsabili politici europei che le soluzioni improvvisate degli anni Dieci – gli interventi tecnocratici, i compromessi con i dittatori vicini per tenere i problemi a distanza e la concentrazione sulla competitività delle esportazioni – non funzionano più.
Le élite europee hanno quindi dovuto procedere ad una radicale rivalutazione delle loro ipotesi. Il commercio e l’interdipendenza sono ora considerati pericolosi; l’autosufficienza e la resilienza sono i nuovi credo. Come nella Grande Guerra, la guerra russo-ucraina ha costretto l’Europa a riflettere su uno “Stato-progetto” più attivo – come descritto dallo storico Charles Maier, con riferimento alle istituzioni trasformative create dalle guerre e dalle rivoluzioni del primo Novecento. L’Unione europea nata dai trattati di Maastricht e Lisbona negli anni Novanta e Duemila era fortemente favorevole al libero scambio, e spingeva i paesi membri ad adottare uno Stato minimo, bilanci equilibrati, forze armate ridotte, armonizzazione e integrazione delle normative. L’attuale “Commissione geopolitica” guidata da Ursula von der Leyen ha al contrario approvato e legittimato, in pochi anni, tariffe sulle emissioni inquinanti, meccanismi di controllo dei prezzi a livello dell’Unione, sanzioni economiche e grandi sequestri di beni, politica industriale, aumento del deficit e riarmo del continente sotto l’egida della Nato.
Per un continente tanto diversificato, interconnesso e orientato al commercio come l’Europa del XXI secolo, si tratta di un cambiamento di paradigma spettacolare. Solo pochi anni fa, la speranza era che Bruxelles esercitasse un’influenza mondiale soprattutto in quanto “superpotenza regolamentare” e protettrice dei diritti umani. Oggi, il suo orientamento internazionale si è precisato. L’Unione è diventata più combattiva, un’evoluzione che presenta aspetti positivi e rischi.
Dal lato positivo, va accolto con favore il distacco dell’Europa dai tabù politici del neoliberismo. Lo stesso vale per il suo crescente senso di urgenza e unità nel contesto della crisi ucraina. Un’eccessiva fiducia nelle forze di mercato, un atteggiamento molto ortodosso e autodistruttivo verso la finanza pubblica e una diffidenza generale per l’intervento dello Stato hanno causato enormi danni all’unità politica e alla ripresa economica dell’Unione negli anni Dieci. Dopo un decennio di divisioni durante la crisi del debito nella zona euro, gli Stati membri ora emettono debito comune per riprendersi dalla pandemia, collaborano sulla politica verde e condividono le loro risorse con l’Ucraina. Si vedono come parte di una stessa comunità di destino. È difficile negare la realtà di questo progresso.
Ma questo interventismo ha comportato due costi: la perdita di influenza in Eurasia e un rallentamento del progetto di autonomia strategica. Il nuovo Stato-progetto europeo implica una crescente enfasi sulla sicurezza nazionale e sulla coercizione economica che probabilmente aumenterà le tensioni con gli stati asiatici, africani e mediorientali anziché ridurle. Sono stati possibili progressi nella politica sociale ed economica, ma solo perché il conflitto (con la Russia) e le preoccupazioni per la sicurezza (con la Cina e l’Iran) hanno mobilitato le energie europee contro un insieme di nemici comuni. Per quanto l’Unione europea possa reagire duramente a queste minacce, si tratta di Stati potenti che non scompariranno. Per l’Europa, la svolta securitaria dell’economia mondiale attraverso sanzioni, tariffe e controlli sulle esportazioni rappresenta un problema particolarmente spinoso a causa della sua grande apertura e della sua dipendenza dal commercio esterno. Rispetto all’economia relativamente autosufficiente degli Stati Uniti, lo smarcamento è più doloroso. Senza un approccio concertato dirigista, e senza una politica di welfare che aiuti gli Stati a sostenere i costi sociali della riorientazione delle preziose industrie esportatrici e la conversione delle catene di fornitura, è difficile sperare di avere successo.
Come appendice fortemente orientata al commercio dell’Eurasia, l’Europa ha dunque un interesse a lungo termine che le impone di gestire le relazioni con il proprio vicino con destrezza e prudenza. Sebbene alcuni strumenti del nuovo arsenale, come la politica industriale, la creazione di scorte e i dazi sulle emissioni, possano contribuire a raggiungere questo scopo, altri armi economiche offensive come le sanzioni e i controlli sulle esportazioni rafforzano le tensioni e la reciproca diffidenza con gli Stati autoritari, senza tuttavia rimuoverli come minacce geopolitiche.
Anzi, l’idea che l’isolamento economico da solo costituisca un sufficiente mezzo di contenimento è smentita da diversi casi concreti. Le sanzioni contro Pyongyang non solo non hanno fermato il regime di Kim Jong-Un dal migliorare le proprie capacità nucleari, ma hanno anche incoraggiato provocazioni sempre più audaci e rischiose. Decenni di sanzioni occidentali contro l’Iran non hanno limitato la sua presenza in tutto il Medio Oriente o alleviato la repressione interna. Inoltre, il rischio originale che ha scatenato le sanzioni – il programma nucleare iraniano – non è cessato di esistere, anzi: dopo anni di negoziato il rischio che Teheran produca abbastanza uranio arricchito da arrivare alla bomba è intatto. Appare dunque evidente che le strategie basate sulle sanzioni saranno relativamente utili per affrontare i rischi di questo. Qualunque sia l’esito della guerra russo-ucraina e qualunque forma prenderà l’ordine politico russo in futuro, il più ampio dilemma geo-strategico su come gestire la Russia non scomparirà – anche se l’Europa dovesse riuscire a raggiungere un completo disaccoppiamento.
Tutto ciò porta al secondo grande costo che l’Europa deve affrontare: la difficile evoluzione dell’autonomia strategica europea. Le fondamenta della nuova fiducia geopolitica e dell’unità dell’Unione sono precarie anche perché la guerra russo-ucraina l’ha resa più, non meno, dipendente dal potere economico e militare degli Stati Uniti. Nelle consegne di armi all’Ucraina, gli 8,6 miliardi di dollari garantiti dall’Unione europea fino alla fine di novembre 2022 sono molto al di sotto della fornitura americana di oltre 23 miliardi di dollari di materiale. Data la dimensione della produzione militare americana, questo era prevedibile, ma il trasferimento di scorte di armi e munizioni all’Ucraina ha lasciato le scarse forze militari europee con poche alternative, nel breve termine, alle industrie militari americane e britanniche, per rifornirsi. L’ambizione di costruire un’industria della difesa europea indipendente dovrà quindi essere rinviata.
Il problema della dipendenza dagli Stati Uniti è ancora più grande se si analizza il campo delle sanzioni economiche. L’Europa ha seguito con entusiasmo gli Stati Uniti nell’imporre sanzioni contro la Russia, si è in gran parte allineata ai controlli sulle esportazioni di tecnologia dei semiconduttori degli Stati Uniti verso la Cina e sembra aver perso interesse nel lavorare per allentare le sanzioni all’Iran in cambio del rispetto dell’accordo sul nucleare, in gran parte a causa del sostegno militare dell’Iran alla Russia e della repressione politica interna. Uno dei risultati di queste politiche di sanzioni e di controllo delle esportazioni è stato quello di avvicinare Mosca, Pechino e Teheran. Mentre l’Occidente si allontana da questi paesi, le tre capitali diventeranno sempre più dipendenti le une dalle altre per la tecnologia strategica e militare. Le sanzioni contribuiranno quindi a rafforzare l’asse autoritario dal quale alcuni mettono in guardia da tempo.
Tuttavia, non è affatto inevitabile che Russia, Cina e Iran trovino una linea comune. I tre paesi hanno divergenze storiche e sono solo in parte complementari tra loro: Russia e Iran, per esempio, sono partner particolarmente strani perché le loro strutture economiche sono sovrapponibili. In più, per l’Occidente e per l’Europa, i due paesi presentano problemi concentrati in ambiti molto diversi che dovrebbero essere categorizzati e affrontati di conseguenza separatamente, non come un blocco unico. La questione russa riguarda principalmente la protezione delle frontiere territoriali nell’Europa orientale per come si sono formate alla fine della guerra fredda; più in generale, riguarda il futuro delle repubbliche post-sovietiche nell’Unione europea e nella NATO e la possibilità di un qualche tipo di accordo stabile sulla sicurezza del fianco orientale dell’Europa. L’Iran, al contrario, non rappresenta una minaccia diretta per la sicurezza dell’Europa né rappresenta un rivale economico. È tuttavia certamente un proliferatore nucleare che non rispetta i diritti umani. Infine, la sfida della Cina è principalmente di natura tecnologica ed economica.
Il punto di tale categorizzazione è che i nemici della politica estera europea del XXI secolo richiedono approcci distinti e flessibili. Affrontarli potrebbe non ammettere strategie di contenimento o disaccoppiamento universali, per quanto sia allettante utilizzare questo approccio per ragioni morali e per connessione all’attuale clima che domina opinione pubblica. Invece di promuovere un allineamento autoritario, una politica estera europea più autonoma potrebbe concentrarsi sulla sicurezza della regione di confine afro-eurasiatica con una varietà di strumenti positivi e negativi, dalle sovvenzioni alle partnership e dal commercio alle pressioni diplomatiche. Al posto di creare un terreno comune tra gli avversari, una diplomazia intelligente coglierebbe le tensioni che esistono tra i regimi russo, cinese e iraniano e le affronterebbe separatamente.
All’interno dell’élite transatlantica, l’opinione diffusa è che l’Europa non stia assumendo la sua parte di responsabilità. In realtà, l’Europa sta già pagando le conseguenze delle tensioni con Russia, Cina e Iran in vari modi. Dalla Siria all’Ucraina, dalla Libia allo Yemen, gli Stati membri sono direttamente esposti alle guerre e alle difficoltà che incontrano i paesi dello spazio eurasiatico e mediterraneo. L’Europa è la principale destinazione per milioni di rifugiati che fuggono dai conflitti eurasiatici e dal sottosviluppo di questa regione in cerca di una vita migliore. Infine, come blocco economico, l’Europa è molto più dipendente dal commercio esterno rispetto agli Stati Uniti. Ciò significa che qualsiasi politica aggressiva o di scontro diplomatico/militare comporta costi economici molto più elevati per l’economia europea che per quella americana. A causa del successo del suo approccio Wandel durch Handel durato decenni, Bruxelles oggi non si trova in una situazione ideale per imporre sanzioni ad altre economie, mentre gli Stati Uniti, possono usare le sanzioni senza per forza subirne le conseguenze. Il costo annuale delle restrizioni economiche per i membri della NATO è stato stimato nel 2020 a 34 miliardi di dollari – una cifra aumentata ulteriormente dall’estensione delle sanzioni contro la Russia. Questa somma è distribuita in modo disuguale, con la Germania e i paesi dell’Europa orientale che sopportano il maggior peso dei costi. Ci vorranno anni, se non decenni, per riorganizzare il commercio e l’industria in modo sufficiente per raggiungere una certa resilienza alle sanzioni.
Nei prossimi anni, difficilmente l’Europa riuscirà a raggiungere l’autonomia strategica nell’ambito economico. L’allineamento con Washington sarà l’unica opzione a disposizione degli Stati europei. Ciò può sembrare una scelta sensata nella guerra attuale, ma è difficile garantire che lo sia in ogni crisi geopolitica che potrebbe verificarsi. L’Europa è al momento costretta a seguire, invece di dettare il passo nell’uso della coercizione economica; certo, rispetto al conflitto militare diretto, la competizione economica è meno muscolare, ma è in ogni caso soggetta alle stesse dinamiche di escalation. Una volta coinvolta in queste scelte, l’Europa sarà quindi prigioniera di una tendenza verso la formazione di blocchi geo-economici che non potrà più controllare. Ciò comporterà inevitabilmente un aumento dei costi politici, economici, sociali e dei rischi militari: il nostro continente è molto più vulnerabile agli effetti collaterali del contenimento e del distacco rispetto ai suoi omologhi transatlantici.
È innegabile che prima del 2022 i decisori fossero prigionieri di alcune illusioni. Oggi c’è un risveglio, e momenti di grande rivelazione possono essere illuminanti, ma bisogna approfittarne immediatamente: la loro chiarezza raramente dura nel tempo, perché è molto semplice permettere che si instaurino nuovi dogmi, capaci di limitare il pensiero immaginativo e la flessibilità necessari per una politica internazionale efficace. Il rischio di questa fase è che i decisori occidentali stiano passando dall’illusione dell’interdipendenza pacifica a una nuova illusione: il disaccoppiamento aumenterà la stabilità.
Si tratta tuttavia di un sofisma: sarebbe falso assumere che, poiché l’interdipendenza comporta dei rischi, il disaccoppiamento crei automaticamente un contesto meno rischioso. La strategia di isolamento economico pone almeno tre problemi: sposta le tensioni senza ridurle, intensifica le diseguaglianze mondiali e indebolisce la dissuasione.
L’isolamento economico certamente riduce le tensioni della politica internazionale, ma le sposta in altri ambiti: la concorrenza in materia di armamenti, le rivendicazioni territoriali e la propagazione dei valori culturali e ideologici continuano malgrado l’isolamento. Se alcuni rischi inerenti agli scambi economici possono essere evitati, la riduzione generale dell’interazione tra società che comporta il disaccoppiamento è suscettibile di causare nuovi malintesi, anche perché la distanza lascia più spazio all’allarmismo nazionalista e al panico securitario. Per le grandi potenze sarà molto più difficile conoscersi se loro società civili non interagiscono più se non nella sfera deformata dei media globali. La riduzione dei contatti economici priva la politica internazionale di un’antenna vitale per registrare i problemi e rispondervi.
Inoltre, la capacità di disaccoppiamento non è egualmente ripartita nel sistema politico ed economico mondiale. Abbiamo già visto come le grandi economie industrializzate possono assorbire relativamente bene gli shock della pandemia, della guerra e delle sanzioni utilizzando la propria ricchezza per procurarsi delle risorse altrove. Ma il successo che ha avuto l’Europa nello stoccaggio del gas naturale liquifatto è avvenuto a spese di economie in via di sviluppo come Pakistan e Bangladesh. Allo stesso modo, la politica di sicurezza alimentare della Cina, che consiste nell’accumulare quantità massive di cereali, provoca delle penurie nei paesi più poveri che ne avrebbero bisogno. In ciascuno di questi casi, il costo della concorrenza geo-economica è a carico dei Stati più piccoli, più poveri e meno sviluppati.
Ciò che il disaccoppiamento sembra dunque riservare ai paesi del sud del mondo è semplicemente una concorrenza più agguerrita per le risorse rare e una cascata di crisi del debito, della bilancia dei pagamenti e della moneta. Bisogna stupirsi se questi paesi non abbiano accolto con entusiasmo le sanzioni occidentali contro la Russia e la prospettiva di future sanzioni contro la Cina? Accettando queste politiche, aggraverrebbero ancor di più la loro già difficile posizione nell’economia mondiale. Ciononostante, presentare le ramificazioni mondiali del disaccoppiamento unicamente in termini di effetti collaterali negativi per il mondo in via di sviluppo vuol dire ignorare a che punto anche la nostra condizione sia fondamentalmente e irreversibilmente mondiale: a prescindere dall’isolamento economico, il mondo resta profondamente legato in tutti gli altri ambiti.
Anche per i paesi ricchi dell’America settentrionale, dell’Europa e dell’Asia che la mettono in atto, la strategia di chiudersi in una fortezza economica non garantisce la sicurezza sul lungo periodo. Le economie in via di sviluppo in crisi rischiano di diventare teatro di guerre, migrazione massiva di popolazione e fallimenti di Stato. Il costo umano di questi problemi, evitabili, è sufficientemente importante da farci interrogare. Ogni strategia che accresce scientemente questi rischi su scala globale non è davvero una strategia di rafforzamento della sicurezza come invece pretende di essere.
Soprattutto l’Europa dovrebbe saperlo: i problemi dell’Africa e dell’Asia sono i nostri, e il disaccoppiamento non li farà sparire, anzi, in una nuova era di concorrenza per le risorse, è probabile che li aggraverà.
L’ultimo aspetto del disaccoppiamento che merita un’attenzione particolare è il suo effetto sulla dissuasione economica. Le sanzioni economiche più efficaci della storia sono quelle minacciate ma mai imposte. Le sanzioni della Società delle Nazioni permisero di evitare per due volte una guerra frontaliera nei Balcani nel 1921 e nel 1925. La collaborazione tra Stati Uniti e Regno Unito per imporre sanzioni petrolifere alla Spagna nel giugno 1940 dissuase Franco dal partecipare all’Asse con Hitler e Mussolini. Infine, le minacce di Eisenhower di ritirare il sostegno americano alla sterlina e al franco nel 1956 convinsero Londra e Parigi a mettere fine la loro spedizione punitiva neocoloniale contro l’Egitto di Nasser. Ma affinché la minaccia di sanzioni sia credibile sono necessari scambi sostanziali tra paesi. Un mondo senza scambi sostanziali tra i principali blocchi politici è un mondo dove le sanzioni hanno un effetto limitato.
Ma la dissuasione è davvero importante? Si potrebbe ribattere che l’incapacità di contenere l’invasione russa con minacce di sanzioni mostra che la dissuasione attraverso questo mezzo non sia efficace. Il fiasco che si è prodotto tra novembre 2021 e febbraio 2021 è un caso che meriterà un’analisi approfondita da parte dei decisori politici. Le prime testimonianze suggeriscono che Putin conoscesse il volume dei danni possibili, ma è andato avanti lo stesso. Ciò suggerisce che le minacce di sanzioni contro grandi potenze controllate da leader determinati potrebbero essere addirittura meno efficaci di quanto pensassimo. La volontà di Putin di sacrificare la crescita futura e il tenore di vita attuale della Russia in nome dell’espansione dell’impero può essere condivisa da altri leader con grandi ambizioni revisioniste. Ancor più impressionante è il fatto che gli Stati del G7, della Nato e dell’Unione contino sempre su sanzioni economiche come architrave del contenimento della Cina. Le speranze occidentali di evitare un’invasione cinese di Taiwan si basano sempre su un importante sistema sanzionatorio.
Perché i governi continuano a riporre le loro speranze in questa strategia, quando gli strumenti da loro presi in considerazione hanno appena fallito nel contenere una guerra su larga scala, permettendo il più grande conflitto terrestre in Europa da settant’anni? Più di ogni altra grande economia, la Cina deve la sua ricchezza e la sua prosperità alla sua integrazione nell’economia mondiale. Ha sempre perseguito questa integrazione alle proprie condizioni ma resta fortemente dipendente dalla domanda esterna per quanto abbia compiuto degli sforzi per aumentare i consumi interni. Ciò vuol dire che il suo benessere sarebbe gravemente intaccato da sanzioni occidentali globali, ma far dipendere la pace in Asia dal timore di perdite materiali sembra sempre più insufficiente: è necessario un insieme più completo di garanzie che accrescano la fiducia politica e diplomatica.
Una possibilità è la proposta fatta recentemente da Raghuram Rajan, che propone di creare una categoria internazionalmente riconosciuta di beni e servizi esenti da sanzioni. I prodotti di prima necessità come il cibo, i farmaci, i prodotti umanitari e l’energia dovrebbero essere protetti il più possibile dall’ingerenza dei governi. Questa misura troverà certamente l’opposizione di chi progetta le sanzioni e le considera uno strumento necessario.
La resilienza può essere sfruttata dai paesi ricchi come da quelli poveri ma la moda crescente della geoeconomia rischia di non avere degli effetti così benefici su scala mondiale. È lo stesso Norman Angell ad aver lanciato un potente avvertimento su cosa potrebbe diventare un mondo nel quale le sanzioni si trasformano nella forma dominante con la quale gli Stati affrontano le loro divergenze. Appena un anno dopo lo scoppio della Grande guerra, Angell pubblicò The World’s Highway : Some Notes on America’s Relation to Sea Power and Non-Military Sanctions for the Law of Nations (1915). Questo saggio resta di grande attualità nella nostra epoca di egemonia americana sul piano navale, finanziario e tecnologico. Dopo aver enunciato in che modo le sanzioni possono essere alternative alla guerra, l’autore approfondisce i rischi della destabilizzazione, o addirittura della distruzione del sistema mondiale attraverso le sanzioni. Avverte che «potrebbe risultarne una sorta di competizione tra le nazioni per l’autosufficienza nazionale che, mal gestita, potrebbe finire per rinforzare il nazionlismo immorale che è stato una delle cause della guerra».
Angell aveva capito tutto. L’interdipendenza non può, di per sé, garantire la pace. Ma la riduzione dell’interdipendenza comporta i suoi rischi, il principale è l’ascesa di un nazionalismo competitivo a somma zero che, a un certo punto, provocherà altri conflitti. Dobbiamo tener conto di questo avvertimento e riflettere seriamente se un mondo di sfrenata ingerenza dello Stato nelle dinamiche economiche globali non minacci la nostra sicurezza collettiva più di quanto la protegga. In un periodo di guerra in Europa orientale e di crescente instabilità globale, sarà più importante che mai trovare il giusto equilibrio tra resilienza e interconnessione.