“Tradurre Hitler”, una conversazione con Olivier Mannoni
Nel suo ultimo libro Traduire Hitler (Héloïse d’Ormesson, 2022) , Olivier Mannoni rievoca l’immenso lavoro che ha dato origine a una nuova traduzione del Mein Kampf, realizzata in collaborazione con una équipe di storici diretta da Florent Brayard e Andreas Wirsching (Historiciser le mal, Fayard, 2019).
In Traduire Hitler si legge che, quando ha accettato la proposta di Fayard, aveva come dimenticato, a forza di lavorare sul Terzo Reich, che il Mein Kampf non era una fonte come le altre. Può capire oggi le prese di posizione contrarie e le critiche suscitate da un tale progetto di traduzione? A suo avviso si sarebbe dovuta pubblicare una versione per i ricercatori accessibile unicamente on line o limitare la vendita del volume alle biblioteche? In altri termini, si sarebbe dovuto limitare l’accesso al libro o al contrario fare circolare il più possibile la sua decostruzione?
Oggi posso rispondere a queste domande con un certo distacco. La questione si è posta più volte, in particolar modo nel 2016, quando una prima ondata di polemiche aveva accompagnato l’uscita della nuova traduzione del Mein Kampf. Un noto storico, André Loez, metteva in guardia contro il rischio di una corsa all’acquisto del libro, un’interrogazione del tutto legittima. In Germania, sono state vendute circa 80000 copie, una cifra molto alta se si considera che il libro non esiste più oltre il Reno dal 1945 e che nessuno ha più ufficialmente accesso al testo, nonostante questo sia reperibile on line ovunque. In Francia, le vendite si aggirano intorno alle 15000 copie, una quantità di molto minore.
Un’inchiesta presso le librerie ha permesso di precisare la natura dell’acquirente tedesco del volume: si tratta principalmente di storici, ricercatori o in generale di profili di lettori in qualche modo legati alla disciplina storica. Il rischio era in effetti che i lettori si impossessassero del libro mossi da una curiosità malsana, che si gettassero sul testo spigolando qua e là, come è stato sempre fatto d’altra parte – si trovano in effetti su Internet numerose citazioni troncate, regolarmente riprese per nutrire campagne d’odio senza riferimento alcuno alla fonte. La soluzione che si è imposta quasi naturalmente alla casa editrice Fayard è stata quella di pubblicare un’edizione non accessibile a tutti. In primo luogo, si tratta di un libro molto voluminoso, che si compone di più di mille pagine e pesa più di quattro kili. Il prezzo è stato inoltre volontariamente maggiorato in modo da scoraggiare gli acquirenti interessati al libro per ragioni non legittime.
Infine, la forma in cui si presenta libro è il principale antidoto contro la tentazione di utilizzarlo a fini di propaganda. In Historiciser le mal, la traduzione vera e propria del Mein Kampf occupa uno spazio ridotto all’interno delle pagine, perché accompagnata da un vastissimo apparato critico risultato del lavoro di un’équipe di ricercatori volto a decostruire il testo, mostrarne le fonti e le controverità, quello che oggi chiameremmo fact checking. Il Mein Kampf è un pamphlet ideologico nauseabondo e nello stesso tempo un libro pseudo-autobiografico, di cui molti per esempio si sono serviti per affermare che Hitler è stato un eroe durante la Grande Guerra, leggenda che gli storici hanno smentito da tempo. Ogni pagina del libro è stata in un certo modo passata al vaglio della verità, ogni proposito tenuto sottoposto all’analisi storica.
Avremmo dovuto proporre una versione numerica? Risponderei, un po’ per facilità, che le versioni on line esistono e che sono appunto il nodo del problema. La soluzione trovata da Fayard, da Sophie de Closets, in seguito Sophie Hogg et per ultimo Florent Brayard e la sua équipe si è dimostrata essere praticabile e intelligente. Quest’edizione assegna alla lettera il testo hitleriano, gli impedisce di muoversi e cerca di attenuare il più possibile il suo potere di nuocere. Le biblioteche hanno tutte ricevuto una copia gratuitamente. Tengo a ribadire inoltre che l’obiettivo commerciale è nullo perché tutti i benefici sono riversati alla fondazione Auschwitz-Birkenau. Insomma, credo di poter affermare, oggi, che si sia saputa dare una risposta a tutte le interrogazioni per altro legittime che ci siamo posti e che ci hanno aiutato a scegliere la strada giusta, quella del massimo rigore. Sono convinto che la nostra edizione del Mein Kampf sia inutilizzabile da chi volesse fare l’apologia di Hitler.
In Traduire Hitler, rievoca ciò che ha rappresentato per lei una tale impresa di traduzione, che si è in realtà svolta in due tempi. Dopo aver consegnato una prima traduzione, gli storici dell’équipe di Historiciser le mal le hanno chiesto di restituire letteralmente i passaggi del testo originale «oscuri, farraginosi, pieni di errori, spesso illeggibili, dalla sintassi azzardata e piena di tournure proprie di un linguaggio ossessivo ». Lei afferma che questa seconda versione è stata una sorta di profanazione del mestiere di traduttore, eppure questa dimensione del lavoro di traduzione sembra essere stata cruciale, alla fine arricchente. Come spiega un tale paradosso?
Durante la prima versione ero perfettamente cosciente del rischio che comportava, anche prendendo grandi precauzioni, la pura applicazione a un testo di questo tipo delle normali regole di traduzione. Per esempio, in tedesco, una ripetizione non ha alcuna importanza, uno stesso termine può figurare dieci volte nella stessa pagina, mentre in francese si cerca di non ripetere una parola più di due volte. Sono regole che insegniamo ai nostri studenti 1e che tutti i traduttori conoscono e che consistono semplicemente nell’adattare la sintassi di un testo straniero alla sintassi francese, dunque a fortiori a correggere o eliminare una serie di cose: per esempio, esistono degli accumuli di avverbi molto brevi in tedesco, molto lunghi nella traduzione francese.
Ho cercato dunque in un primo tempo di utilizzare questo approccio mantenendo il più possibile il carattere confuso del testo. Non riuscivo a figurarmi come avrei potuto fare altrimenti. È stato Florent Brayard a dirmi quello di cui avevano bisogno gli storici per poter lavorare correttamente sul testo. Mi è stato chiesto di non tradure il Mein Kampf parola per parola – cosa che non avrebbe avuto alcun senso –, ma di restituire il testo il più possibile letteralmente, mantenendo la totalità dei suoi difetti. Ed è solo quando mi sono rimesso al lavoro che ho scoperto davvero il testo, non dissociando più la sua sintassi e il suo stile dal fondo ideologico. Siamo usciti tutti stremati da questo immenso lavoro. Il testo hitleriano non è solo mal scritto, ma è una falsificazione dall’inizio alla fine. Per esempio, se le dico «il tavolo è lungo», lei capisce quello che intendo. Se invece dico «il tavolo è ancora lungo», viene spontaneo chiedersi il perché dell’impiego del termine «ancora». La comprensione diventa allora confusa. È il principio del Mein Kampf. Ovunque l’impiego di termini scelti trasforma la frase in modo da lasciare un varco per il dubbio, per il sospetto, per la disonestà intellettuale, rendendo l’insieme difficilmente leggibile.
Il destino del Mein Kampf nel dopo-guerra viene evocato nel libro: il fatto che molte copie siano state interrate o bruciate e che le lastre per la stampa siano state fuse dagli Alleati. Il vostro lavoro di ritraduzione assomiglia a un’impresa di esumazione?
In un certo modo, sì, forse, ma il termine «esumazione» è problematico, perché rinvia alle vittime mentre il nostro lavoro si è posto l’obiettivo di identificare un criminale. Non si tratta di un lavoro sulla memoria, ma di un’impresa pedagogica. Per l’équipe come per me, si è trattato, come l’ha ben spiegato Christian Ingrao, di «raffreddare il Mein Kampf». Il Mein Kampf è un testo molto diffuso, disponibile in 23 lingue su Internet, accessibile ovunque, e di cui molti si servono a dei fini antisemiti e complottisti, per diffondere odio. A questo testo si attribuiva una sorta di potere malefico. Come l’ha ricordato, alcune persone hanno sotterrato il libro durante la guerra. Nel 2016, ricevetti la chiamata di una signora, di Strasburgo, che possedeva ancora un vecchio esemplare del Mein Kampf e che mi chiese che cosa dovesse farne. Abbiamo assistito nei media alla polemica sollevata da un Jean-Luc Mélenchon in campagna elettorale in merito a questa nuova edizione. In un certo senso, era una volontà dei Nazisti quella di conferire al libro una tale aura, la quale faceva pienamente parte del loro armamentario ideologico.
Riprendere il libro in mano è stato in primo luogo un modo di sottrargli il suo potere malefico. Un modo di guardarlo da vicino, di descriverne il contenuto il più fedelmente possibile, di analizzare le radici di una tale retorica e dei sui argomenti.
Un tale lavoro mi ha permesso anche di scoprire che il libro, che tanti davano per morto, continuava invece a esistere e a produrre effetti nefasti. Non abbiamo avuto altra scelta, per mettere a tacere il testo definitivamente, che applicarci alla sua decostruzione con estremo rigore. Il rigore del lavoro storico consiste nel confrontare un testo alla realtà del contesto politico che l’ha prodotto; e, in ciò che mi concerne, io che non sono uno storico ma un traduttore, nel riuscire a capire quali sono le tracce che il regime ha lasciato nelle parole, nel vocabolario impiegato.
Scrive a tale proposito: «Se Hitler ha conquistato il potere in Germania non è solo per mezzo della violenza delle sue truppe che facevano regnare il terrore nelle strade e attaccavano i meeting degli avversari politici di sinistra, […] ma anche di un decennio di manipolazione e abuso del linguaggio». Al di là dell’illeggibilità del Mein Kampf, in che modo la lingua dei Nazisti ha conquistato l’immaginario mentale della lingua tedesca?
Da un lato abbiamo la lingua di Hitler, generalmente straordinariamente confusa, ma che sa anche farsi semplice e diretta. Dall’altro, l’utilizzo da parte del regime della lingua tedesca per conquistare il potere. È questo il punto focale, che cerco di mettere in luce in Traduire Hitler. Come una Nazione capace di produrre i più grandi poeti, opere e pensatori ha potuto cedere alla follia collettiva, arrivare allo stato delle cose in cui le parole perdono il loro senso perché strumentalizzate dal potere.
Goebbels è un’incarnazione perfetta di tale manipolazione. Il linguaggio da lui impiegato è in permanenza forzato in direzione della violenza e della brutalità. La sonorità stessa del tedesco, che può essere magnifica, si trasforma nei discorsi di Goebbels o di Hitler in un guaito mostruoso. Chaplin ha caricaturato tutto ciò magistralmente nel suo cinema. I Nazisti sono riusciti a utilizzare la lingua tedesca per incutere paura. Faccio degli esempi nel libro: i gradi assurdi delle SS, Rottenführer, Sturmbannführer, Hauptscharführer. Si tratta di titoli assurdi che non hanno altro scopo che quello di incutere timore.
Ciò che è curioso in Hitler è l’amalgama di tutto ciò. Il risultato è una sorta di poltiglia linguistica confusa e disorientante, fatta di propositi contraddittori, presenti talvolta nella stessa frase, un mélange molto curioso per un testo di propaganda. Hitler scaglia le parole le une contro le altre come ha saputo, al fine di conservare così a lungo il potere, aizzare le genti, mettere i popoli contro i popoli, le Nazioni contro le Nazioni. E in ogni capitolo, in conclusione di un tale magma confuso, si ritrova una carica violenta lanciata in direzione di un gruppo designato: ebrei, insegnanti, giornalisti, Francesi, Inglesi etc. Questi passaggi sono invece sempre scritti in termini semplici e diretti.
Con grande precauzione, lei tenta un parallelo tra il linguaggio di Adolf Hitler e quello di Donald Trump, mostrando come i due abbiano in comune una lingua contrastata all’eccesso, estremamente semplificata, spesso scorretta; lei vede in ciò una condizione preliminare alla violenza. Come reagire a una lingua che rifiuta a tal punto le condizioni più elementari della discussione, del dibattito, del confronto non violento?
Ci sono due metodi. Il primo, generalmente il più sensato, è quello di passare per la via della ragione, cercando di sollecitare lo sviluppo del ragionamento presso l’uditorio. Il secondo consiste invece nel rispondere alla violenza con la violenza. Di recente abbiamo visto, per esempio, Joe Biden optare per questa seconda opzione in un discorso in cui ha deciso di attaccare frontalmente Donald Trump. È il metodo dell’elettroshock.
In Germania, la lotta contro Hitler è stata in un primo tempo condotta dai socio-democratici, che scelsero la via della ragione, fino a che non furono uno a uno internati nei campi di concentramento, più tardi dai comunisti, che scelsero un’opposizione più violenta. Gli anni 1931-32 et 33 sono stati caratterizzati da una violenza estrema difficile da immaginare: fucilate nelle strade, violenza nei meeting politici… che non portò a nulla. Bisogna cercare di capire perché una certa tipologia di discorso fomentatore d’odio riesce a imporsi, nella Germania degli anni Trenta come negli Stati-Uniti degli anni 2010 od oggi in Italia. Capire perché à un certo punto le barriere naturali che proteggono la nostra lingua, la nostra razionalità, la nostra attitudine al ragionamento saltano. Si possono avanzare diverse spiegazioni, considerando in primo luogo, a mio avviso, il legame esistente tra le teorie complottiste e l’emergere di questo tipo di discorsi.
Hitler stesso ricorre a propositi complottisti per difendere l’idea della coltellata nella schiena che avrebbe ricevuto per mano prima degli ebrei poi dei comunisti, impiegando frasi il cui senso è in alcuni casi letteralmente assurdo o contraddittorio. Donald Trump ha fatto uso dello stesso sistema retorico, e continua a farlo. La sua attitudine nei confronti del Covid-19, per esempio, è di stampo negazionista. Solamente lavorando sulla decostruzione di tali articolazioni retoriche si potrà riuscire a svelare l’inganno di cui l’uditorio di un certo tipo di personalità politica è vittima.
In LTI. Lingua Tertii Imperii, Victor Klemperer ha analizzato il modo in cui l’ideologia nazista riuscì a trasformare la lingua tedesca dall’interno. In quanto traduttore, tale analisi le sembrano ancora pertinenti?
Credo che Victor Klemperer resti il riferimento assoluto in materia di analisi della manipolazione della lingua tedesca operata dal regime hitleriano, LTI certamente, ma anche i suoi diari, meno conosciuti, ma ugualmente straordinari. Penso in particolar modo al primo volume, intitolato I miei soldati di carta, dove Klemperer mostra come la terminologia hitleriana s’infiltri nell’uso quotidiano del linguaggio. Il passaggio del diario in cui racconta quando viene annunciato, a lui che si chiama Victor, che dovrà scegliere uno dei tre nomi ebraici che sarà destinato a portare à vita è notevole, sorprendente. Il Nazismo ha operato una vera e propria trasformazione della realtà quotidiana più intima, apparentemente intangibile, come per esempio l’attribuzione del cognome o del nome.
Ci sono stati in Germania dei tentativi di « denazificazione » della lingua?
Allora, si può considerare che ci siano stati due tentativi. Il primo, di natura politica. Nel dopo-guerra Adenauer ha in effetti tentato di ristabilire una vera democrazia e un linguaggio realmente democratico. Ma i crimini nazisti sono stati tenuti sotto silenzio o quasi fino agli anni 1967-68. Se vogliamo, la democrazia tedesca si è riorganizzata sotto una coltre di silenzio, come sovrastata da una cappa nazista persistente. Bisognerà aspettare il conflitto generazionale del 1968, e i cambiamenti forti da esso indotto, perché un lavoro, non ancora terminato, di indagine più minuziosa e di ricostruzione della verità abbia inizio.
Un secondo tentativo, più approfondito, fu condotto da alcuni scrittori, e l’esito è molto più interessante. Nel 1947, un gruppo di scrittori, chiamato «gruppo 47», si diede come compito di restaurare la lingua tedesca morta per mano del Nazismo. Tra il 1943 et il 1945, si possono individuare in Germania due correnti letterarie. Una preesistente, alimentata «dall’esterno», grazie agli esiliati, che va da Thomas Mann a Bertolt Brecht, e che continua a vivere. Un certo numero di intellettuali comincia d’altra parte a scrivere in altre lingue e a mettere in questione il rapporto alla «propria» lingua, come Hannah Arendt, per fare un esempio. La corrente «interna» è, invece, del tutto inesistente tranne qualche rara eccezione. Prendiamo il caso di Ernst Jünger autore del libro Sulle scogliere di marmo : si può considerare come un immigrato «interno», ma mi viene difficile convincermi di una tale lettura.
Quest’ultimo tentativo, quello condotto dagli intellettuali, ha permesso di far rinascere una letteratura tedesca cosciente della posta in gioco e dalla sensibilità raffinatissima.
Lei evoca una sorta di «flusso nero» che l’avrebbe portata alla traduzione del Mein Kampf, ovvero le numerosissime traduzioni di opere provenienti dalla storiografia tedesca sulla Seconda Guerra Mondiale. Non è mai stato tentato di smettere di lavorare sul Nazismo?
Smetterò il giorno in cui avrò risposto a tutte le mie domande. Traduire Hitler rappresenta per me, da questo punto di vista, una tappa importante. Penso d’altra parte che le interrogazioni che il Nazismo solleva siano sempre attuali. Le nuove scoperte che la disciplina storica ci offre — sulle relazioni internazionali, sulla struttura interna del regime —arricchiscono il nostro sguardo su tale periodo. Dal punto di vista filosofico, lo studio del Nazismo rinvia alle questioni fondamentali. Non abbiamo in effetti finito di analizzare la retorica nazista e i suoi assi di sviluppo: l’apologia dell’autodidattismo contro l’educazione istituzionalizzata; l’elogio della credenza contro la dimostrazione; l’odio del ragionamento; il ricorso sistematico all’immaginario del complotto. Ritroviamo queste idee altrove che nel Mein Kampf, ma il Nazismo ha mostrato in modo parossistico a che cosa un tale discorso può condurre.
Se si prende in considerazione la Germania contemporanea, l’estrema destra e i gruppi neonazisti in particolar modo sono maggiormente presenti nei Länder dell’ex DDR che a Ovest. Ritiene che, al di là del traumatismo che la riunificazione ha rappresentato, la seduzione che il Nazismo opera nell’ex DDR potrebbe essere legata al fatto che gli abitanti della Germania Est siano stati esposti a una seconda operazione di distruzione del linguaggio durante 45 anni?
È una domanda estremamente interessante, che esula tuttavia dal mio campo di competenza e alla quale non posso dunque fornire risposte definitive. A mio avviso, non si può parlare di distruzione del linguaggio nella Repubblica Democratica Tedesca. Certo, come in Unione Sovietica, è stata imposta una retorica politica, una sorta di «politichese» che ha forzato le persone chiamate a esprimersi pubblicamente — gli universitari, gli scrittori, gli intellettuali — a prendere infinite precauzioni per dire ciò che volevano dire. D’altra parte, si è osservato che in Germania fu opposta pochissima resistenza al linguaggio nazista contrariamente alla DDR, dove l’opposizione al linguaggio imposto dal potere sovietico fu permanente. Si tratta di una differenza molto importante: numerosi dissidenti della Germania dell’Est, che decisero di non partire, continuarono a vivere e lavorare nella DDR; alcuni di questi furono poi incarcerati. Durante il regime nazista, si è assistito a una vera e propria lobotomizzazione delle masse che ha investito la società a tutti i livelli e in ogni campo. È ciò che dimostra magistralmente Klemperer.
Se gli storici e gli studiosi di scienze politiche sono certamente più competenti di me nell’analizzare il posto occupato dall’estrema destra in Germania dell’Est, per quanto mi riguarda, mi sono fatto l’idea che ciò dipenda soprattutto dal modo in cui la denazificazione è stata condotta. Sappiamo che è stata incompleta nella Repubblica Federale Tedesca dopo i grandi processi dell’immediato dopo-guerra. Ma dopo la fine del potere di Adenauer, ci fu una seconda ondata d’introspezione che permise di riaprire gli archivi, di tenere nuovi processi e, più generalmente, di affrontare il passato nazista della Germania. A Est, la teoria ufficiale consisteva nel dire che il Fascismo capitalista era stato sconfitto, che la DDR era il Paese dei lavoratori e degli operai — della resistenza antifascista insomma. L’analisi ufficiale faceva del Nazismo — termine del resto poco utilizzato — l’epifenomeno estremo del capitalismo. Il lavoro condotto a Ovest non è stato dunque condotto a Est.
Come definirebbe la prima traduzione francese – l’ultima prima della vostra – del Mein Kampf, pubblicata in Francia nel 1934? Si può dire che quest’edizione abbia condotto in Francia a una pre-ricezione o ricezione preliminare del Nazismo, diventata impossibile da ricostituire dopo la Shoah?
Come tutte le traduzioni di quel periodo, l’edizione del 1934 si basa su regole di traduzione che non sono più in vigore oggi. L’obiettivo era rendere il testo il più possibile leggibile, con il fine non di fare aderire alla propaganda hitleriana ma di evidenziarne la pericolosità. Paradossalmente, quest’edizione è stata concepita dall’estrema destra francese anti-tedesca, dai nazionalisti anti-boches, con l’intenzione di nuocere a Hitler e chiudendo invece gli occhi sulla propaganda anti-semita. Ciò nonostante, ed è quello che racconto nel libro, la LICA, oggi LICRA2, aveva aiutato la pubblicazione e preso le difese del testo, contribuendo così alla sua sopravvivenza, quando Hitler aveva tentato di farlo interdire.
La lettura retrospettiva e anacronistica del Mein Kampf ha dato luogo a numerosi errori di interpretazione. Prendiamo la frase in cui Hitler, riferendosi alla guerra del 1914, afferma che bisognerebbe «utilizzare il gas contro quelle genti»3.
Alcuni hanno voluto vedere in questo passaggio la prova che tutto era previsto fin dal 1924. Ma tale lettura è un’assurdità dal punto di vista storico. Hitler vuole dire qualcosa come ci sarebbe bisogno di una buona guerra. Se vogliamo, nella mia traduzione, le premesse sono quelle dell’edizione del 1934 e si esprimono nella violenza del linguaggio, ma si tratta di una violenza più contenuta. Per esempio, la traduzione del termine Judentum ha sollevato un grande dibattito tra gli storici. Nella prima edizione, si è impiegata la terminologia di Édouard Drumont, e il termine si ritrova sistematicamente tradotto con juiverie, una parola estremamente violenta. A ben guardare, non è esattamente quello che vuole intendere Hitler. Quando, in due occorrenze, impiega il termine das Judentum è per opporlo a das Deutschtum, judaïté versus germanité.
Si tratta ovviamente di un impiego ugualmente violento – e il testo è pieno di passaggi antisemiti insopportabili –, ma la traduzione deve rilevare che, in questo caso, Hitler tenta di appropriarsi del linguaggio di un uomo di Stato, capace di teorizzare, di formalizzare e giustificare in questo caso l’ingiustificabile. Nell’edizione del 1934, si ritrova tutto ciò, ma non sono rari gli scivoloni su termini tecnici di cui i traduttori non conoscevano il significato esatto e questi errori contribuiscono a rendere il testo meno leggibile, amplificato in direzione della violenza verbale, quando invece bisogna riconoscere che il Mein Kampf, pur essendo un testo estremamente violento, conserva nella maggior parte dei casi una terminologia moderata.
Che cosa si poteva dedurre dalla lettura del Mein Kampf, in Francia, nel 1934? Sicuramente che Hitler aveva delle intenzioni belliciste e come minimo di segregazione e verosimilmente di deportazione, come si può chiaramente leggere in alcuni passaggi del libro. Si poteva comprendere, leggendo il testo, l’immenso pericolo che una presa del potere da parte di Hitler rappresentava. Geneviève de Gaulle-Anthonioz racconta come suo padre l’avesse forzata a leggere il Mein Kampf e come lei, grazie alla lettura del libro, avesse capito che cosa sarebbe accaduto e saputo fin da subito opporre resistenza. Quindi, sì, si poteva capire leggendo il libro la tragedia imminente. Il problema è che in Germania si continua a pensare che il Mein Kampf sia stato poco e mal letto, compreso nei ranghi del partito nazista. I membri del partito, gli ufficiali del regime, lo citavano per mostrare il loro allineamento sulle posizioni di Hitler, ma becchettavano qui e là solamente, come ha saputo mostrare Johann Chapoutot. I primi veri lettori optarono, molto presto, per la via dell’esilio, avendo capito il pericolo che correvano. Anche in Francia. Dunque, ribadisco che, al di là di alcuni evidenti errori di traduzione, e nonostante fosse illeggibile e incompleta, questa prima traduzione era relativamente fedele al testo. Si poteva dunque capire che cosa sarebbe accaduto e tirarne le fila. La nostra traduzione, condotta in collaborazione con un’équipe di storici, ha un altro scopo: quello di restituire al linguaggio hitleriano la forma che ha assunto all’epoca per i Tedeschi e di cercare di comprendere come, in una tale brodaglia, Hitler abbia potuto arrivare al potere.
Note
- Olivier Mannoni dirige dal 2012 la scuola di traduzione letteraria creata dal Centro Nazionale del Libro – CNL/ETL (nota del traduttore) e che ha sede a Parigi.
- La LICRA è la Lega Internazionale Contro il Razzismo e l’Antisemitismo. È stata fondata nel 1927 con il nome di LICA.
- Il passaggio fa riferimento all’uso bellico del gas, all’impiego delle armi chimiche, durante la Prima Guerra Mondiale (n. d. t.).