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Questo testo può essere letto ugualmente in francese e spagnolo.
1.
Sono passati più di tre quarti di secolo da quando nel 1946 Winston Churchill con il discorso di Fulton nel Missouri e George Kennan con il “lungo telegramma” da Mosca diedero ufficialmente inizio alla prima guerra fredda 1. Le sue cause erano la cortina di ferro calata da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, dietro la quale – per lo statista inglese – languivano tante illustri capitali europee e tanti popoli oppressi, e l’intrinseco espansionismo ideologico e militare del comunismo sovietico, a cui secondo il diplomatico americano bisognava reagire con una strategia di containment, economico (il piano Marshall come veicolo del modo di produzione capitalistico), militare (la NATO), culturale (la stessa nozione di Occidente, nella quale si sintetizzavano i tratti differenziali di due civiltà: democrazia e tirannide, società aperta e società chiusa).
Geopolitica, economia politica, ideologia politica erano dimensioni tutte virate in senso duale. Si trattava dello scontro – immobile, bloccato, e a suo modo equilibrato – di due universalismi progressisti, ciascuno dei quali vedeva nel proprio nemico un concorrente (pericoloso ma destinato alla sconfitta) nell’impresa di razionalizzazione del mondo, di costruzione della giustizia, della pace, del benessere. La prima guerra fredda fu combattuta in un clima di paura (la minaccia nucleare era angosciosa) e a tratti di isteria (l’anticomunismo occidentale fu coriaceo e pervasivo, e l’anticapitalismo orientale fu terroristico), ma anche di fiducia nel progresso e nelle risorse di sviluppo sociale che ciascuno dei due mondi attribuiva a sé stesso.
Oggi, trent’anni dopo la sconfitta e la scomparsa dell’Urss nel 1991, assistiamo, come più che probabile conseguenza di lunga durata dell’aggressione russa all’Ucraina, all’inizio di una seconda guerra fredda. Le sanzioni imposte da Ue, Usa e altre potenze occidentali per far “pagare un prezzo” alla Russia hanno come obiettivo (non facile da centrare) di isolarla come uno “Stato canaglia”, tagliato fuori dalle dinamiche economiche, politiche e culturali della società internazionale. Una nuova era glaciale, una nuova incomunicabilità nelle relazioni internazionali, stanno occupando la scena politica mondiale.
2.
Il conflitto fra Oriente e Occidente, con epicentro in un’Europa che ha bisogno dell’America per la propria sicurezza, sembra quindi riproporsi come un destino, con toni di una durezza inaudita, perfino più aspre di quelli di un tempo. Ma le analogie sono più superficiali che sostanziali. Lo si vede se si analizza con attenzione quel conflitto dal punto di vista geopolitico.
Se la prima guerra fredda aveva prodotto, a modo suo, un ordine del mondo, la seconda si presenta invece nel segno dell’incertezza, come un momento particolarmente intenso del disordine che caratterizza la fine della globalizzazione. Oggi, infatti, a differenza di allora, il mondo non è veramente diviso in due. Molti Stati, tutt’altro che marginali, si mantengono distanti sia dall’uno sia dall’altro contendente, con un protagonismo ben superiore a quello dei “Paesi non allineati” di un tempo. E ciò vale tanto per giganti come Cina e India quanto per interi continenti, come l’Africa e parte del Medio Oriente.
Il conflitto ucraino, insomma, è ben lungi dall’essere riconducibile a uno schema duale. Nella guerra calda che l’invasione russa ha scatenato – e nella guerra fredda che ne ha tratto origine – ci sono molti aspetti e molti livelli, gli uni dentro gli altri. È ciascuno di questi vede i principali attori politici coinvolti alle prese con dilemmi e contraddizioni: nulla di paragonabile ai granitici monolitismi dei due “blocchi” del passato.
Il primo livello è la guerra civile dentro l’Ucraina, che data dagli anni Dieci del XXI secolo, e che ha come elemento scatenante il rapporto, linguistico culturale ma anche spaziale, con la Russia. Un rapporto conflittuale, che già nel XIX secolo assumeva tratti di aspro nazionalismo anti-russo, e che dalla fine del secolo XX, con l’indipendenza formale dell’Ucraina, ha dato origine alla interna lacerazione fra minoranze russofone (e russofile) e maggioranza filo-europea e filo-occidentale.
Il secondo livello è costituito dal fatto che l’Ucraina (il cui nome significa appunto “terra di confine”) è una pedina, importante, della geopolitica europea: è uno dei due perni o pilastri dell’istmo ponto-baltico fra Kaliningrad e Odessa, il cui controllo è decisivo per capire chi prevale nell’equilibrio fra Russia ed Europa; insomma, per interposta Ucraina la Russia soddisfa la propria aggiornata vocazione imperiale e fa guerra all’Europa, per intimidirla, per gravare su di essa, oltre che per allontanare da sé l’ombra della Nato – che invece, proprio per timore dell’espansionismo russo, ha guadagnato l’intera penisola scandinava, e quindi il pieno controllo del mar Baltico -.
Al suo terzo livello, la guerra ha anche una dimensione mondiale: come nelle due grandi guerre del Novecento, la posta in palio è l’intera Europa. Che nelle guerre calde del XX secolo fu contesa fra Germania e potenze anglosassoni, e che nella prima guerra fredda, e anche oggi, si contendono Usa e Russia, con allettamenti e minacce. Certo, queste non sono simmetriche, perché la Russia ha poco da offrire (a parte il petrolio e il gas, che certo è importante ma alla cui mancanza si può fare fronte) e molto da minacciare, mentre l’America offre, attraverso la Nato, una protezione senza la quale gli Stati europei sarebbero in ordine sparso davanti al dinamismo russo, che nessuno, senza gli Usa, riesce attualmente a fronteggiare.
Naturalmente, è chiaro che gli interessi degli Usa, e in subordine del Regno Unito, non coincidono pienamente con quelli europei: l’invasione dell’Ucraina ha fornito agli anglosassoni una ghiotta occasione per indebolire la Russia con una guerra di logoramento e di accerchiamento, e (pur senza minacciarne l’esistenza, il che implicherebbe il ricorso russo all’arma atomica) per tentare di estrometterla dal Grande Gioco delle potenze globali, nel quale Putin vuole invece rientrare, nonché (con riguardo agli Usa) per esercitare a basso costo politico un controllo più stretto sull’Europa. La quale da parte sua, per legittima paura, ha temporaneamente messo la sordina alle proprie interne divisioni – che tuttavia si affacciano sempre, poiché la Ue non è un’unità politica -.
Ma l’Europa avrebbe bisogno di un rapporto costruttivo con la Russia, per non essere sbilanciata, e quasi anchilosata, sulla dimensione atlantica (e, militarmente, proiettata soprattutto sul Nord-Est); e d’altra parte la Russia dovrebbe continuare a essere, come è stata in epoca zarista e (nonostante il “cordone sanitario” posto in essere dagli occidentali) anche in età sovietica, una potenza europea, sia pure “laterale”. Bruciare i ponti non è nell’interesse a medio termine né dell’Europa né della Russia: la colpa storica di Putin sta anche nel rendere impossibile una loro relazione politica fisiologica e non meramente conflittuale, e nel rischiare di consegnare integralmente l’Europa agli Usa, e la stessa Russia a un rapporto troppo stretto, e inevitabilmente subalterno, con la Cina. Eventualità, quest’ultima, che però non è utile neppure agli americani, che vedrebbero vanificati gli sforzi, iniziati da Kissinger, di separare Russia e Cina – così che l’America non deve esagerare la propria pressione sulla Russia (il che implica una per ora contenuta divergenza di posizioni all’interno dell’establishment statunitense) -.
E ciò ha a che fare col quarto livello di interpretazione: quello globale, in cui, per interposta Russia e per interposta Europa, si fronteggiano Usa e Cina: indebolendo la quale (ma non troppo) – e rafforzando d’altra parte l’alleanza occidentale – gli Usa vogliono dimostrare, al mondo e a sé stessi, che la loro egemonia globale non è in declino – si apre qui la possibilità della “trappola di Tucidide”, ovvero un conflitto strategico fra una potenza in discesa e una in salita -. Quello che è certo è che nel concetto strategico americano il baricentro dello scontro egemonico è ormai l’Indo-Pacifico, non l’Atlantico. Il contrasto alla Russia è un fronte importante e urgente, ma non è unico, e neppure quello principale. In quest’ottica, anzi, la Nato dovrebbe estendere la propria azione fino a saldarsi col sistema d’alleanze americane in estremo Oriente – il che naturalmente lascia perplessi i Paesi europei, per i quali è più che sufficiente il compito di vigilare in armi sul confine orientale -. Da parte sua la Cina ha assunto una neutralità sostanzialmente filo-russa, poiché è interessata a ricostituire la massa continentale asiatica sotto la propria egemonia; ma al tempo stesso deve anche a tenere aperta la globalizzazione economica e finanziaria, della quale ha bisogno per implementare consenso e legittimazione all’interno.
Nessuno dei grandi attori politici coinvolti ha quindi una linea d’azione univoca e vantaggiosa, o decisamente svantaggiosa: guerra calda e guerra fredda sono entrambe in divenire, soggette a dinamiche incerte, immerse nel grande disordine della “mobilitazione globale” che ha fatto a pezzi la globalizzazione. La conformazione della guerra fredda appena iniziata è ancora indeterminata perché la guerra calda è ancora in corso, e non si sa come e quando finirà; una cosa è infatti se finisce in un armistizio formale, o in una pace che dia sicurezza a Ucraina, Russia, Europa (al momento sembra che solo un miracolo possa portare a questo esito), altra cosa è invece se si trascina informalmente in un susseguirsi di tregue di fatto e di sporadiche riaccensioni del conflitto a fuoco – e ciò equivarrebbe a una ferita che non si rimargina proprio nel fianco dell’Europa, e comporterebbe la fine dell’esistenza economico-politica dell’Ucraina, ridotta a una terra desolata, e un imbarbarimento permanente delle relazioni internazionali -. È chiaro che saranno le armi, e le sanzioni, a decidere, alla fine, chi dovrà rinunciare a che cosa, e quando, per stabilire i nuovi o i vecchi confini: ma il futuro è ancora immerso nella nebbia.
3.
Non c’è solo la geopolitica – che, contrariamente a quanto si crede, fornisce chiavi di lettura non deterministiche -; la guerra calda in Ucraina ha al proprio interno anche una componente tecnico-politica – le armi anti-carro occidentali di nuova generazione, in mano agli ucraini, hanno stroncato migliaia di tank russi, utilizzati secondo tattiche “sovietiche” (che invece paiono essere efficaci nell’uso massiccio dell’artiglieria) –, mentre la nuova guerra fredda non verte più sulla corsa tecnologico-nucleare (a cui Putin ogni tanto si richiama, perché la parità atomica è stato un vanto dell’Urss, ed è la sua principale eredità passata alla Russia) ma sull’energia, sul controllo delle sue fonti, sulla diversificazione degli approvvigionamenti, sulle strategie di sostituzione del fossile. Anche qui la Russia ha grandi vantaggi, ma la superiorità tecnologica occidentale li può neutralizzare.
Oltre alla geopolitica e alla tecnologia politica il conflitto in corso ha un’evidente dimensione teologico-politica. Quello che è in atto, infatti, è anche lo scontro fra il cesaropapismo orientale della Terza Roma – mescolato all’ideologia imperiale, eurasiatica, antidemocratica e antimoderna, di Aleksandr Dugin -, da una parte, e l’individualismo secolarizzato, frutto del dualismo occidentale fra politica e religione, dall’altra. Ciò comporta, se si passa dalla teologia politica all’ideologia politica, che la Russia cessa di vedere la propria parte europea come la testa di un immenso corpo asiatico, una testa che guarda a Occidente (non sempre in modo amichevole, certamente), e si rappresenta invece come una realtà ibrida, come un impero bi-continentale che all’Europa occidentale non deve proprio nulla, e che anzi è perfettamente autolegittimata nella propria visione del mondo – mentre l’Occidente continua a percepirla come illiberale, reazionaria e attardata (e pertanto a delegittimarla) -.
Qui c’è un’altra discontinuità rispetto al passato. A differenza dell’Urss che sosteneva il comunismo, cioè un’ideologia universalistica che parlava a ampi settori dell’intera umanità, la Russia di Putin non ha una “visione del mondo” esportabile e accattivante: il suo è un imperialismo nazionalistico che non dice molto, in positivo, al resto dell’umanità. Se non per vie reattive, in negativo, cioè per protesta anti-occidentale (in molte realtà asiatiche africane), o, in Europa, per stanchezza delle conseguenze che anche su di noi, e non solo sulla Russia, le sanzioni possono produrre (gli Usa non sono coinvolti in questo aspetto del confronto).
C’è qui una delle più cruciali differenze fra le due guerre fredde, quella passata e quella nascente: oggi per gli europei le conseguenze della contesa fra Est e Ovest sono assai più immediate e percepibili. Le nostre società sono di fatto in prima linea, non tanto minacciate da un’apocalisse nucleare, improbabile, quanto da una assai più verosimile crisi economica da carenza energetica e da inflazione, che, anche se transitoria, venendo ad aggiungersi ai disagi del Covid e all’insicurezza enfatizzata dalla guerra, potrebbe avere effetti profondamente delegittimanti e dirompenti sulla tenuta dei nostri sistemi civili e politici. Non c’era un significativo “effetto boomerang”, per l’Occidente, nelle logiche e nelle pratiche della prima guerra fredda, che fu combattuta anche con l’energia e l’entusiasmo del progressismo implicito nel paradigma economico di Bretton Woods – con la ricostruzione, e con lo Stato sociale, come risposta al comunismo reale -; oggi, invece, alla sfida di Putin opponiamo società assai meno sicure di sé, e più propense a pensarsi in declino che in progresso. La tenuta sistemica e morale è la vera posta in gioco in questa guerra, che quindi per noi potrebbe risultare più costosa dell’altra.
Insomma, c’è il rischio che questa nuova guerra – che tanto nel suo versante caldo quanto in quello freddo è di attrito e di logoramento per entrambe le parti, e che si annuncia lunga e dagli sviluppi militari imprevedibili – sia decisa sul fronte interno da una serie di difficoltà reali che potrebbero portare molti (per quanto non filo-russi da un punto di vista ideologico) a chiedersi polemicamente se vale la pena di “soffrire per Kiev”, come un tempo ci si chiese se era il caso di “morire per Danzica”. Su questa ipotesi, che implica possibili cedimenti e defezioni dal fronte finora unito dell’Occidente, fa certo affidamento Putin, non a caso interessato ai partiti che raccolgono ed enfatizzano disagi e proteste – e ciò mette le forze dell’establishment nell’obbligo di farsi carico, in modo non episodico ma radicale, dei problemi delle nostre società, e di non nasconderli in un ottimismo di facciata -.
La migliore risposta che da parte nostra può venire è di operare concretamente, cioè politicamente, perché la fiducia nella democrazia – nella sua efficienza, nella sua capacità di rispondere alle esigenze di tutta la società – sia di nuovo l’arma decisiva della guerra, e al contempo il primo strumento della pace. Al di là delle molte differenze, il punto di contatto fra la vecchia e la nuova guerra fredda è che per vincere anche questa volta è necessario che le nostre società assumano un assetto economico e politico che conferisca legittimità sostanziale al modello occidentale di civiltà.