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Nella conferenza stampa prima della partita d’esordio nelle qualificazioni ai Mondiali contro la Francia, Andriy Shevchenko prende la parola in maniera vagamente robotica, come se stesse ripetendo parola per parola un testo imparato a memoria. «Non sono ancora pronto a parlare in ucraino con continuità, ma prometto che lo farò in futuro», dice senza far trasparire emozioni. Shevchenko non è a suo agio con l’ucraino, nonostante sia nato non troppo lontano da Kiev, in una regione in cui i russi sono in netta minoranza. Con la stampa del suo Paese ha deciso di parlare russo, di fatto la sua lingua madre, dove la madre in questo caso è l’Unione Sovietica della seconda metà degli anni ’70 e della prima metà degli anni ‘80, che dell’ucraino proibiva l’utilizzo. Quello che in altre epoche sarebbe stato poco più di un sorprendente aneddoto da Trivial Pursuit, nell’Ucraina del 2021 è però diventato un tema mediatico. Una questione a cui persino uno dei più grandi calciatori ucraini di tutti i tempi si sente in dovere di rispondere. Perché con la stampa Shevchenko non parla ucraino?
D’altra parte, tra l’annessione russa della Crimea e la guerra del Donbass, l’Ucraina è in conflitto con la Russia da ormai circa sette anni. Negli ultimi tempi, poi, la sua classe politica ha deciso di ricostruire l’identità nazionale attingendo a piene mani dalla sua storia pre e anti-sovietica, senza fare troppo i conti con le ambiguità a cui sarebbe andata incontro. E il calcio, che in Europa è il calcestruzzo delle identità nazionali, come sempre non ha fatto altro che metterle in mostra. Un esempio chiaro e recente, in questo senso, è quello della città di Ternopil, circa 130 chilometri a est di Leopoli, che a marzo ha intitolato il suo stadio a Roman Shukhevych. Shukhevych è stato il leader militare dell’Esercito Insurrezionale Ucraino, un’organizzazione paramilitare che è stata riabilitata a partire dall’indipendenza dell’Ucraina, ma che durante la Seconda Guerra Mondiale collaborò col nazismo e fu responsabile del massacro di decine di migliaia di ebrei e polacchi. Una decisione che inevitabilmente ha finito per scatenare la reazione di condanna non solo dell’ambasciatore israeliano a Kiev, ma anche del governo polacco, che con l’Ucraina condivide un rapporto problematico con Mosca.
Il caso di Ternopil è solo un esempio di come il contesto politico intorno a un personaggio pubblico che parla russo come Shevchenko sia radicalmente cambiato. Ma anche la sua stessa Nazionale, che ha ereditato nel 2016 da Mykhaylo Fomenko, potrebbe essere presa a sua volta come una buona vetrina delle ambiguità e dei conflitti che stanno lacerando l’Ucraina negli ultimi anni. Prima dell’inizio degli Europei, ad esempio, si è molto discusso della sua maglia. Sul giallo tipico della Nazionale ucraina è comparsa una riproduzione stilizzata dei suoi confini, all’interno dei quali è stata inclusa la Crimea. La reazione russa, inevitabilmente, è arrivata poco dopo la sua presentazione. Il parlamentare russo Dmitry Svishchev l’ha definita «una provocazione politica», mentre la federazione calcistica di Mosca ha chiesto alla UEFA il suo ritiro. Come sempre, la UEFA ha risposto con una decisione che sembrava non voler scontentare nessuno: l’Ucraina ha potuto tenere la sua controversa cartina sulla parte frontale della maglietta, ma ha dovuto nascondere il motto che riportava nella parte interna del colletto, e cioè “Gloria agli eroi”. Uno slogan nato durante la Prima Guerra Mondiale ma adottato durante gli anni ’30 del Novecento dall’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, il “braccio politico”, se così si può dire, di quell’Esercito Insurrezionale Ucraino di cui parlavamo poco fa. Non è un caso che la maglietta abbia diviso non solo in Russia ma anche nella stessa Ucraina, dove il direttore generale del Comitato Ebraico in Ucraina, Eduard Dolinsky, ha specificato su Twitter che quello fosse lo slogan di un’organizzazione «fortemente coinvolta nell’Olocausto». Ma che oggi, oltre a comparire sulle maglie della Nazionale, è stato adottato anche dall’Esercito del Paese. Riconosciuto ufficialmente, quindi, come parte integrante della nuova identità ucraina.
Ma la Nazionale di Shevchenko porta con sé le cicatrici dell’Ucraina contemporanea non solo in ciò che mostra, ma anche in ciò che nasconde. Se oggi l’Ucraina è una squadra giovane e fortemente rinnovata rispetto a quella di qualche anno fa, in parte si deve anche alla necessità di rimpiazzare alcuni giocatori che per motivi politici non sono visti più di buon occhio. Il più importante di questi è Yaroslav Rakitskiy, ex colonna portante della difesa ucraina. La sua ultima apparizione in Nazionale risale al 16 ottobre del 2018, poche settimane prima del suo passaggio dallo Shakhtar Donetsk allo Zenith di San Pietroburgo – una squadra molto vicina al presidente russo Vladimir Putin e legata a doppio filo al potere politico di Mosca dall’invasiva sponsorizzazione di Gazprom. Dopo aver aspettato per più di un anno di essere richiamato in Nazionale, Rakitskiy nel novembre del 2019 è sbottato su Instagram: «Il calcio si è politicizzato: è la paura e non il talento a guidare chi seleziona i giocatori per la Nazionale». Al suo posto oggi gioca il diciottenne Ilya Zabarnyi, nuovo volto di una Nazionale giovane meno legata al passato russo. La punta, ad esempio, è il venticinquenne Roman Yaremchuk, che nell’ultima stagione ha segnato 23 gol con la maglia del Gent e che ha esordito con due gol nelle prime due partite degli Europei, contro Olanda e Macedonia del Nord. Quando hanno chiesto a Yaremchuk se fosse disposto a trasferirsi allo Zenith per 5 milioni di euro l’anno, lui ha risposto in maniera molto netta: «No, nella situazione attuale non andrei, al 100%. Ho tutto ciò di cui ho bisogno nella vita ed è abbastanza per me». Non stupisce che in questo contesto a un’icona come Shevchenko venga richiesta un’aderenza assoluta alla nuova identità nazionale. Anche perché, in quest’ottica, Shevchenko ha molto da farsi perdonare.
Giocatore prediletto del leggendario allenatore della Dinamo Kiev e dell’ultima grande Nazionale Sovietica, Valeriy Lobanovskyi, Shevchenko ha iniziato a gravitare intorno al mondo della politica ucraina ancora prima di mettere fine alla sua carriera da calciatore. Alla fine degli anni ’90, insieme al resto della Dinamo Kiev appoggiò pubblicamente uno dei tanti partiti nati dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il Partito Social-Democratico di Ucraina – fondato, tra gli altri, da Viktor Medvedchuk, dissidente sovietico e figlio di uno dei membri dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (che, come ormai avrete capito, ritorna ciclicamente in questa storia). Una mossa che oggi non sembra del tutto spontanea, ma più probabilmente diretta dalla vicinanza politica di Medvedchuk all’allora presidente della Dinamo Kiev, Hryhoriy Surkis, che diventerà di lì a poco uno degli uomini più potenti del calcio ucraino: prima presidente della federazione nazionale, poi addirittura vice presidente della UEFA. Oggi a capo della Dinamo c’è suo fratello, Ihor Surkis.
Più propriamente di Shevchenko fu invece l’endorsement in vista delle elezioni del 2004 a Viktor Yanukovich che, con il suo Partito delle Regioni, voleva spostare a est l’asse politico ucraino con una politica che guardava a Mosca. Shevchenko allora era già uno dei giocatori più importanti del Milan berlusconiano, eppure le sue scelte politiche erano probabilmente dirette ancora dal suo passato in Ucraina, dove allora il Partito Social-Democratico era uno dei partiti che si opponeva all’avversario di Yanukovich, e cioè Viktor Yuschenko, che invece voleva un’Ucraina che guardasse a Bruxelles e più in generale al blocco occidentale. Proprio dall’iniziale sconfitta elettorale di quest’ultimo, seguita dalle violente accuse di brogli, nacque la cosiddetta Rivoluzione Arancione, che invece riportò Kiev sulla strada verso l’Europa, la NATO e il suo ambiguo presente nazionalista.
È difficile dire quanto quell’endorsement di Shevchenko venga ricordato o rinfacciato oggi in Ucraina, un paese dove comunque è piuttosto comune che le personalità pubbliche dal mondo dello sport o dello spettacolo si candidino in politica, spesso passando da una fazione all’altra. Di certo, a chi avesse l’interesse a metterlo in cattiva luce nell’Ucraina contemporanea non mancherebbero i dettagli biografici per dipingere uno Shevchenko vicino all’anima russa del paese. L’amicizia con Silvio Berlusconi, forse il più grande alleato mai avuto da Vladimir Putin in Europa occidentale, padrino del suo primo figlio, Jordan, nonché ovviamente ispiratore della squadra che segnerà per sempre la sua carriera – addirittura ancora oggi, dato che nel suo staff compaiono due figure centrali di quel Milan come Mauro Tassotti e Andrea Maldera (figlio di Luigi Maldera, ex allenatore delle giovanili del Milan). Ma anche la vicinanza a un altro imprenditore molto legato a Putin, cioè Roman Abramovich, con cui durante il suo periodo al Chelsea si diceva avesse un rapporto privilegiato, anche se Shevchenko ha sempre smentito. Secondo l’attaccante ucraino quella voce era nata proprio per il motivo che gli verrà rinfacciato anni più tardi, cioè che con Abramovich condividesse la lingua, e per provare a tagliare la testa al toro e spegnere le polemiche a un certo punto dirà: «Forse dovrei smettere di parlare russo».
Per restituire il sentimento non univoco che oggi in Ucraina circonda Shevchenko, però, forse è meglio andare alla fine della sua carriera, quando per un attimo pensò addirittura che il suo futuro fosse in politica. Era la fine di luglio del 2012: le proteste di Euromaidan erano ancora lontane di qualche mese, Yanukovich era finalmente salito al potere, e Shevchenko era tornato in Ucraina, dove aveva giocato le sue ultime partite con la Dinamo Kiev e la Nazionale, che aveva appena ospitato gli Europei. A quel punto l’attaccante ucraino sentì di aver dato tutto e annunciò il suo ritiro ma nel farlo fece un annuncio che spiazzò tutti, almeno fuori dal suo Paese: «Forse scioccherò tutti, ma il mio futuro non ha nulla a che fare con il calcio, appartiene alla politica». Il suo comunicato si fece più chiaro solo qualche giorno più tardi, quando si candidò nelle liste di Ukrajina – Vpered! (cioè Ucraina – Avanti!), guidato da Natalia Korolevska, in vista delle imminenti elezioni parlamentari. Un partito di opposizione a Yanukovich, che per un periodo aveva fatto parte del blocco che faceva riferimento a Yulia Tymoschenko (la cui incarcerazione poi incendierà le proteste a Kiev), e che aveva posizioni vaghe ma che erano più o meno riconducibili a una politica liberale, liberista e che guardava all’Europa.
La decisione di Shevchenko, quindi, rivelò una motivazione politica meno solida di quanto non sembrasse dai primi comunicati – una naïveté che si scontrava con la serietà della situazione politica a cui stava andando incontro l’Ucraina e che verrà confermata anche con la leggerezza di alcune sue dichiarazioni. Per esempio: «In politica il mio piano è quello di supportare il settore sociale e lo sport. D’altra parte, il mio slogan principale è: mens sana in corpore sano». Di fronte a queste premesse, la carriera politica evaporò al susseguirsi degli eventi in Ucraina. Ukrajina – Vpered! non riuscì a raggiungere nemmeno il 2% dei voti, rimanendo al di sotto della soglia di sbarramento, e Shevchenko finì per essere snobbato persino da un’altra personalità sportiva catapultata nel mondo della politica, la leggenda ucraina della boxe Vitali Klitschko, che con il suo partito (l’UDAR, che però in ucraino significa “pugno”) prese invece quasi il 14% dei voti. Quando Shevchenko gli propose un dibattito sullo sviluppo dello sport nel Paese, Klitschko arrivò molto vicino ad umiliarlo. «Siamo pronti a fare un dibattito con i nostri oppositori, il Partito delle Regioni che è al governo», dichiarò Klitschko. «Non vedo alcuna ragione di fare un dibattito con partiti che al momento hanno una minima possibilità di ottenere dei seggi in Parlamento».
Insomma, la breve e inconsistente carriera politica di Shevchenko, che forse era stata pensata per farlo apparire meno scollegato dal suo Paese di quanto non fosse sembrato fino a quel momento, produsse l’effetto opposto. Anzi, forse fu proprio a partire da quel piccolo fallimento che Shevchenko iniziò ad essere percepito da una parte della società ucraina come opportunista e inaffidabile. C’è una vignetta del Kyiv Post dell’agosto del 2012, ad esempio, che lo vede in fila insieme a Cristiano Ronaldo e Rooney a un banchetto ricoperto di banconote, dove Natalia Korolevska lo sta iscrivendo al suo partito. «In fila, ragazzi: ce n’è per tutti», dice Shevchenko nella vignetta. Shevchenko, quindi, non solo accusato di essere sostanzialmente un mercenario, ma anche equiparato ad altre stelle del calcio che con l’Ucraina non hanno nulla a che fare. D’altra parte, questa è un’ombra che è rimasta su Shevchenko per tutta la carriera e di cui lui stesso deve aver sentito la pressione. Al ritorno alla Dinamo Kiev, nel 2009, Shevchenko ad esempio si sentì in dovere di dichiarare che i suoi figli avrebbero parlato ucraino. «Vivo a Londra, mia moglie è americana, i miei figli hanno la doppia cittadinanza, ma io rimango profondamente ucraino», ha detto una volta.
Alla luce della sua storia, il rischio che si è assunto Shevchenko nel prendere la panchina della Nazionale come primo incarico in assoluto nella sua carriera da allenatore forse diventa più comprensibile. Perché di fronte a un torneo sorprendente dell’Ucraina, in quanti ricorderebbero ancora le sue incertezze all’interno del mondo politico del suo Paese? E in quanti sarebbero disposti invece a chiudere gli occhi di fronte alle crepe che si sono aperte sulla sua icona in questi anni? Il suo talento come tecnico è fuori discussione – l’Ucraina è una squadra rinnovata, che gioca in maniera piacevole e ambiziosa – ma è possibile che questo suo primo incarico nasca anche da una ricerca di un definitivo riscatto personale: quello di dimostrare, per quanto può sembrare assurdo, di essere ucraino per davvero. Alla fine, se ci pensate, il CT della Nazionale è il mestiere più vicino a quello del politico che esiste nel mondo del calcio.