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A margine della gara tra Bulgaria e Inghilterra dello scorso ottobre, interrotta due volte nel corso del primo tempo per insulti razzisti nei confronti dei giocatori inglesi, Aleksander Čeferin se la prese con l’inconcludenza della politica, o meglio delle istituzioni nazionali, ree di non muoversi abbastanza per contrastare una piaga che nel calcio veniva considerata “un ricordo lontano”. Otto mesi dopo le accuse lanciate dal numero uno della UEFA, le stesse istituzioni, questa volta nelle vesti del primo cittadino di Monaco di Baviera, Dieter Reiter, avevano provato a compiere quel passo in avanti richiesto, seppur simbolicamente. 

In occasione della partita di Euro 2020 tra Germania e Ungheria, l’idea era di illuminare l’Allianz Arena di arcobaleno in solidarietà con la comunità LGBTQ+ per le leggi varate da Viktor Orbán che, di fatto, paragonano l’omosessualità alla pedofilia e vietano di affrontare determinati argomenti di fronte al giovane pubblico. Un passo, però, che l’organizzazione presieduta da Čeferin ha deciso di non accogliere. “La UEFA comprende che l’intenzione è quella di inviare un messaggio per promuovere la diversità e l’inclusione, ma è un’organizzazione politicamente e religiosamente neutrale. Dato il contesto politico di questa specifica richiesta – un messaggio che mira a una decisione presa dal parlamento nazionale ungherese – la UEFA deve declinare questa richiesta”. Nella sua risposta, l’organizzazione ha avanzato altre date per colorare lo stadio – il 28 giugno, il 3 e il 9 luglio – ma non essendoci partite in programma e, soprattutto, non giocando l’Ungheria, la città di Monaco ha preferito muoversi autonomamente1. E allora, diversi edifici della città sono stati illuminati con i colori dell’arcobaleno mentre i tifosi tedeschi si sono presentati allo stadio con bandiere arcobaleno e messaggi che inneggiavano al libero amore, come l’esultanza di Leon Goretzka, un cuore dedicato alla curva ungherese dopo il gol che ne ha sancito l’eliminazione dal torneo. 

Solo qualche giorno dopo, alcuni loghi social di club e istituzioni calcistiche hanno cambiato abito, indossando i colori della bandiera LGBTQ+. Tra i tanti anche quello della UEFA, che ha tenuto a precisare che questo non rappresenti alcun “simbolo politico”, allo stesso modo delle fasce di capitano colorate indossate dal tedesco Manuel Neuer e dall’inglese Harry Kane. Insomma, non è tanto il significato incarnato dall’arcobaleno quanto l’uso strumentale che se ne voleva fare a non esser piaciuto a Čeferin. La provocazione nei confronti dell’Ungheria non rientrava nello spirito dell’Europeo da cui, secondo la UEFA, la politica deve rimanere fuori – anche se ciò non voglia lasciar intendere che la massima istituzione calcistica del continente non abbia a cuore determinate battaglie. 

Anche perché slegare la politica dal calcio è operazione complessa, talvolta impossibile. Specialmente se ad affrontarsi sono compagini nazionali, legate a usi e costumi propri di un Paese e rivendicati da un popolo come marchio di fabbrica. Acredini secolari che non nascono sul campo di calcio, ma molto più facilmente su quello di battaglia, magari per la conquista di territori e spazi attribuiti alla propria sfera di influenza. Le più note sono tra Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Spagna, anche e soprattutto per una questione di spettacolo e blasone. Ma provate a chiedere a un ceco le sensazioni che suscita una partita con la Germania o a un polacco quella con la Russia o, ancora, a quest’ultimo di una eventuale sfida contro l’Ucraina – e viceversa. Partita, quest’ultima, che si è cercato di scongiurare, almeno al primo turno del torneo, per via di quelle tensioni che da sette anni tengono Mosca e Kiev sull’attenti, a dimostrazione del fatto che la neutralità politica richiesta dal calcio (o per essere più precisi, dalla UEFA) rimane molto spesso solo su carta. 

Slegare la politica dal calcio è operazione complessa, talvolta impossibile. Specialmente se ad affrontarsi sono compagini nazionali, legate a usi e costumi propri di un Paese e rivendicati da un popolo come marchio di fabbrica.

lorenzo santucci

Proprio Ucraina e Russia sono state le protagoniste del primo scontro geopolitico a Euro 2020. Neanche era stato fischiato il calcio d’inizio della partita inaugurale all’Olimpico di Roma tra Italia e Turchia, altra sfida dal retrogusto politico dopo la categorizzazione di “dittatore” rivolta dal premier Mario Draghi al presidente Recep Tayyip Erdogan, che la maglietta della squadra allenata da Andriy Shevchenko aveva suscitato l’indignazione di Mosca. La raffigurazione stilizzata dei confini dell’Ucraina comprendenti anche la Crimea e la scritta “Gloria agli eroi” nella parte interna del colletto non sono state digerite dal Cremlino. Anzi, per dirla con le parole del parlamentare Dmitry Svishchev, sono state considerate una vera e propria “provocazione politica”. La portavoce del ministro degli Esteri, Maria Zakharova, ha denunciato lo stampo nazionalista della frase (come spiegava bene qui Dario Saltari). Da parte sua, e anche con più potere visti i ruoli, la Federcalcio russa si è rivolta alla UEFA per chiedere il ritiro della maglia. Desiderio esaudito sempre in virtù di quel principio di non interferenza tra cosa pubblica e sport figlio della cultura deCoubertiana, a cui ha fatto eco Dmitrij Peskov, voce del Cremlino: “Lo sport è sport e deve restare al di sopra dell’incitamento all’odio tra Russia e Ucraina”. La motivazione che la UEFA ha offerto riguardo la sua decisione si basa sul fatto che la simbiosi tra il motto e la cartina geografica, con la penisola annessa dalla Russia nel 2014, rientrasse in una dinamica conflittuale interna ai due Paesi che doveva rimanere fuori dal rettangolo di gioco. A prescindere da come la si pensi, però, che siano i diritti civili o una questione territoriale legata a un popolo, nel momento in cui si sceglie di prendere posizione, accogliendo così la richiesta proveniente da una delle due parti, si finisce inevitabilmente per perdere l’aura di attore super partes. Per il cambio casacca e per il divieto di illuminare l’Allianz Arena hanno infatti gongolato Vladimir Putin e il governo di Viktor Orbán2

Certo, queste vittorie simboliche non si traducono per forza in vittorie politiche, specie per l’Ungheria a cui manca l’unico appoggio europeo che conta, quello della comunità dei Paesi Ue: a Budapest, tutt’al più, è arrivata una lettera di denuncia per la legge omofoba spedita dal Consiglio europeo e firmata da diciassette Stati membri. Altrettanto vero è come, però, l’imparzialità delle istituzioni incaricate rischia delle volte di fare più rumore di una presa di posizione. Lasciar correre, insomma, non sempre ripaga.  

Proprio come non si è deciso di sorvolare su un’altra bandiera, quella croata. Neanche in questo caso l’input è arrivato dall’alto; piuttosto dall’occhio vigile di altri che hanno notato un cavillo non banale sulla maglietta utilizzata dalla nazionale balcanica guidata da Zlatko Dalić. Semplicemente, la bandiera era sbagliata: per la precisione, apparteneva al periodo sbagliato. Dopo l’eliminazione arrivata ai tempi supplementari contro la Spagna, i più attenti hanno denunciato come lo stemma al centro del petto dei calciatori, quello sotto la scritta che indica luogo e data della partita per intenderci, non rappresentasse l’attuale simbolo ideato nel 1991 dopo la disgregazione della Jugoslavia e l’indipendenza, bensì quello dello Stato Indipendente di Croazia, lo stato fantoccio istituito da Adolf Hitler e Benito Mussolini il 10 aprile 1941 e tenuto in vita fino al termine della Guerra, quando venne inglobato nella Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia. La bandiera croata si compone di tre bande orizzontali, una rossa una bianca e una blu, con al centro uno scudo a scacchi rossi e bianchi. Un ordine fondamentale quello dei colori, perché la differenza tra le due bandiere è tutta lì. Il primo scacco, dove è appoggiata una corona, invece di essere rosso era bianco, come quello della bandiera nazionalista degli Ustascia di Ante Pavelić, morto guarda caso proprio nella Spagna – all’epoca franchista – che ha sentenziato il percorso europeo di Luka Modrić e compagni. Un semplice scacco colorato nel modo sbagliato, quindi, ha sollevato un polverone sulla nazionale di Dalić, accusata di nostalgie e revanscismo, e su cui ha provato a porre rimedio Damir Kumek, il proprietario dell’azienda che si è occupata di personalizzare le maglie.  “Sono un grafico e mi occupo solo di questo”, ha dichiarato in un’intervista con cui si è assunto tutta la responsabilità, chiarendo però come non ci siano “motivazioni politiche o nazionaliste dietro questo errore”, piuttosto “solo un’involontaria superficialità”. Uno sbaglio di cui si è scusata pubblicamente anche la Federazione croata, sottolineando come non ci fosse alcuna intenzione propagandistica e celebrativa di quel periodo di collaborazione con le dittature di estrema destra.3

Il simbolo e la rappresentazione sono elementi essenziali, nel calcio così come in politica, per il messaggio che veicolano, e non tanto per l’effetto concreto che producono. La diatriba a Euro 2020 su inginocchiamento sì-inginocchiamento no, che ha visto coinvolti noi italiani in modo confuso, ne è esempio lapalissiano4. Da sempre si è considerato il giocatore di calcio come un disinteressato del mondo che lo circonda, superficiale, incapace di poter affrontare certe questioni perché privo degli strumenti necessari per poterne parlare con cognizione di causa. Vuoi per un senso di invidia o vuoi per l’immagine di se stessi che i calciatori hanno contribuito a plasmare, nel momento in cui uno di loro tende a esprimere un pensiero che esce fuori dal merito dalla sua professione viene molto spesso liquidato in quanto calciatore. 

Il simbolo e la rappresentazione sono elementi essenziali, nel calcio così come in politica, per il messaggio che veicolano, e non tanto per l’effetto concreto che producono.

lorenzo santucci

Si tratta, si badi bene, una pratica comune nel calcio che non ritroviamo in altri sport. Il simbolo di mettersi in ginocchio per denunciare le violenze contro la comunità nera, infatti, è partito da un’iniziativa di Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, disoccupato da quattro anni in ritorsione di quel gesto. La sua decisione di non alzarsi durante l’inno americano ha fatto il giro del mondo essendo stata emulata da altri sportivi e, dopo la morte di George Floyd dello scorso anno causata dal ginocchio dell’agente di polizia Derek Chauvin, è diventata l’immagine universale della lotta al razzismo. Immagine, sottolineiamo: l’intento è solo quello di sensibilizzare, non c’è nessuna pretesa o presunzione di poter cambiare le cose mettendosi in questa posizione. Così come il lutto al braccio o il minuto di silenzio, ci troviamo di fronte a un altro gesto innocuo privo di effetti immediati e concreti, ma utile per non abbassare la guardia. 

Ad ogni partita di Euro2020 si sono commentate le prese di posizione dei singoli giocatori o di intere nazionali di fronte a tale questione: alcune hanno deciso di inginocchiarsi senza sé e senza ma, altre solamente nel momento in cui lo avesse fatto l’altra squadra, per solidarietà (“ma a chi?”, si è giustamente chiesto il giornalista Marco Bellinazzo durante un dibattito in italiano sul tema organizzato dal GC), altre ancora hanno scelto di rimanere in piedi. “Gli ungheresi si inginocchiano solo davanti a Dio, al loro Paese e quando fanno una proposta di matrimonio”, aveva dichiarato Viktor Orbán, sempre lui, criticando la provocazione irlandese prima della gara dei gironi dell’Europeo: per lui c’è chi ha molto più da farsi perdonare a causa del suo passato schiavista e quindi non nella condizione di dare lezioni di perbenismo. 

Un dibattito che qui da noi si è inevitabilmente allargato alla politica, tra chi chiedeva agli Azzurri di prendere posizione seguendo l’esempio di altre squadre e chi invece proteggeva la scelta della Nazionale, chiamandola fuori da questa dialettica. La divisione tra chi si dice a favore dell’inginocchiamento venendo bollato come buonista e chi, al contrario, preferisce rimanere in piedi – e quindi automaticamente razzista – ha interessato l’intera la nostra società. In modo fazioso, non si è fatto altro che svilire il significato di una battaglia che riguarda tutti – nessuno escluso, è sempre bene ricordarlo – riducendo un gesto simbolico a mero gesto estetico. Attualizzando Ecce Bombo, la questione si è ormai ridotta a un “mi si nota di più se mi inginocchio quando lo fanno anche gli altri oppure se non mi inginocchio per niente?”. Anche in questo caso, quindi, la politica è entrata senza chiedere permesso a Euro 2020, in quanto parte inscindibile di un individuo. D’altronde come poter tener fuori un qualcosa, in tal caso un gesto, nato proprio dallo sport? 

In modo fazioso, non si è fatto altro che svilire il significato di una battaglia che riguarda tutti – nessuno escluso, è sempre bene ricordarlo – riducendo un gesto simbolico a mero gesto estetico.

lorenzo santucci

Alla fine la questione si è risolta, si fa per dire, lasciando al singolo giocatore la decisione. Anche perché, diciamocela tutta, se la pensiamo in un modo – e sul razzismo ci deve essere poca tollerabilità – e un giocatore si comporta in tutt’altra maniera, ignorando il problema, sminuendolo o, peggio, dichiarandosi apertamente contrario, è inevitabile che la nostra opinione su di lui possa subire dei cambiamenti. Sapere come la pensa su una questione che tiene banco ogni giorno ci interessa, ci fa entrare più in empatia con lui o, viceversa, ci condiziona nel giudizio complessivo. Ma qua stiamo entrando nella sfera più intima e personale dove è facile scivolare. Fa riflettere però che la sacrosanta lotta al razzismo ingaggiata dalla UEFA e portata avanti con pubblicità e iniziative si impantani in una pozzanghera come quella dell’inginocchiamento o degli stadi arcobaleno per via della sua neutralità nel non voler offendere nessuno, anche se è inevitabile che questo accada. Una tutela che include naturalmente la sfera religiosa, con le bottiglie di Heineken tolte dalle conferenze dei giocatori musulmani per non urtare il loro credo. L’azienda olandese, sponsor ufficiale del torneo, è stata interpellata, ha chiarito la UEFA, ma anche se si è allineata su questa posizione possiamo immaginare che non abbia fatto i salti di gioia. Peggio è andata alla Coca Cola, che ha visto il proprio titolo in borsa crollare dopo il consiglio di Cristiano Ronaldo sull’importanza di bere acqua5

Nulla di nuovo: la stretta connessione tra calcio e società è un vincolo dove la neutralità difficilmente trova spazio o, forse, non è proprio di casa. Perché uno è lo specchio dell’altra, perché prima di essere calciatori si tratta di cittadini e perché sarebbe ingenuo non credere che lo sport più seguito in Europa non sia veicolo di consenso elettorale. Per tale ragione c’è tutta la differenza del mondo tra giocare semifinali e finale a Wembley oppure in un’altra nazione. A pochi mesi dalla firma che ne ha ufficializzato l’addio all’Unione europea, l’Inghilterra si è ritrovata infatti ad ospitare le partite più importanti di un torneo già importante di per sé ma che, causa pandemia, ha assunto un significato ulteriore, elevato, di ripartenza. Una bella soddisfazione per Londra, dove torna una ventata d’Europa post-Brexit, sebbene gli altri leader europei abbiano spinto per giocarla altrove. 

Nulla di nuovo: la stretta connessione tra calcio e società è un vincolo dove la neutralità difficilmente trova spazio o, forse, non è proprio di casa.

Non sappiamo se la richiesta di Mario Draghi di spostare la finale a Roma o in un’altra città6, a cui si sono accodati la “preoccupata” cancelliera tedesca Angela Merkel e, con più timidezza, il presidente francese Emmanuel Macron, sarebbe stata proposta a prescindere dalla diffusione della variante Delta complice del nuovo innalzamento della curva epidemica nel Regno Unito, ma questa è stata la motivazione ufficiale adottata per provare a cambiare location. Un cambio che non accadrà, lo ha garantito la UEFA al primo ministro Boris Johnson, al quale Čeferin deve molto per aver contribuito in prima persona al fallimento della SuperLeague – anche se sembrerebbe che BoJo fosse al corrente e inizialmente d’accordo con i progetti indipendentisti dei club inglesi7. Non solo: la UEFA, nel confermare la finale, ha anche dato il suo placet per aumentare la capienza dei tifosi allo stadio, portando il limite a 60.000 spettatori, due terzi della capacità massima. L’unico cavillo a cui Londra ha dovuto sottostare è stato il lasciapassare concesso a 2.500 vip, compresi anche addetti stampa, che saranno esentati dalla quarantena obbligatoria una volta atterrati sul territorio britannico. Ma è un sacrificio accettabile, dato che uno stadio pieno significa ritorno alla vita e farlo prima degli altri, nonché in mondovisione, ha la sua logica importanza. 

Draghi e Merkel non ne facevano una questione patriottica, ma di salute pubblica. Il calcio, da più di un anno orfano dei tifosi, non può rendersi responsabile di una ripresa dei contagi: disputare una gara così seguita in un Paese dove i casi al momento sono sotto controllo sarebbe stato preferibile anche per l’Unione europea – e allora sì, perché non provare a portarla a Roma o Berlino? La città alternativa, poi tramontata, era stata individuata in quella Budapest dove gli stadi si sono riempiti prima degli altri per la brama di Viktor Orbán nel mostrare al resto d’Europa l’efficienza del suo governo nella gestione della crisi sanitaria. Calcio come specchio della società e volontà politica, di nuovo.

Il voler isolare gli Europei in una bolla riducendoli solo a un evento sportivo, dunque, anche con le buone intenzioni nel voler rispettare ogni opinione, può provocare un effetto boomerang difficile da spiegare. Il mondo esterno, con tutte le sue problematiche, non può essere lasciato fuori. Non lo vuole la società e non lo chiedono gli addetti ai lavori. Ignorare la direzione in cui si sta andando rischia, anzi, di scollare quel legame inscindibile tra sport e società, che camminano fianco a fianco. Un evento mediatico come gli Europei di calcio sono il giusto trampolino dove rilanciare determinate battaglie e affrontare temi che viviamo e affrontiamo nel nostro quotidiano. Anche solo con un gesto, un simbolo, che non si riduce mai solo a questo e può arrivare con facilità a tutti. Del resto, il vero amico dell’umanità non conosce differenza fra politica e apoliticità. E ne è consapevole anche la UEFA.