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Nelle ultime due settimane, gli occhi di tutto il mondo sono tornati sul Medio Oriente e su quel logorante conflitto che, ancora una volta, ha dimostrato di non essere affatto risolto. Dopo undici giorni di violenza, il 20 maggio è finalmente entrato in vigore il cessate il fuoco. Razzi e bombardamenti hanno provocato la morte di 248 palestinesi e 12 israeliani (6 dei quali palestinesi con cittadinanza israeliana), nonché la distruzione di buona parte della Striscia di Gaza, che – secondo alcuni – non era mai stata bombardata in modo così massiccio. Né, del resto, da Gaza erano mai partiti così tanti razzi. Una prospettiva storica della situazione è importante non solo per comprendere e mettere in prospettiva ciò che è accaduto negli ultimi giorni, ma per portare alla luce le ragioni profonde di un conflitto che si trascina da troppo tempo ed ha provocato ferite che sembrano insanabili. Un conflitto che rischia di riaccendersi da un momento all’altro. Per parlarne, abbiamo incontrato Lorenzo Kamel, Professore di Storia Contemporanea presso l’Università di Torino e direttore delle collane editoriali dello IAI – Istituto Affari Internazionali.
Il 23 maggio, a Gerusalemme, la Spianata delle Moschee – il Monte del Tempio per gli ebrei – è stata riaperta ai fedeli ebrei e ne sono da subito seguiti nuovi scontri. Potrebbe trattarsi del preludio di una nuova escalation? Per quale ragione i fedeli di tutte le religioni non hanno accesso a quelli che considerano dei loro luoghi sacri?
Per risponderle, mi lasci citare un articolo di Shmuel Rosner sul New York Times, nel quale si sottolinea l’esistenza di “un sentimento crescente tra gli ebrei israeliani affinché lo status quo venga modificato”1. Rosner non si riferiva allo status quo e alle condizioni cui sono sottoposti milioni di persone nei territori palestinesi, né all’impossibilità per una rilevante percentuale di loro di poter accedere ai propri luoghi sacri. Intendeva invece sottolineare la necessità di eliminare le limitazioni imposte ai fedeli ebrei di pregare “nel luogo più sacro al giudaismo”. Numerosi analisti ritengono che tali restrizioni rappresentino lo specchio dell’“intolleranza islamica”. “Tra il 1948 e il 1967”, ha scritto tra gli altri Charles Bybelezer sul Jerusalem Post, “non un solo ebreo ha avuto la possibilità di pregare al Muro del Pianto”2.
Le restrizioni riguardanti l’accesso al Muro del Pianto non avevano in realtà alcuna “connotazione islamica”. I fedeli ebrei avevano infatti avuto libero accesso all’area nei precedenti dodici secoli di dominazione islamica: una facoltà negata loro, per contro, ai tempi dei bizantini e dei crociati. La questione del Muro del Pianto può essere compresa solo se posta in relazione alla storia del secolo scorso, in particolare alla guerra del 1948, quando circa 430 villaggi palestinesi furono rasi al suolo e spesso rinominati. Sebbene sia importante sottolineare che ai fedeli di religione ebraica è stato impedito l’accesso al Muro per due decenni, è altresì necessario tenere a mente che ai profughi palestinesi e ai loro discendenti è ancora oggi negata la possibilità di accedere a quelli che erano i loro possedimenti in Israele.
Quali sono i numeri esatti legati a tale esodo?
Nel 1948 e 1949 circa 770.000 persone – compresi circa 20.000 ebrei cacciati da Hebron, Gerusalemme, Jenin e Gaza dalle milizie arabe – furono espulse nell’arco di pochi giorni e poi venne loro negato il ritorno con la forza. Alcune di esse fuggirono per paura, spesso dopo aver assistito al tragico destino dei loro parenti e amici. C’è poi la questione legata alle discriminazioni e alle violenze di cui furono vittime, in quella medesima fase storica, anche centinaia di migliaia di ebrei in alcuni Paesi arabi. Come ho argomentato in alcuni miei lavori3, i palestinesi non sono responsabili per quanto avvenuto a Baghdad o al Cairo, ed è storicamente e metodologicamente fuorviante creare un parallelismo tra i due esodi. Detto ciò, essi possono avanzare rivendicazioni legittime: ogni forma di violenza è ugualmente inaccettabile e deve essere studiata, riconosciuta e condannata.
Come già successo in passato, una chiave di volta da cui non si può prescindere riguarda dunque lo status di Gerusalemme. Quale potrebbe essere la soluzione più auspicabile per la Città Santa?
Gli estremismi di tutte le parti in causa sembrano avere il sopravvento. Alcuni leader islamici – nei territori palestinesi e altrove – continuano a manifestare il loro oltranzismo negando l’esistenza di un qualsiasi legame tra gli ebrei e il luogo a loro noto da millenni come “Monte del Tempio”: “chi afferma che essi [gli ebrei] abbiano un legame storico di lunga data con Israele è un bugiardo”, ha scritto ad esempio il teologo egiziano Sheikh Yusuf al-Qaradawi. “Dove mai sarebbe stato collocato questo cosiddetto Tempio di Salomone?”, ha concluso. Uno studio pubblicato dal ministero dell’Informazione dell’Autorità Nazionale Palestinese si è spinto oltre, sottolineando che nessun musulmano “ha il diritto di rinunciare a una singola pietra del Muro di Burāq”.
Sul versante opposto, numerosi studiosi – incluso il politologo dell’Università di Bar Ilan Mordechai Kedar – sostengono che “Gerusalemme è una città ebraica […] mai neppure menzionata nel Corano”, mentre diversi movimenti pseudo-religiosi hanno come “obiettivo di lungo termine” quello di “liberare il Monte del Tempio dall’occupazione araba […]. Il Monte del Tempio non potrà mai essere consacrato a Dio senza [prima] rimuovere questi santuari pagani”.
Solo due opzioni sembrano poter scongiurare un ulteriore rafforzamento degli elementi più oltranzisti. La prima è il mantenimento dell’attuale status quo nella Città Vecchia di Gerusalemme. Sollecitare un cambiamento, senza al contempo chiarire lo status dei territori palestinesi e senza opporsi alle politiche di espropriazione nei confronti della popolazione palestinese portate avanti nella città da gruppi oltranzisti come Elad, non farebbe altro che innescare ulteriori violenze. L’alternativa è l’internazionalizzazione della Città Vecchia.
Nel dibattito viene lasciato ancora ampio spazio alla ricerca di giustificazioni religiose su cui fondare una presunta primazia sulla Città Santa. Riprendendo quanto sostenuto da Bar Ilan Mordechai Kedar, è vero che Gerusalemme non è mai citata nel Corano? E quanto ciò può essere rilevante in termini politici?
Posi tempo fa questa stessa domanda a Moshe Ma’oz, che oggi è un caro amico mentre allora era il mio supervisore accademico durante gli anni che ho trascorso all’Università ebraica di Gerusalemme. “La moschea di al-Aqsa”, mi rispose, “ovvero ‘la più lontana’, di cui si parla nella Sura 17 del Corano, è certamente il frutto di un’interpretazione. Mi chiedo tuttavia che differenza faccia se Gerusalemme sia citata esplicitamente o meno. Tutto è un’interpretazione. Numerosi accademici hanno dimostrato che il racconto dell’esodo del popolo ebraico dall’Egitto è pieno di distorsioni, spesso invenzioni. Questo non cambia nulla per noi ebrei. Continuiamo a credere ai nostri miti così come altri popoli continuano a credere nei loro. Non è una questione di fatti, ma di credo. Un miliardo e mezzo di musulmani crede nell’Isra e nel Mi‘raj, il viaggio notturno del loro Profeta verso Gerusalemme. Questo è ciò che conta, a meno di non voler passare in rassegna tutti gli eventi citati nei libri sacri delle tre religioni monoteiste alla ricerca di evidenze storiche. Se facessimo così, resteremmo molto delusi”.
Queste parole penso ci aiutino a trarre due importanti insegnamenti legati agli eventi che oggi, come mille altre volte in passato, stanno infiammando Gerusalemme. Il primo è che la religione non deve essere utilizzata come strumento politico, o per negare le credenze e i “miti” degli altri. Il secondo, di nuovo, è che una soluzione duratura non può che basarsi sulla condivisione o l’internazionalizzazione della Città Vecchia di Gerusalemme, nonché su uno sforzo congiunto finalizzato a innescare un radicale cambiamento politico nello status dei territori palestinesi.
Al di là delle ragioni storiche e delle interpretazioni dottrinali che sottendono e alimentano queste tensioni, veniamo ora agli eventi degli ultimi giorni. Cercando di non confondere cause ed effetti, come possiamo interpretare questa ultima fase del conflitto? Si tratta dell’ennesima escalation di violenza o possiamo leggere in filigrana un cambiamento profondo e di più lungo periodo?
Il cambiamento profondo riguarda l’attenzione crescente delle opinioni pubbliche internazionali: c’è una crescente sete di conoscenza legata a questo conflitto, soprattutto tra i più giovani. Per il resto si tratta invece di un copione visto innumerevoli volte. Quando si raggiunge una sorta di impasse legata a Gerusalemme o a qualsiasi altro aspetto strutturale del conflitto, la Striscia di Gaza si trasforma in una sorta di valvola di sfogo. Martin Luther King era solito sostenere che “la vera pace non è l’assenza di tensione, bensì la presenza di giustizia”. Fino a quando milioni di esseri umani continueranno a vivere in un limbo giuridico e ad essere giudicati da tribunali militari, non c’è alcuna speranza che la situazione cambi. Per rendersene conto basterebbe fare pochi passi nel campo profughi di Shuafat. Sembra un luogo dimenticato dal mondo. Eppure è ad appena 4 km dal centro di Gerusalemme, la città più contesa della terra. È un luogo spettrale, con case dissestate ammassate l’una sull’altra, spazzatura ovunque, strade sterrate. Fa parte della municipalità di Gerusalemme, ma è divisa tanto da quest’ultima quanto dalla Cisgiordania da un muro che la avvolge. Nel campo vivono circa trentamila persone, molti dei quali profughi.
Quanto pesano, in questo contesto di segregazione, le considerazioni legate alla sicurezza, e quanto l’opportunità di sfruttare le risorse del territorio?
Le questioni di sicurezza giocano un ruolo importante, ma possono fare luce solo su un frammento di una realtà ben più complessa. È sufficiente ricordare che circa il 94% dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania è trasportato in Israele e che milioni di palestinesi – a differenza di quanto accade con i coloni, soggetti a legislazione israeliana – sono giudicati da corti militari israeliane: il 99,74% dei processi si conclude in condanne. Le autorità israeliane giustificano tale sperequazione di trattamento sostenendo che la Convenzione di Ginevra proibisce di alterare lo status legale di persone presenti in territori occupati. La medesima Convenzione, – così come quella dell’Aja del 1907 in relazione allo sfruttamento delle materie prime – viene tuttavia ignorata per quanto concerne il divieto imposto a una potenza occupante di trasferire, ad esempio tramite enormi finanziamenti, parte della propria popolazione in un territorio da essa occupato.
A ciò si sommano considerazioni di carattere più pratico. Caso unico al mondo, milioni di persone sono sprovviste da oltre mezzo secolo tanto di uno stato quanto di una cittadinanza. Le “potenze occupanti” presenti in contesti come ad esempio il Tibet, Cipro del Nord o il Sahara Occidentale – al netto delle peculiari caratteristiche politiche, economiche e legali di ognuna di queste aree – mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono assunte anche alcune responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate, fornendo loro una cittadinanza.
Torniamo però alle conseguenze politiche delle vicende degli ultimi giorni. Uno dei risultati dell’escalation è stato il consolidamento di un nuovo consenso attorno a Benjamin Netanyahu e al Likud, proprio in un momento in cui sembrava che il Primo ministro potesse essere estromesso dal potere da una nuova coalizione di governo.
Benjamin Netanyahu è alle prese con ben tre processi legati a gravi accuse di corruzione. In questo senso, da un punto di vista politico e come già accaduto in passato, questa crisi ha rappresentato una sorta di salvagente per il Primo ministro israeliano, che ha tra i suoi obiettivi quello di riunire intorno a sé il popolo israeliano e impedire alle forze politiche di formare un nuovo governo senza di lui. A ciò si aggiunga che le elezioni in Israele verranno posticipate all’autunno: è verosimile che Netanyahu ne uscirà come l’uomo della sicurezza, che ha tenuto testa, con il pugno di ferro, ad Hamas.
In questo contesto, la piattaforma politica del Likud, il partito del primo ministro Netanyahu, escludeva “in maniera completa”4 l’eventualità che potesse essere costituito uno Stato palestinese nell’area tra il Giordano e il Mar Mediterraneo: dal 1999, quando venne redatta, non è mai stata emendata. Ciò appare ancora più significativo se si pensa che ad Oslo, nel 1993, i palestinesi riconobbero il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Le autorità israeliane, per contro, non hanno mai riconosciuto il diritto dei palestinesi ad avere un loro stato, bensì hanno riconosciuto l’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) quale legittima rappresentante del popolo palestinese. L’approccio del Likud è peraltro riscontrabile nei principi promossi da molti altri partiti, come ad esempio Ha-Tikvah, Ha-Bayit Ha-Yehudi, ma anche Ha-Yamin HeHadash, fondato dall’ex ministro dell’Economia Naftali Bennett e dall’ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked. Quest’ultima, durante l’attacco condotto su Gaza nell’estate del 2014, pubblicò sul suo profilo di Facebook un manifesto in cui si incitava l’uccisione delle madri dei “terroristi palestinesi” perché mettono al mondo “piccoli serpenti”. Sebbene non fosse l’autrice del manifesto, Shaked lo pubblicò senza aggiungere alcun commento. Quanto a Bennett, ha più volte chiarito che “non c’è spazio nella nostra piccola ma stupenda terra dataci da Dio per un altro Stato”5.
Oltre ad un rafforzamento politico di Netanyahu, abbiamo anche assistito alla crescita della popolarità di Hamas proprio quando le elezioni palestinesi sono state rimandate, ancora una volta.
La carneficina a cui si è assistito in questi ultimi giorni nella Striscia di Gaza ci consegna una lezione importante: invece che far rivoltare i palestinesi contro Hamas, il blocco di Gaza li rende sempre più dipendenti da questo movimento estremista. Va detto che l’esistenza a pochi chilometri dalle maggiori città israeliane di un’organizzazione come Hamas, che sovente ha colpito in maniera indiscriminata i civili e che ancora oggi mantiene nel suo statuto fondante del 1988 – sebbene piuttosto diverso dal suo più recente programma politico – la volontà di distruggere lo Stato di Israele, è un affronto che pochi tra quanti criticano l’establishment israeliano sarebbero disposti ad accettare. Esiste un diritto a resistere forme di oppressione, ma ciò non implica che ogni mezzo sia lecito.
Tuttavia, come ha ricordato in una recente intervista, Hamas non viene da Marte ed è fondamentale non perdere di vista il contesto – quello della Striscia di Gaza – che ne ha visto la nascita. Qual è dunque il retroterra che ha portato alla fondazione di Hamas e in che modo può essere importante per capire la situazione attuale?
La Striscia di Gaza, 40 chilometri di lunghezza per 12 di larghezza, è abitata da circa un milione e 800 mila abitanti. La popolazione è in larga parte composta da famiglie di profughi. Molte di esse furono espulse nel 1948 da Najd, Al-Jura e al-Majdal – odierne Or HaNer, Sderot e Ashkelon, quest’ultima, una città di origini canaanite, includeva fino al 1948 al-Majdal – e trasportate con autobus nei campi e nelle città che compongono l’odierna Striscia di Gaza.
Una popolazione già provata da decenni di privazioni – l’asfissiante blocco di Gaza risale al 2007, ma l’area è sotto controllo israeliano da 54 anni – è costretta a utilizzare un’unica, inquinata, falda acquifera e a vivere in uno stato di completa dipendenza.
Lo spazio aereo, l’area marittima e le relative risorse energetiche – in particolare il gas – e l’energia elettrica – l’unica centrale presente nella Striscia è stata bombardata nel 20066 –, nonché la possibilità di spostamento tra Gaza e la Cisgiordania, sono sotto esclusivo controllo israeliano.
Quanto al retroterra storico, è bene partire dal fatto che negli anni successivi alla guerra del 1948 si verificarono diversi casi di rifugiati, o “infiltrati”, che attraversavano le linee sancite con l’armistizio per impossessarsi di beni e dei raccolti abbandonati, o per razziare gli insediamenti israeliani adiacenti alla Striscia. In quella fase storica, numerosi israeliani vennero uccisi e, al contempo, per citare lo storico Benny Morris, “le misure difensive anti-infiltrazione di Israele hanno portato alla morte di diverse migliaia di arabi, per lo più disarmati, tra il 1949 e il 1956”.
Nonostante la rabbia e le paure legate ad un passato tragico, la popolazione della Striscia di Gaza rimase in larga parte apolitica e molto esitante nei confronti dei Fratelli Musulmani palestinesi, precursori di Hamas. Il primo ramo locale dei Fratelli Musulmani, già all’epoca composto da diverse fazioni, fu fondato a Gerusalemme nel 1946.
Negli anni ‘50 e ‘60, la Fratellanza si indebolì a causa della dura repressione attuata dal presidente egiziano Gamal Nasser. In seguito, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si orientò sempre più verso la violenza e il terrorismo, una strategia che al tempo i precursori di Hamas non abbracciarono. Scelsero invece di concentrarsi su attività sociali e culturali – beneficiando per questo della tolleranza delle autorità israeliane, che li consideravano come un contrappeso al nemico principale, l’OLP – in un ambiente che si stava sempre più indirizzando verso la religione.
Tra il 1967 e il 1987, anno di fondazione di Hamas e due decenni dopo l’inizio dell’occupazione israeliana, il numero di moschee a Gaza triplicò da 200 a 600. Hamas è stata creata per l’appunto nel 1987, nel contesto dello scoppio della prima intifada. Il suo fondatore, lo sceicco Ahmed Yassin, nato ad Al-Jura, fondò il suo movimento a partire dal ramo di Gaza della Fratellanza, in gran parte dormiente, con l’obiettivo di assumere un ruolo guida nella rivolta del 1987. L’organizzazione ha effettuato il suo primo attacco contro forze israeliane nel 1989, uccidendo due soldati. Lo sceicco Yassin fu condannato all’ergastolo e 400 attivisti di Hamas furono deportati nel Libano meridionale occupato al tempo dalle truppe israeliane, dove Hezbollah e Hamas consolidarono le loro relazioni.
Iz al-Din al-Qassam, il ramo militare di Hamas, è stato fondato nel 1991. Due anni dopo, iniziarono gli attacchi terroristici in Cisgiordania e dall’aprile 1994 – due mesi dopo il massacro perpetrato da Baruch Goldstein nella moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi a Hebron – cominciarono gli attentati suicidi in Israele. Le dichiarazioni antisemite di diversi membri e dirigenti di Hamas, simili a quelle contenute nella Carta di Hamas del 1988, divennero da allora sempre più comuni.
Nel marzo 2004, lo sceicco Yassin fu poi ucciso da un attacco missilistico israeliano. Hamas sopravvisse e cominciò a partecipare al processo elettorale, ottenendo un crescente sostegno tra la popolazione locale, soprattutto grazie alle sue attività sociali e agli effetti dell’occupazione israeliana.
Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinesi del 2006, Ismail Haniyeh – il neoeletto primo ministro – ha inviato un dispaccio al presidente degli Stati Uniti George W. Bush, chiedendo di essere riconosciuto e offrendo una tregua a lungo termine con Israele e l’istituzione di un confine sulle linee del 1967. Il suo messaggio, come uno analogo inviato alle autorità israeliane, è rimasto senza risposta. Un destino simile fu riservato negli stessi mesi all’iniziativa di pace promossa dalla Lega Araba.
Come accaduto a parti inverse nel caso di diversi movimenti e partiti politici israeliani, anche Hamas era ancora lontano dall’essere pronto a riconoscere lo Stato di Israele, ma sembrava allora disposto ad adottare un approccio pragmatico.
La decisione del primo ministro Ehud Olmert di rispondere alla presa di Gaza da parte di Hamas con un blocco ha fatto il gioco dell’ala militare dell’organizzazione. Inoltre, il fallimento dell’ala politica di Hamas nel rimuovere la chiusura israeliana ha minato qualsiasi tentativo di esplorare soluzioni pragmatiche. “Le differenze tra la piattaforma del partito e la Carta Islamica [di Hamas]”, nelle parole di Menachem Klein, “non rappresentano un tentativo di inganno o l’uso vuoto e sconsiderato delle parole. Sono il prodotto di un cambiamento e di un mutamento delle linee di pensiero come parte del processo attraverso il quale Hamas è diventato un movimento politico”.
L’evoluzione pragmatica di Hamas potrebbe essere vista anche nella fase successiva all’attuazione del cessate il fuoco del 2012, mediato dall’Egitto, che avrebbe dovuto porre fine o alleggerire significativamente la chiusura di Gaza e garantire le esigenze di sicurezza di Israele. Durante i tre mesi successivi all’accordo, si è verificato un solo attacco, con due colpi di mortaio. Nello stesso periodo, Gaza ha subito incursioni regolari e alla popolazione locale è stato nuovamente impedito di condurre un’esistenza normale.
Quanto detto finora non deve essere inteso come un modo per minimizzare le pesanti responsabilità di Hamas: i razzi che minacciano le città israeliane sono, senza se e senza ma, immorali e controproducenti. Inoltre, diversi leader e simpatizzanti di Hamas si sono spesso concentrati su un’opposizione di principio a Israele, piuttosto che sul miglioramento delle condizioni del popolo palestinese. Infine, Hamas ha spesso sviato la causa palestinese dalla richiesta del legittimo diritto dei palestinesi a uno stato, – o almeno all’avere pieni diritti, dunque una cittadinanza – in favore di una disputa intra-palestinese tra Hamas e Fatah, o di una disputa tra Gaza ed Egitto riguardo il valico di Rafah.
Ma le responsabilità di Hamas non possono prescindere dal contesto e dal ruolo giocato da Israele nell’intero processo. Al contrario dello Stato Islamico (ex ISIS) e di altri gruppi simili, privi di ancoraggi profondi nelle società locali e basati su ideologie obsolete, le fazioni palestinesi sono saldamente radicate nella storia della loro terra. Sono il prodotto di molte decisioni sbagliate, ma anche di un secolo di sofferenza, di oppressione e di una lunga ricerca legata all’autodeterminazione. Qualsiasi soluzione che non affronti queste problematiche ritengo sia destinata a fallire.
Possiamo individuare un interesse politico e strategico da parte di Israele e di Hamas nel fomentare le divisioni interne ai palestinesi?
Parte dell’establishment israeliano ambisce a minare una qualsiasi possibile riconciliazione tra le fazioni palestinesi. La leadership di Hamas – che, come l’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania, è al potere senza alcuna legittimità elettorale – è ancora lontana dall’accettare la legittimità dell’altro, nonché il principio che solo il diritto internazionale, accompagnato da forme di resistenza non violenta, possano creare le condizioni per una svolta: un radicalismo – pagato a caro prezzo dalla gente di Gaza – più che mai funzionale a rafforzare le componenti più oltranziste della controparte israeliana.
Sulla “sponda opposta”, la mancanza del pieno riconoscimento di uno status collettivo palestinese su un suolo delimitato e dotato di sufficiente continuità non può che continuare a ripercuotersi sulla stessa società israeliana, con effetti controproducenti per ognuna delle parti in causa.
Uno degli effetti più evidenti è che ai giorni nostri esistono quattro distinti gruppi di palestinesi, tutti con uno status differente: i palestinesi nella Striscia di Gaza, quelli in Cisgiordania, i “residenti permanenti” di Gerusalemme est e gli arabo-israeliani. Un interlocutore “frammentato” è tanto più debole quanto meno affidabile.
Al di là del fronte legato a Gaza, in queste ultime settimane abbiamo assistito a linciaggi con pochi precedenti. In particolare città come Lod, Ramla e l’area di Giaffa, nella municipalità di Tel Aviv, sono stato teatro di scontri particolarmente efferati.
Purtroppo sì, e sono linciaggi che hanno coinvolto tutte le parti in causa. Mi lasci anche ricordare che l’espulsione di palestinesi dalle città di Lod/Lydda e Ramle nel luglio 1948 rappresentò un decimo di tutto l’esodo arabo-palestinese. La maggioranza dei 50.000-70.000 palestinesi che vennero cacciati dalle due città lo furono in seguito ad un ordine ufficiale di espulsione firmato dall’allora comandante della brigata Harel, Yitzhak Rabin. “Gli abitanti di Lydda”, chiarì Rabin, “devono essere espulsi rapidamente senza badare all’età”. Molte centinaia di loro morirono durante l’esodo per lo sfinimento e la disidratazione. Da allora e nei decenni a seguire si è cercato di costruire una qualche coesistenza, che però alla radice cova ancora rancori legati a un passato che non passa.
Le tensioni di questi giorni si stanno cristallizzando anche attorno alla scelta delle parole usate dalla stampa internazionale per raccontare ciò che sta accadendo. Da un lato si è parlato di guerra, conflitto, scontro, occupazione, oppressione, terrorismo. Dall’altro, l’attenzione si è concentrata prevalentemente su Israele e Hamas, lasciando in secondo piano Gerusalemme e i Territori occupati. Quali sono le conseguenze di tali scelte nella narrazione dei fatti?
Le parole sono fondamentali. Quando ad esempio utilizziamo la vaga espressione “Territori” per riferirsi al Territorio occupato palestinese, avalliamo e rafforziamo, più o meno consapevolmente, lo status quo. Palestinesi e israeliani non hanno mai concordato né definito i propri confini. Teoricamente, se non fosse per il consenso internazionale ribadito anche dai 138 paesi che hanno riconosciuto lo “Stato non membro” di Palestina, i palestinesi potrebbero cominciare a costruire insediamenti all’interno dello Stato d’Israele. Inoltre, l’espressione “guerra Israele-Hamas” andrebbe evitata in quanto fa scomparire i palestinesi dietro ad Hamas. Lo stesso dicasi per “arabi israeliani”: sono palestinesi con cittadinanza israeliana, dal momento che “arabi” è un’espressione vaga e il conferimento di una cittadinanza non cancella l’identità di una persona. Quest’ultimo aspetto è stato rimarcato da migliaia di palestinesi con cittadinanza israeliana, ma tali richieste non vengono quasi mai ascoltate.
D’altro canto, espressioni come “sionisti” o “entità sionista”, per riferirsi agli israeliani o a Israele, misconoscono una legittima millenaria ambizione, nonché la storia, il sentire e le scelte di milioni di ebrei e/o israeliani. Chi utilizza queste e molte altre simili espressioni non sta facendo alcun favore alla causa palestinese, bensì dimostra la propria ignoranza e i propri preconcetti. Ci sono due diritti, due storie e milioni di differenti traumi: nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di semplificare quelli della “controparte”.
Come accennava, una delle novità più interessanti di questi giorni è stato il fermento che ha attraversato la società civile internazionale. Un fermento che si è a tratti radicalizzato in una contrapposizione netta che, se da un lato ha portato ad un aumento dell’antisemitismo anche in Europa, dall’altro ha tentato di mettere a tacere proprio con l’accusa di antisemitismo chi ha condannato la risposta militare israeliana. Quanto è opportuno o fuorviante nel dibattito pubblico far riferimento alla dimensione religiosa per descrivere il conflitto?
Qualcosa sta cambiando.
L’opinione pubblica si rende sempre più conto che quello a cui stiamo assistendo non può più essere presentato semplicemente come uno scontro fra israeliani e palestinesi, e ancor meno come una frattura tra ebrei e musulmani. A dispetto delle apparenze, il ruolo della religione può spiegare molto poco ciò che sta avvenendo, tanto più che una percentuale non trascurabile di palestinesi è cristiana e si riconosce in modo completo nella causa perorata dal resto della popolazione palestinese. Per di più, tantissimi israeliani sono in prima linea per denunciare il “limbo giuridico” a cui sono sottoposti milioni di palestinesi da oltre mezzo secolo. In politica è necessario innamorarsi dei principi e non delle persone, o di una data religione o un certo gruppo etnico. I principi, se sono integri e saldi, non ti deludono. Le persone, per contro, possono deludere.
Torniamo ora al cessate il fuoco, raggiunto anche con il coinvolgimento di molti gli attori internazionali e regionali, a partire dagli Stati Uniti e dall’Egitto. Tuttavia, la comunità internazionale è stata particolarmente cauta: la risposta dell’Europa è stata evanescente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha potuto adottare alcuna risoluzione a causa del veto statunitense. Al netto delle dichiarazioni più o meno vacue a favore della pace, come possiamo interpretare il ruolo degli Stati Uniti negli ultimi sviluppi?
Storicamente, a differenza di quanto si potrebbe presumere, alcuni degli approcci più pragmatici al conflitto sono stati registrati quando alla Casa Bianca erano in carica amministrazioni a guida repubblicana. Per rimanere alle ultime tre decadi, nel 1991 George H.W. Bush fu il primo presidente a trattenere 400 milioni di dollari come “rappresaglia” per le politiche israeliane legate agli insediamenti: per contro, nel febbraio 2011, l’amministrazione Obama ha posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che definiva illegali gli insediamenti israeliani e ha accordato ad Israele una cifra mai vista prima in finanziamenti militari: 3,8 miliardi di dollari l’anno. L’amministrazione di Bush padre avviò anche il “processo di pace” a cui fu ammessa a prendere parte l’Organizzazione di liberazione della Palestina (Olp). Quella di “Bush figlio” fu invece la prima amministrazione statunitense a riconoscere il diritto del popolo palestinese a costituirsi in Stato. È ancora presto per avere un’idea chiara riguardo a come si muoverà l’amministrazione Biden, ma, a giudicare dalle dichiarazioni che abbiamo sentito in queste settimane, non sembra esserci spazio per sostanziali cambi di passo.
Eppure, 225 anni fa, l’allora presidente degli Stati Uniti, George Washington, fu molto chiaro: “un attaccamento appassionato da parte di una Nazione verso un’altra produce una varietà di mali […] Conduce inoltre a concessioni alla Nazione preferita di privilegi negati alle altre”. 7.
E il ruolo degli Europei? Possiamo affermare, come sostiene Benjamin Haddad, che sia diventata apertamente filo-israeliana?
L’Unione Europea ha un ruolo centrale nel contribuire a rafforzare alcune delle cause strutturali legate al conflitto. Molti dei droni e dei sistemi utilizzati per controllare e, in alcuni casi, opprimere i palestinesi sono finanziati con fondi pubblici europei8. A ciò si aggiungano le enormi quantità di armi, prodotte soprattutto in Germania e Francia, alcune delle quali utilizzate anche durante l’ultima guerra di Gaza. Molti paesi europei amano presentarsi come “attori normativi” che non possono fare molto per risolvere i problemi di questo e di altri conflitti.
Si tratta di una comoda scorciatoia, che può peraltro essere declinata e osservata anche in molti altri contesti. Si pensi ad esempio che la vendita di armi francesi all’Egitto è passata da 39,6 milioni di euro nel 2010 a 1,3 miliardi di euro nel 2016. Ciò a dispetto del fatto che, nell’agosto del 2013, il Consiglio Affari esteri dell’Unione europea abbia chiarito che gli Stati membri sono tenuti a sospendere le esportazioni verso l’Egitto di qualsiasi arma o strumento utilizzabile per fini di repressione domestica. Oppure, per rimanere all’Italia, ricordiamo l’enorme quantità di armi prodotte dal gruppo Leonardo – il cui maggiore azionista è lo stato italiano – che vengono esportate in Egitto. A ciò si aggiunga che l’Eni è oggi il più importante produttore di petrolio e gas in Egitto e che è responsabile dell’estrazione del 40% dell’intero greggio presente in loco. Sembra dunque chiaro che le proteste legate al caso di Giulio Regeni o in favore del conferimento della cittadinanza italiana a Zaki non sono che specchietti per le allodole di fronte a tali contratti miliardari, che hanno ben altro peso agli occhi del regime al potere al Cairo.
Indipendentemente dal coinvolgimento di vari attori internazionali, il cessate il fuoco non ha risolto le cause profonde che hanno concorso al deflagrare di questa ultima fase del conflitto. Ci sono le basi per fare un passo verso un possibile negoziato di pace o si deve credere che la tregua regga senza che nulla cambi?
Fermare i missili e i razzi era certamente la priorità. È necessario, tuttavia, evitare che il ripristino dell’ordine significhi che la componente ebraica-israeliana potrà tornare ad una vita sostanzialmente tranquilla e garantita nei diritti principali, mentre milioni di palestinesi possano continuare a essere soggetti a una violenza strutturale, per certi versi invisibile: è infatti visibile solo a quanti sono disposti a vederla.
Mi lasci anche aggiungere che ciò a cui abbiamo assistito in questi ultimi giorni porta con sé una precisa lezione: gli estremisti di ogni colore e credo si alimentano e hanno bisogno gli uni degli altri. Troppe persone hanno investito un enorme carico di energie nel tentativo, riuscito, di disumanizzare l’altro: questi ne sono i risultati.
Per quanto riguarda invece i negoziati di pace, è probabile che nei mesi e negli anni a venire assisteremo ad un ulteriore aumento dei tentativi volti a promuovere una soluzione del conflitto basata esclusivamente sul rispetto dei diritti umani, nel contesto di un singolo stato binazionale. Abbandonare o minare il principio di autodeterminazione del popolo palestinese è tuttavia rischioso. Come ha notato Sam Bahour, nel momento in cui la lotta si riduce esclusivamente ad un tentativo volto a ottenere diritti civili, “il gioco è finito, anche se la lotta per raggiungere pieni diritti si protraesse per altri cento anni”. Qualsiasi approccio volto a sostenere il rispetto dei diritti umani e civili deve essere necessariamente legato anche all’affermazione del diritto all’autodeterminazione, tanto del popolo israeliano quanto di quello palestinese.
È lecito dunque chiedersi in quale direzione sono chiamati a investire le proprie energie quanti non hanno abbandonato l’idea che ci sia ancora spazio per l’affermazione di una modica quantità di giustizia. Il riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese – includente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza – da parte di tutti i paesi membri dell’Unione Europea, che è attualmente il principale partner commerciale di Israele; l’implementazione di una più efficace politica di “differenziazione” tra Israele e il territorio occupato palestinese; l’imposizione di ferree sanzioni economiche e politiche nei riguardi di ogni attore che si ponga in contrasto con il consenso internazionale: nessuna di queste politiche è di per sé in grado di portare all’affermazione di una pace sostenibile, ma ognuna di esse rappresenta un necessario passo in quella direzione.
L’alternativa è continuare a far finta che le annessioni selettive non proseguiranno e che milioni di esseri umani possano vivere per altri cinquant’anni senza diritti e senza un futuro: oltre che una profonda ingiustizia, si tratterebbe dell’ennesimo assist in favore degli estremisti di tutte le parti in causa.
Note
- https://www.nytimes.com/2019/02/27/opinion/israel-election-two-state-solution.html
- https://www.jpost.com/opinion/op-ed-contributors/islamic-intolerance-and-the-temple-mount-347078
- https://www.aljazeera.com/opinions/2019/6/24/the-palestinian-refugees-and-the-monologue-of-the-century
- https://web.archive.org/web/20070930181442/https:/www.knesset.gov.il/elections/knesset15/elikud_m.htm
- https://www.timesofisrael.com/bennett-no-palestine-in-god-given-land-of-israel/
- https://www.limesonline.com/il-gas-di-gaza-e-gli-sprechi-dellunione-europea/43046
- In inglese: “a passionate attachment of one Nation for another produces a variety of evils […] It leads also to concessions to the favorite Nation of privileges denied to others”
- https://www.opendemocracy.net/en/how-eu-subsidises-israels-military-industrial-complex/