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Durante il suo mandato, iniziato un anno e mezzo fa, ha dovuto affrontare diverse crisi – a cominciare dalle ormai infinite Brexit e crisi migratoria, per arrivare fino alla crisi sanitaria ed economica del Covid-19. Come si si sono mossi il Parlamento e più in generale l’Unione rispetto a questa congiunzione di gravi crisi?
In primo luogo, vorrei sottolineare che per far funzionare la democrazia abbiamo bisogno di dibattito pubblico: è il solo modo per sviluppare politiche ed atteggiamenti comuni, per evitare che le oligarchie o le élites siano i soli protagonisti. Partirei da una premessa: in questo ultimo anno, abbiamo potuto verificare quanto una grande crisi ci consenta di dire chi siamo, e di trarne delle lezioni: sul come siamo organizzati, quali sono i nostri punti di forza ed i nostri punti di debolezza. E non è un caso che durante questo ultimo anno le stesse istituzioni, dirette dalle stesse persone, abbiano affrontato i due nodi cruciali della crisi in maniera molto diversa: con la risposta all’emergenza economico-finanziaria e alla sua ricaduta sociale da un lato, e con il contrasto alla pandemia sul piano sanitario dall’altro. Ovvero i due snodi fondamentali che già nel marzo 2020 si erano rivelati, nel momento in cui la pandemia si stava sviluppando e già si presentava con tutte le sue criticità.
Quali tipi di risposte abbiamo avuto da parte dell’Unione Europea? Se si analizza adesso, a distanza di un anno, la situazione sul fronte finanziario e sociale, si può notare una risposta importante e vigorosa, certo frutto di molte discussioni, dibattiti, polemiche, ma che ha comunque consentito di poter dire che l’Unione Europea ha affrontato e sta affrontando la crisi economico-finanziaria con politiche comuni.
Non sembra essere totalmente il caso, invece, per quel che riguarda la risposta sanitaria. Sebbene la sanità pubblica non sia una delle prerogative dell’Unione Europea, si è visto uno sforzo di coordinamento dei vari paesi per quel che riguarda i vaccini – sforzo criticato soprattutto da alcuni europarlamentari 1, che hanno accusato la Commissione e l’UE di essersi sottomessa ai Big Pharma. Come risponde a tale critiche?
Effettivamente, non possiamo giudicare la risposta sanitaria europea allo stesso modo di quella economica e sociale. Questo perché, pur con le stesse istituzioni, con le stesse persone, gli stessi presidenti delle istituzioni, gli stessi organismi, la mancanza di competenza ha messo subito a nudo una grande difficoltà. E questa è una prima lezione: dal momento in cui l’Unione Europea ha chiare le proprie competenze, è in grado di rispondere alle crisi. Quando invece le competenze sono confuse, viene meno l’efficacia, e se viene richiesta alle istituzioni europee un’opera di supplenza dai poteri nazionali, la risposta tarda ad arrivare. È stentata e, spesso, insufficiente. In fondo, lo sapevamo già: le attività di supplenza dell’Unione Europea non risolvono e non consentono di affrontare con decisione tanti problemi. Basti guardare al ripetuto fallimento dell’UE rispetto alla questione delle migrazioni. Fallimento legato ad un’opera di supplenza, e non di competenza, non di autorevolezza, e neppure di autorità. Credo che il Covid metta in evidenza, con la sua forte irruzione nella vita di cittadini, tali lacune. Abbiamo bisogno di migliorare il funzionamento dell’Unione se vogliamo che l’Unione risponda alle crisi che si presentano.
Lacune che erano chiare a molti di noi ben prima del Covid. È per questo che abbiamo iniziato questa legislatura, un anno e mezzo fa, con l’idea di procedere ad un adeguamento e un re-styling della democrazia europea – e che stiamo portando avanti con la Conferenza sul futuro dell’Europa. Oggi abbiamo capito, con ancor maggiore chiarezza, che i fenomeni globali non bussano alla porta, ma entrano in casa e possono fare (molto) male. E nessun paese europeo, tra i 27, anche tra coloro che si credono – a torto o a ragione – più forti degli altri, può rispondere da solo alle crisi che il mondo globale impone. Credo che questo debba costituire un assunto preliminare, sul quale fondare l’elaborazione delle lezioni apprese dal Covid. Lezioni che non vanno messe in un cassetto: piuttosto, dobbiamo farne tesoro, aiutandoci a migliorare, rendendola più efficace, la democrazia, e ristabilendo il contatto e il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Vediamo, anche sulla scena internazionale, la forte volontà dei sistemi autoritari di esprimere la propria efficienza. Efficienza che la democrazia fa fatica ad esprimere. Per questa ragione, molti insistono sulla fragilità del sistema democratico: è nostro compito, come europei, di renderlo invece un sistema più solido, capace di rispondere, con prontezza, efficienza, efficacia, ai problemi dei nostri concittadini. D’altronde, quale cittadino potrebbe mai innamorarsi di un sistema che non dà risposte ai propri problemi?
Lei parlava di fare tesoro delle lezioni impartite dalla pandemia: come si può pensare di cambiare e riformare l’Unione, integrando le mancanze e i bisogni che sono venuti a galla in una nuova Europa della sanità?
L’esperienza della risposta europea sui vaccini non è tutta da buttare via. Per un motivo: perché, nonostante un problema oggettivo di competenze sulle politiche nazionali, che restano, per l’appunto, nelle sfere nazionali in quanto competenze esclusive, l’opera di supplenza ha prodotto dei risultati positivi. Primo fra tutti: quello di chiedere alla Commissione di occuparsi dell’approvvigionamento per tutti e 27 i paesi membri. Non è un elemento da sottovalutare: perché se non ci fosse stata una regia centralizzata da parte della Commissione europea sui contratti, avremmo assistito a una guerra fra i paesi più ricchi e quelli più poveri dell’UE. Avremmo avuto una capacità di approvvigionamento elitario, che non avrebbe consentito nessuna risposta in modo integrato da parte dell’Unione.
Qual è dunque l’assunto fondamentale? Che abbiamo bisogno di una politica europea sulla salute umana. Qualsiasi cittadino ragionevole, dalla Finlandia fino a Cipro, si rende conto che, rispetto a pandemie ed a questioni sanitarie di grande portata, l’Unione deve avere gli strumenti per poter affrontare questi fenomeni, che si manifesteranno in futuro con altrettanta forza. Abbiamo dunque bisogno di trarre delle lezioni dall’insufficienza e dei limiti dell’Unione, per farne un punto di forza. Mi ha molto rallegrato il fatto che, diversi mesi fa, la cancelliera Merkel abbia cominciato a parlare di una politica sanitaria europea. Per fare un esempio, siamo usciti, nel 2000, dalla crisi della mucca pazza – non paragonabile alla pandemia del Covid-19, ma che rimane comunque una grande crisi -, con una politica europea per la salute animale. Oggi quelli standard sono importantissimi. Ci permettono di tenere alto il livello della salute animale, con tutte le implicazioni che questo comporta: nella produzione, negli allevamenti, nella protezione della salute umana… Abbiamo fatto tesoro di quell’esperienza e oggi quella politica europea rimane un punto di riferimento in tutto il mondo. Non possiamo uscire dal Covid senza una politica europea per la salute umana: credo che avremmo, se così fosse, perduto una grande occasione. E non soltanto dal punto di vista estetico – ovvero dotare l’Unione di maggiori poteri; ma anche e soprattutto per dare una risposta ai cittadini. Credo che questa sia la scommessa sulla quale dovremmo riflettere.
Tutto questa verrà discusso nella Conferenza sul futuro dell’Europa?
La Conferenza è un luogo di dibattito dove dobbiamo pensare e riflettere su come dotare l’Unione di nuovi strumenti. E oggi quale argomento più forte e più condiviso dalle nostre opinioni pubbliche che la salute? Quindi credo che questo sia un tema centrale per la Conferenza. Lo è certamente nelle priorità che il Parlamento ha indicato come tema di discussione per cercare soluzioni che rendano il funzionamento dell’Unione più efficiente .
Sull’efficienza, da un punto di vista economico: lei spesso ha sottolineato l’aumento della povertà e delle diseguaglianze causato dalla crisi. Per un rilancio economico favorevole a tutto lo spazio comunitario, l’UE ha deciso di sospendere il Patto di Stabilità: perché non continuare sulla stessa strada, annullando il debito Covid detenuto dalla BCE – come da lei già evocato? Qual è realmente il ruolo del Parlamento nella politica monetaria?
Abbiamo sperimentato in questo periodo delle cose nuove. Dobbiamo esserne molto contenti, perché non sono meccanismi proveniente da una previa esperienza, ma inventati ad hoc per rispondere alla crisi del Covid. Abbiamo allentato e sospeso il patto di stabilità e crescita; abbiamo sospeso il meccanismo degli aiuti di Stato; abbiamo inventato un sostegno alle casse integrazione finanziato con bond europei. Per la prima volta, la crisi ci ha offerto, nella sua drammaticità, delle occasioni per superare alcuni paradigmi del passato.
Io sono convinto, ma credo che sia generalmente riconosciuto, che sarebbe inutile e dannoso pensare che dopo il Covid si possa tornare al mondo di ieri. Non siamo in un film, in cui si riavvolge la moviola e si torna al punto di partenza. Perché il Covid ha già cambiato le nostre vite. E ha cambiato la percezione dell’utilità dell’Unione europea. Dobbiamo insistere, perché strumenti nuovi possono consentirci di immaginare il nostro futuro. È facile vedere che tutti i paesi europei stanno facendo debiti. Basta guardare ai grafici, in costante aumento. Qual è la causa? La risposta al Covid ha consentito di spendere tanti soldi. Questi soldi producono debito: e non è un fenomeno italiano, francese o europeo, è un fenomeno mondiale. Sarà possibile riequilibrare il debito con la crescita, con lo sviluppo, con il lavoro – ovvero con i nostri punti di forza? Questa domanda rimane aperta. Sono convinto che ai debiti dobbiamo rispondere con una politica di sviluppo più decisa. Se così non fosse, lasceremmo ai giovani ed alle prossime generazioni una montagna di debiti, e avremmo sulle nostre spalle una grande responsabilità: quella di aver lasciato non solo alle generazioni future dei forti vincoli alla propria vita, ma soprattutto alle persone e alle fasce sociali più deboli. Un fardello davvero pesante. E allora, io credo – non avendo una ricetta, e non volendo averla – che il tema debba essere all’ordine del giorno di un dibattito pubblico. Io vorrei, e lo dico da Presidente del Parlamento, che ci fossero tante idee e invenzioni per poter rispondere ai nostri problemi. Ma certamente non sono i paradigmi del passato a poterci aiutare. Perché prima del Covid una certa idea di crescita neoliberista ha fatto aumentare le diseguaglianze, non le ha fatte diminuire.
Per l’appunto, sui nuovi paradigmi economici: dal 1944, le misura di crescita e di sviluppo economico fanno riferimento al PIL, senza prendere in conto le sfide della parità di genere, della sostenibilità e dell’ambiente, tematiche prioritarie per l’UE. Come potrà essere valutato il raggiungimento di tale obiettivi? Con quale strumento di misurazione?
L’Europa deve essere contenta di una cosa: senza essercene resi conto, siamo entrati nella crisi del Covid con un’idea di fondo, ovvero quella del Green Deal. E siamo stati fortunati: perché dalle elezioni del 2019 fino al Covid abbiamo elaborato un punto di vista che deve e dovrà condizionare la nostra idea di sviluppo. Ciò non è banale. Siamo entrati nella crisi sanitaria con una certa lettura della contemporaneità e degli impegni che l’UE aveva già preso per il futuro: arrivare al 2030 e al 2050 come primo continente ad emissioni zero, e con una logica di transizione che deve consentire di non lasciare indietro nessuno. Non possiamo permetterci di arrivare al 2050 lasciando indietro alcuni dei nostri paesi, le nostre società, i nostri lavoratori, le nostre imprese (o chiudendole – perché naturalmente è più facile chiuderle che trasformarle). È questa la lettura e il piano che l’UE ha già fatto, consentendo di essere un po’ più avanti degli altri nel lavoro da svolgere. Perché il Piano di ripresa Next Generation EU – che ci ha fatto discutere e litigare – alla fine prende spunto da una riflessione già avviata, che si fonda sugli impegni del Green Deal, su un’economia sostenibile, non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello sociale, e su un’idea di transizione che tenta di recuperare gli svantaggiati.
In questi giorni stanno arrivando tutti i piani di ripresa nazionale: saranno valutati secondo degli schemi che la Commissione ha già indicato, non difficili da seguire, dato che tutti i paesi hanno avuto la possibilità di adeguare la loro proposte. Anche qui, siamo coscienti di aver introdotto una novità, ovvero di dare soldi ai nostri paesi perché siano utilizzati in vista di obiettivi comuni: se si vogliono raggiungere gli obiettivi del Green Deal, si ha bisogno, passo dopo passo, progetto dopo progetto, di far convergere tutte le iniziative dei 27 paesi intorno a degli obiettivi comuni. Questo è lo spirito e il meccanismo che impegnerà la Commissione e il Parlamento nella valutazione dei piani nazionali.
Abbiamo notato, durante e pre-pandemia, una crescita dello scontento nella popolazione (sia nei paesi OCSE che non OCSE), che sembra chiedere profonde riforme della democrazia, con la riformulazione di un contratto sociale e di un New Deal (come propone ad esempio il Presidente Macron nell’intervista al Grand Continent) per poter uscire dalla crisi. In questo senso, come si potrebbe riformare il funzionamento delle istituzioni europee – dando, per esempio, più peso al Parlamento?
Anche qui, non partiamo da zero. Abbiamo un sistema e un funzionamento dell’Unione che, sulla base dei trattati, può potenzialmente assumere tante forme non ancora sperimentate. Per migliorare il funzionamento dell’Unione, necessiteremo non solo di cambiare i Trattati, ma anche di applicarli. Effettivamente, molte parti dei nostri trattati restano indefinite.
Il Parlamento europeo è un co-decisore: ha delle funzioni superiori a quelle del Congresso americano. Inoltre, ha la capacità di diffondere il pluralismo all’interno delle nostre istituzioni, cosa che consente un dialogo importante tra i cittadini e le realtà territoriali.
Detto questo, siamo convinti che questo sia il momento per aumentare la capacità e la centralità del Parlamento, ampliando il suo potere di iniziativa: dopotutto, tutti i sistemi democratici hanno il Parlamento al centro della loro visione. Cosa vuol dire? Che il Parlamento non deve essere soltanto il punto di arrivo di proposte provenienti dalla Commissione, ma anche il punto di partenza di proposte da discutere con la Commissione e Consiglio. Avere più potere di iniziativa potrebbe già consentire un maggior ruolo del Parlamento. Come abbiamo già detto, le crisi costituiscono un importante strumento per mettere a fuoco i punti di forza e di debolezza; in questo momento, notiamo, da diversi mesi, che il funzionamento basato sui triloghi funziona bene. Tutte le iniziative legislative che vengono discusse da organi con poteri legislativi operano molto bene, dato che siamo tutti impegnati a dare risposte alla stessa crisi. In questo senso, il Consiglio dell’UE o il Consiglio europeo potrebbe proporre una riforma. Riforma necessaria al confronto tra i diversi organi istituzionali, da sempre squilibrati nel loro potere: il Consiglio europeo (che rappresenta i leader degli Stati membri) non ha poteri legislativi, a differenza del Consiglio dell’UE. Per un miglior funzionamento dell’Unione, queste due funzioni potrebbero essere meglio integrate, consentendo una responsabilità maggiore anche alla dimensione governativa.
La Conferenza sul Futuro dell’Europa sembra essere uno strumento di risposta proprio al bisogno e alla richiesta da parte dei cittadini di avere più voce. In questo senso, si cerca di farli partecipare, ma anche di comunicare con il più ampio pubblico possibile tematiche relative alle politiche pubbliche e ai problemi dell’UE. Facendo riferimento a tale iniziativa, quali sono le possibili riforme, già presenti al suo tavolo da Presidente, volte a creare una piattaforma democratica più inclusiva a lungo termine, un’“Europa dei popoli”?
La nostra lista, per quel che riguarda la Conferenza 2, include in particolare alcuni temi riguardanti la funzione e l’identità dell’istituzione parlamentare. Per esempio, la possibilità di avere parlamentari eletti sulla base di un principio di eguaglianza, grazie a una nuova legge elettorale. Fino ad oggi, i parlamentari sono sempre stati eletti in modo molto diverso fra loro, in funzione dei loro paesi di provenienza. Credo che mettere un po’ di ordine nella legge elettorale europea attribuisca, rispetto all’opinione pubblica, una maggiore autorevolezza e riconoscibilità al mandato parlamentare.
Un altro esempio è quella degli Spitzenkandidaten – idea molto politica, poi disattesa perché non contenuta nelle nostre regole e Trattati. Ovvero: nelle scorse legislature, abbiamo fatto delle elezioni basate su famiglie politiche che indicavano i loro riferimenti per la Presidenza e la Commissione; riferimenti poi naturalmente disattesi, dato che il funzionamento e composizione della Commissione avviene in tutt’altro modo. È giusto dare la possibilità ai cittadini ed al Parlamento di indicare le proprie preferenze, al momento delle elezioni della Presidenza della Commissione? Se sì, credo sia assolutamente necessario chiarirlo, regolando il sistema e discutendolo con più precisione. Non può essere limitato a semplice indicazione politica; dovrebbe essere contenuto nelle nostre regole. Questo è un esempio di strumento per poter consentire al Parlamento, ed alle istituzioni europee in generale, di funzionare meglio.
Questo mi porta a parlare del rapporto, a volte difficile, tra dimensione comunitaria e dimensione governativa: so che nell’ambizione dei giovani – ma anche nella mia – la dimensione comunitaria dovrebbe prevalere. Sono convinto che in futuro andremo in questa direzione. Ma oggi dobbiamo guardare con un po’ più di pragmatismo e di concretezza a ciò che abbiamo davanti. In questo senso, abbiamo soprattutto bisogno di ricomporre gli equilibri, più che pensare che una dimensione debba prevalere sull’altra. Questo non sarebbe possibile oggi. Dobbiamo lavorare perché l’Europa sia giudicata conveniente. E quando lo sarà, credo che la dimensione comunitaria prevarrà. La convenienza è un concetto a cui dobbiamo sempre riferirci. Questo vale per l’Unione europea, ma anche per i nostri sistemi democratici. Il rapporto di consenso con le nostre opinioni pubbliche è dato dalla convenienza. È conveniente essere liberi; è conveniente la democrazia; è conveniente la solidarietà, è conveniente che tanti paesi lavorino insieme e migliorino insieme le loro performance; è conveniente sostenersi a vicenda. L’idea di convenienza è dunque fondamentale per il processo della Conferenza sul futuro dell’Europa, ma più in generale per l’iniziativa politica, al fine di spingerci a migliorare il nostro funzionamento.
Quali sono i risultati attesi e le implicazioni pratiche dirette della Conferenza sul futuro dell’Europa?
Vogliamo coinvolgere i cittadini nel plasmare il futuro dell’Europa. Gli eventi in Campidoglio a Washington ci hanno ricordato che le democrazie sono fragili e non devono essere date per scontate. Dobbiamo ricreare i legami con i cittadini, rinnovare il nostro contratto sociale e democratico, e dare ascolto alla richiesta da parte dei cittadini di essere più coinvolti nel processo decisionale e nelle politiche che riguardano la loro vita quotidiana, dato che potrebbe non essere sufficiente esprimersi attraverso il solo voto a loro disposizione, una volta ogni cinque anni. L’obiettivo della Conferenza è quello di innescare quella partecipazione, quell’impegno, raggiungendo i cittadini di tutti i ceti sociali per ascoltarli e per coinvolgerli in molti eventi, compresi i nostri panel di cittadini europei, dove potranno fare raccomandazioni che dovranno essere seguite dalle istituzioni europee.
Se il messaggio che riceviamo è che i cittadini credono che siamo più forti insieme, e che l’Europa è la scala pertinente per affrontare le sfide globali, se vogliono un ruolo più forte per l’UE nella sanità pubblica per combattere le pandemie, se vogliono che l’Europa sia un leader globale nella lotta contro il cambiamento climatico, allora dovremo considerare di concedere all’UE i mezzi adeguati per renderla più resistente, più efficiente e più legittima. La posta in gioco è alta, non possiamo fingere di tornare al mondo pre-Covid.
Come saranno selezionati i cittadini che parteciperanno alla Plenaria (accanto a deputati ed eurodeputati) e che rappresentatività avranno? L’approccio adottato dalla Conferenza non rischia di allontanarsi dal principio della democrazia rappresentativa alla base delle società europee, utilizzando un approccio “populista”? O è proprio questo lo scopo?
Il modo in cui il Consiglio Esecutivo della Conferenza deciderà quali cittadini saranno scelti per comporre la Plenaria è ancora da definire.
Tuttavia è probabile che un certo numero di cittadini che saranno presenti nella Plenaria saranno dei rappresentanti dei “Panel dei cittadini europei”, ovvero degli eventi organizzati dalle istituzioni europee. Questi panel saranno composti da 200 cittadini e selezionati in modo casuale sulla base di una serie di criteri per garantire che siano rappresentativi della diversità dell’UE, come indicato nella dichiarazione congiunta. Questi cinque criteri coprono la nazionalità, la dicotomia urbano/rurale, il sesso, l’età e il background socioeconomico. Inoltre, ci sarà un’attenzione specifica sui giovani, dato che un terzo dei cittadini che compongono il panel dei cittadini avrà tra i 16 e i 25 anni. Dopotutto, il futuro dell’Europa riguarda soprattutto loro.
Credo che sia necessario modernizzare le nostre democrazie e adattarci ad un mondo in rapida evoluzione. Come ho detto prima, dobbiamo trovare nuovi modi o usare meccanismi di consultazione che permettano ai cittadini di esprimere le loro opinioni su questioni che li riguardano. Tali meccanismi sono stati testati in molti luoghi e hanno dato risultati positivi. Permettono anche ai cittadini di sostenere le loro responsabilità e di coinvolgersi in modo diverso nella vita pubblica. La Conferenza è un’opportunità unica perché per la prima volta i cittadini saranno al centro di questo enorme esercizio democratico. Ma potremmo pensare di mettere in atto un meccanismo di consultazione permanente. Lo considero uno strumento complementare alla democrazia rappresentativa.
Gli altri – i paesi vicini all’UE – saranno coinvolti nel processo di riflessione della Conferenza?
Il nostro messaggio per i paesi vicini è molto chiaro: non vogliamo che facciano solamente parte di un piano di approvvigionamento dei vaccini europei, ma che siano coinvolti nell’attuale fase di riflessione, ovvero nella Conferenza per il Futuro dell’Europa. In particolare vorremmo che le opinioni pubbliche, le società civili dei Balcani occidentali partecipino alla nostra Conferenza sull’identità dell’Europa, perché riguarda anche il loro futuro.
In generale, l’approccio dell’UE non è quello di usare la propria macchina economica per generare conflitti, ma vogliamo usare le nostre qualità per rafforzare le nostre capacità di dialogo con gli altri paesi, anche quelli molto distanti da noi.
Uno dei temi trattati nella Conferenza sarà l’eterno problema dell’immigrazione: dal 2009, la gestione della crisi migratoria è una delle sue priorità. Eppure, per l’ennesima volta, il 22 aprile, 130 persone proveniente dalle coste libiche sono rimaste disperse in mare. Lei ha denunciato l’inerzia dei paesi membri di fronte ad “una vicenda dolorosa” e ha richiesto che “i governi nazionali diano poteri e mandato all’UE per salvare vite”. Le hanno dato ascolto? Ed a che punto sta la revisione dei trattati di Dublino di cui si parla da quattro anni?
No, non mi hanno dato ascolto. Molti governi pensano che la crisi migratoria sia un problema di pochi paesi. Così stiamo andando avanti, da anni, con un’Europa priva di poteri per poter intervenire, potendo fare, come dicevamo sopra, un lavoro di sola supplenza. Ovvero: l’Europa può certamente mettere un po’ di soldi e garantire alcune macchine organizzative, però il suo impatto sarà sempre limitato. E così, la questione dei migranti resta sulle spalle dei Paesi nei quali arriva soprattutto la povera gente. Questo è il quadro attuale.
Vorrei sottolineare tre punti a questo riguardo. Come prima cosa, dobbiamo cambiare il nostro punto di vista: deve essere considerato conveniente avere canali legali. Prendete l’esempio del Canada: per rilanciare la sua economia, ha aumentato del 3% il rilascio dei visti regolari di fronte ad un forte bisogno di manodopera delle sue fabbriche e attività imprenditoriali.
In secondo luogo, abbiamo bisogno di corridoi umanitari legali, cosa che non può essere messa in atto dai soli stati nazionali, ma che necessita una coordinazione al livello europeo. Serve dunque un mandato all’Europa per poter organizzare tali corridoi umanitari, dato che abbiamo un dovere nei confronti di quelle donne e di quegli uomini in stato di difficoltà. Su questo dobbiamo farci sentire; dobbiamo far capire alle nostre opinioni pubbliche, alla società civile – in termini, quasi, di pedagogia civile – che l’Europa non è un bastione o una fortezza inespugnabile, ma un ente al servizio di tutti.
Terzo, dobbiamo implementare un’operazione al livello europeo simile all’italiana Mare Nostrum, ma in mano alle istituzioni europee. La gente semplicemente non può morire in mare per arrivare da noi! È nostra responsabilità essere concreti, e portare avanti questi tre punti con pragmatismo. Questo aldilà della riforma del Trattato di Dublino, sulle quali ho lavorato per un’intera legislatura, vincendo peraltro la battaglia, sebbene i governi non stiamo applicando i risultati raggiunti.
Infine, trovo sinceramente intollerabile che la Commissione Europea debba continuare a perdere tempo invitando gli Stati membri ad accogliere qualche decina di persone, non avendo invece la possibilità di imporlo all’interno dello spazio europeo. Inoltre, abbiamo un estremo bisogno delle voci dei cittadini: non possiamo stare ad ascoltare solo quelli che dicono di non volere i migranti, abbiamo bisogno di sentire la voce di coloro che invece li vogliono accogliere. Perché la politica, in Europa, funziona con il consenso. Necessitiamo dunque di un sussulto della società civile e delle nostre opinioni pubbliche per richiamare la politica alle proprie responsabilità. Questa ferita, che duole e pulsa ogni settimana, deve essere sanata. Senza avere l’arroganza di pensare di poter risolvere tutti i problemi da soli, dobbiamo spingere per nuove iniziative, per far capire che siamo un grande continente, dove le persone che vengono da fuori possono venire a vivere e lavorare con noi.
La solidarietà, principio di base che lei fa proprio, non è sinonimo di carità, ma di alterità. In che modo il Parlamento può accompagnare il cambiamento di paradigma dell’UE nei confronti dei paesi in via di sviluppo, passando dalla “carità” al vero e proprio partenariato? Ad esempio, il Presidente Macron parla “della conversione degli sguardi con l’Africa e della reinvenzione dell’asse afro-europeo”. Come ripensare il sistema di cooperazione?
Io sono sempre più convinto che il nostro destino e il destino africano si incrocino – basti guardare alla vertiginosa crescita del continente africano in termini demografici.
In questo momento, con l’Africa stiamo operando su due livelli. Innanzitutto, vorrei precisare che non è nostra intenzione utilizzare i vaccini come strumento politico, bensì come strumento di solidarietà. E possiamo dire di essere fieri di aver destinato il 60% delle dosi totali dei vaccini allo spazio europeo e il 40% ai paesi a medio e basso reddito tramite Covax. Non tutti i paesi del mondo possono dire la stessa cosa. In questo senso, il vaccino non deve essere inteso come strumento geopolitico, ma come investimento per il bene di tutti. Con l’operazione Covax, stiamo approntando quattro stabilimenti per la produzione in Africa, concedendo le licenze per poter produrre i vaccini. Un’iniziativa importante, che consentirà più sicurezza e più lavoro.
L’Europa potrebbe dunque portare avanti una nuova idea di multilateralismo? Ci sono oggi elementi che ostacolano o che favoriscono l’idea di solidarietà e alterità che l’UE tenta di fare proprie?
Una grande preoccupazione riguarda i conflitti e le crisi ai nostri confini: paesi che hanno scommesso su una deriva autoritaria, stravolgendo le loro regole; paesi dove esistono dittature della maggioranza; paesi che hanno fatto tanti passi indietro sui diritti delle donne e dei giovani. Siamo al centro di diverse crisi, alle quali dobbiamo prestare molta attenzione.
Su una cosa dobbiamo essere sicuri di noi stessi: voler contrastare tutto ciò che cerca di dividerci. In questo senso, bisogna tenere a mente che le intrusioni, le ingerenze, le fake news e la propaganda sono fenomeni molto concreti, che non solo hanno l’effetto di condizionarci, ma anche quello di dividerci. Ecco perché guardiamo con molta fiducia al cambio di amministrazione negli Stati Uniti. Aspettiamo la visita del Presidente Biden a giugno in Europa – sperando venga anche al Parlamento Europeo, per condividere un messaggio chiaro: che, a differenza di tutti gli sforzi fatti dalla precedente amministrazione nel dividere gli europei, oggi gli Stati Uniti guardano all’Europa cercando di camminare insieme e affrontare insieme le nostre sfide comuni. Ciò è rincuorante, dato che l’UE ha sempre pensato che i rapporti multilaterali con gli Stati Uniti non debbano essere abbandonati: i segnali provenienti da Washington sono incoraggianti e sembrano andare nella stessa direzione. Inoltre, il ritorno degli Stati Uniti nell’accordo di Parigi rimane un segnale molto importante. Abbiamo davanti a noi tante sfide, e dobbiamo guardare al futuro con fiducia e senza farci prendere dal panico. Se c’è una lezione che abbiamo imparato in quest’anno è che noi siamo in grado di guardare alle possibili soluzioni senza tabù: dobbiamo rafforzare questa capacità.
Note
- Ad esempio, l’europarlamentare Manon Aubry, copresidente del gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica, che, durante un discorso in Parlamento, ha accusato la Commissione di essersi “inchinata al cospetto dei Big Pharma”, sottolineando i ritardi nella consegna dei vaccini e la non-trasparenza dei contratti resi pubblici (in particolare, per quel che riguarda AstraZeneca).
- La Conferenza sul futuro dell’Europa è una serie di dibattiti e discussioni avviati sotto iniziativa dei cittadini, nata come comune iniziative della Commissione, Parlamento e Consiglio, che agiscono in qualità di partner paritari insieme agli Stati membri dell’Unione europea.
Le discussioni sono articolate secondo diversi argomenti: “Cambiamento climatico e ambiente”, “Salute”, “Un’economia più forte, giustizia sociale e occupazione”, “L’UE nel mondo”, “Valori e diritti, Stato di diritto, sicurezza”, “Trasformazione digitale”, “Democrazia europea”, “Migrazione”, “Istruzione, cultura, gioventù e sport”…
Come si legge nella Dichiarazione Comune, la Conferenza vuole essere un processo “dal basso verso l’alto”, incentrato sui cittadini, e che consenta agli europei di esprimere la propria opinione su ciò che si aspettano dall’UE. Gli eventi possono essere svolti a diversi livelli (europeo, nazionale, transnazionale, regionale).
I contributi di tutti gli eventi saranno raccolti, analizzati, e pubblicati nel corso dell’intera conferenza, affiancando un meccanismo di feedback per garantire che le idee formulate sia tradotte in raccomandazioni concrete. È istituito un comitato esecutivo, co-presieduto dalle tre istituzioni, responsabile dell’adozione per consenso ai lavori della conferenza e ai suoi processi e coadiuvato da un Segretariato comune; inoltre, ogni sei mesi, è organizzata una sessione plenaria della conferenza, al fine di garantire che le raccomandazioni dei diversi panel siano presi in considerazione. La sessione plenaria è composta da rappresentanti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, da parlamentari nazionali e da cittadini.
Il risultato finale della conferenza sarà presentato in una relazione destinata alla presidenza congiunta, che esaminerà come dare un seguito efficace a tale relazione.